Il pentolino magico – Jachob y Wilhelm Grimm

Il pentolino magico - Jachob y Wilhelm Grimm

Il pentolino magico – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un contadino che aveva una figliola. Egli andava a giornata; la figliola filava stoppa o tesseva tela per conto delle vicine: così si guadagnavano la vita.
Avvenne una gran siccità: nei campi non nacque un filo d’erba, e non ci fu più da lavorare per nessuno dei due. Avevano un gruzzoletto, messo prudentemente da parte nel buon tempo, e per parecchi mesi poterono tirare innanzi, vivendo quasi a pane e acqua. Il padre sospirava pensando all’avvenire; ma la ragazza, gioviale anche con la miseria, canticchiava da mattina a sera,come quand’era al telaio e con la rocca al fianco e lo stomaco pieno. Il padre brontolava: – Con che cuore canti? Ci rimane da mangiare appena per altri due giorni!
 
– Quando sarò morta, non canterò più.
– Mentre parlavano comparve sulla soglia una donna scarna, allampanata, che pareva il ritratto della fame.
– Fate la carità, buona gente!
– Siamo più miseri di voi, – rispose il padre. – Rivolgetevi altrove.
 
La ragazza invece prese la pagnottella che doveva essere il suo desinare di quel giorno e la porse alla vecchia:
– Mangiatela voi per me.
– Grazie, figliola.
Intascata la pagnottella, la vecchina cavò di sotto lo scialle unto e stracciato una padellina nuova di rame:
– Tieni, figliola; non ho altro; forse ti servirà.
 
E andò via. La ragazza si rimise a canterellare, picchiando con le nocche delle dita sulla padellina, che dava un bel suono; poi, per gioco, la posò sul focolare spento e, ridendo, disse al padre:
– Che volete? Una costoletta? Una frittata? E non aveva ancora finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto.
– Oh, che miracolo, figliola mia! Siamo ricchi!
 
Nella padellina fumavano due costolette da bastare anche per quattro persone; e quando furono cotte, il fuoco si spense da sé. Metà ne mangiarono padre e figlia, metà ne spartirono tra le vicine più povere di loro. L’odore si sentiva per tutta la via.
D’allora in poi, a ogni mezzogiorno, la ragazza metteva la padellina sul focolare spento e domandava al padre:
– Che volete? Una costoletta? Una frittata?
– Una frittata.
 
E poco dopo la frittata era bell’e cotta da poter bastare fino per otto persone.
Parte ne mangiavano padre e figlia, parte ne dividevano tra le vicine più povere di loro. L’odore si sentiva per tutta la via. La cosa fece scalpore. Le stesse vicine che ricevevano la carità cominciarono a ciarlare: come mai padre e figlia, con quella miseria, senza guadagno alcuno, se la scialavano a quel modo?
 
Le ciarle giunsero fino all’orecchio del Re. Giusto in quei giorni la Regina s’era ammalata con un’inappetenza che non le permetteva di prendere nessun cibo, e i medici non sapevano come rimediarvi. La Regina avrebbe voluto qualcosa da ristorarla col solo odore, e il cuoco si stillava il cervello per accontentarla. Ma davanti alle pietanze più squisite, la Regina torceva il capo nauseata:
 
– Portatele via; mi si rivolta lo stomaco.
Il Re, che aveva sentito parlare del buon odore delle pietanze di quei contadini, disse ai medici:
– Proviamo a far preparare il pranzo della Regina da costoro. Forse, per la stranezza, lo gradirà.
 
E mandò a chiamare la ragazza.
– Vuoi essere la cuoca della Regina?
– Come piace a Vostra Maestà.
– Vieni ad abitare nel palazzo reale.
– A un patto, Maestà. In cucina, con me, dovrà stare soltanto mio padre.
– Soltanto tuo padre.
 
Giunta l’ora del desinare, la ragazza si presentò alla Regina:
– Maestà, che volete? Una costoletta? Una frittata?
– Una costoletta.
 
La ragazza mandò via di cucina tutte le persone ch’erano a servizio del Re, dal cuoco allo sguattero, si chiuse a chiave dentro insieme col padre, e mise la padellina sul focolare spento:
– Padellina, una costoletta!
La Regina, all’odore della costoletta fumante nel piatto, si sentì ristorare:
– Benedette le tue mani, ragazza mia!
Mangiò con grand’appetito, come da più settimane non faceva, e in segno della sua gratitudine regalò alla ragazza una collana di brillanti.
– Maestà, questa è una collana da regina, non da contadina mia pari.
– Sei regina anche tu, regina di tutte le cuoche.
 
E gliela mise al collo con le proprie mani.
Ogni giorno, a ogni pranzo era un nuovo regalo; ora una spilla con un magnifico smeraldo, ora boccole di perle grosse come uova, ora un braccialetto finemente cesellato e tempestato di rubini.
– Maestà, è ornamento da regina, non da contadina mia pari.
– Sei regina anche tu, regina di tutte le cuoche.
 
In corte non si ragionava che di quei mirabili pranzi; e i medici erano stupiti che il grave male della Regina fosse già guarito col semplice rimedio o d’una costoletta o d’una frittata, giacchè la padellina non dava altro.
Un giorno il Reuccio entrò in camera della Regina che ella aveva appena terminato di mangiare l’ultimo boccone.
 
– Che buon odore, Maestà!
– Odor di costoletta, Reuccio.
Un altro giorno:
– Che buon odore, Maestà!
– Odor di frittata, Reuccio.
– Sempre le stesse cose, Maestà?
– Sempre; ma ogni volta hanno un sapore diverso.
– E come fa la vostra cuoca?
– Lo sa lei.
 
Il Reuccio entrò in grande curiosità, e volle andare in cucina per vederla lavorare.
– In cucina dobbiamo starei soltanto mio padre e io.
– Io sono il Reuccio!
– Reuccio o non Reuccio, ho la parola di Sua Maestà; in cucina dobbiamo starei soltanto mio padre e io.
 
Il Reuccio, indispettito, afferrò la padellina ch’era lì tutta affumicata e gliela strofinò sulla faccia, annerendogliela come quella d’una mora e se ne andò chiudendo la ragazza e il padre nella casa come prigionieri.
Quel giorno, per caso, avevano da mangiare.
 
Il giorno dopo però cominciarono a provar fame.
Erano come murati in casa e non potevano nemmeno gridare al soccorso!
– Ah, poveri noi! Morremo di fame.
 
La padellina stava appesa a un chiodo, pulita e luccicante qual era rimasta dal momento che il Reuccio l’aveva strofinata sulla faccia della ragazza.
La ragazza la guardava in cagnesco, con gli occhi pieni di lacrime, e si sentiva gorgogliare in gola: «Maledetta la padellina e chi me la dette!».
La vide smuoversi e la sentì risonare come quando la prima volta vi aveva picchiato su con le nocche delle dita.
La staccò dal chiodo, la posò sul focolare spento, e disse al padre:
 
– Che volete? Una costoletta? Una frittata?
Non aveva finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto.
Padre e figlia, a una voce, esclamarono:
– Benedetta la padellina e chi ce la dette!
 
Corsero alla porta, ma il paletto non si poteva muovere; corsero alla finestra, ma il lucchetto era più duro del paletto.
Intanto il buon odore delle pietanze si sentiva nella via.
Il Re, saputa la cosa, mandò subito a prendere la ragazza.
– Aprite, vi vuole Sua Maestà.
– Non possiamo aprire; aprite voi.
 
Il Re manda i fabbri per forzare la serratura o sfondare la porta; i fabbri tentano, ritentano, ma inutilmente.
Manda allora i muratori per fare un gran buco nel muro; ma i picconi si spuntano, il muro par fatto di bronzo.
La Regina agonizzava.
Il Re avrebbe dato metà del suo regno pur di vederla risanare con le costolette e le frittate della padellina miracolosa.
Che fare con quella serratura, con quella porta e con quel muro che resistevano a tutto?
Un giorno finalmente la Regina chiude gli occhi e rimane immobile: la credono morta, e si leva un gran pianto per tutto il palazzo reale.
 
Il Re, dalla disperazione e dal dolore, si strappava i capelli.
A un tratto la Regina riapre gli occhi e dice:
– Ho fatto un sogno. Mi pareva d’essere stata portata dietro la porta di quella casa, e che il solo odore delle pietanze m’avesse risanata. Maestà, voglio provare se il sogno è veritiero.
I servitori presero il letto come una barella e portarono la Regina dietro la porta che non poteva aprirsi.
– Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l’odore delle tue pietanze, regina!
 
Non rispose nessuno, e non si sentì odore di sorta.
– Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l’odore delle tue pietanze, regina!
Non rispose nessuno, e non si sentì alcun odore.
Il Re, quasi piangendo, gridò:
 
– Regina delle cuoche, se fai sentire l’odore delle tue pietanze, sarai Regina per davvero.
– Maestà, – disse un ministro, – che cosa vi e scappato di bocca! Parola di Re non va indietro.
– E non andrà! Partano cento corrieri e vadano in cerca del Reuccio.
– E se il Reuccio non vorrà sposarla?
 
– L’adotterò per figliola, e sarà Reginotta.
Si sentì subito un odore delizioso che si sparse per tutta la via.
La Regina annusava e rinasceva da morte a vita.
Annusavano il Re, i ministri, il seguito di corte, la folla pigiata nella via attorno al letto della Regina, e tutti si sentivano riempire lo stomaco, quasi avessero pranzato lautamente.
 
Per parecchie settimane, nessuno pensò a fare spesa e ad accendere un fornello.
Aspettavano che la Regina fosse portata col letto dietro la porta di quella casa, e appena l’odore delle pietanze cominciava a spandersi, si vedevano mille e mille nasi per aria annusare avidamente, e da lì a poco scoppiavano dei grand’Ah! di soddisfazione, come dopo un pranzo copioso.
 
I corrieri reali eran partiti subito alla ricerca del Reuccio, ma le settimane passavano, nessuno di essi tornava, e l’odore intanto veniva meno di giorno in giorno, con gran terrore del Re e della Regina che non era ancora ristabilita in salute.
 
La gente, preso gusto a quel genere di pranzo così buono e che non costava niente, malediva quegli stupidi corrieri incapaci di trovare il Reuccio.
Una mattina, inaspettatamente, ecco uno dei corrieri e poi un altro e poi un altro, scalmanati, sfiniti.
– Avete trovato il Reuccio?
– Non l’abbiamo trovato.
Due giorni dopo, ecco l’ultimo più scalmanato e più sfinito degli altri.
– Hai trovato il Reuccio?
– No, ma ho trovato chi sa dov’è. È un pastore che guarda le pecore laggiù, laggiù. Disse: «Indovinami prima quest’indovinello e poi saprai dov’è il Reuccio». Non l’ho indovinato e non me l’ha detto.
– Che indovinello?
Non ero nato per fare il pastore,
Eppur dovevo mungere e tosare.
– Bestia! È lui! – gridò il ministro, che di mungere e tosare se n’intendeva assai. – Conducimi dov’egli si trova.
E partì insieme col corriere.
Infatti era proprio lui.
Ne aveva viste e patite tante, fino a essersi ridotto a fare il guardiano di pecore, che non gli pareva vero tornare Reuccio, anche a patto di sposare la regina delle cuoche.
 
Appena arrivato, andò a picchiare alla porta che non si poteva aprire.
– Sono il Reuccio.
Invece della porta si aprì la finestra, e comparve la ragazza con la faccia nera e la padellina in mano; la padellina era affumicata.
– Questa è la mia dote!?
 
Chi mi vuole per mogliera
Deve farsi la faccia nera.
E se nera non la fa,
D’onde viene se n’andrà.
 
Il Reuccio esitava; non gli andava doversi impiastricciare di fumo al cospetto di tanta gente radunatasi alla notizia del suo arrivo.
Poi si strinse nelle spalle, prese la padellina e, chiusi gli occhi, se la strofinò sulla faccia, tingendosi peggio di un moro.
E mentre la sua anneriva, quella della ragazza ridiventava bianca come la cera.
 
– Ora potete entrare.
Infatti la porta si spalancò da sé, e il Reuccio trovò sulla soglia la ragazza vestita come una regina, con la collana, lo spillone, gli orecchini e i braccialetti regalatile quando faceva la cuoca; sembrava una regina nata, tanto era bella e dignitosa.
Il popolo applaudiva:
 
– Viva la Reginotta! Viva il Reuccio!
E nello stesso tempo rideva, vedendo costui tutto impiastricciato a quel modo; ma rise per poco.
La ragazza prese il grembiule, lo passò sulla faccia del Reuccio, e in men che non si dica gliela ripulì.
Prima che si sposassero, la Regina era già bell’e guarita.
Le feste delle nozze durarono un mese intero.
 
– E della padellina che ne faremo? – disse il Reuccio.
– Si faccia un bando: «Chi ha una padellina, venga a sfregarla con questa; friggerà da sé egualmente».
Figuriamoci che cuccagna! Pareva tutti i giorni un festino.
La gente si dava bel tempo, e all’ora del pranzo mettevano le padelline sui fornelli spenti:
– Padellina, una costoletta! Padellina, una frittata!
E tutte le padelline friggevano; la gente mangiava a ufo.
Frittate e costolette avevano ogni volta un sapore diverso.
Ma, purtroppo, chi non lavora non è mai contento!!? Cominciarono a brontolare:
– Sempre costolette! Sempre frittate!
 
La Fata che aveva regalato la padellina portentosa alla ragazza, in premio della carità da lei fatta, si sdegnò di quell’ingratitudine, e un bel giorno, anzi, un brutto giorno, prese di nuovo le sembianze di vecchina e si presentò alla Reginotta.
 
– Sono quella della padellina. Brontolano: «Sempre costolette! Sempre frittate!». Ecco qui un’altra padellina che frigge diversamente.
Strofinino le loro con questa e vedranno il miracolo.
 
Corsero tutti, strofinarono, e si trovarono canzonati.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il principe ranocchio e la principessa – Jachob y Wilhelm Grimm

Il principe ranocchio e la principessa - Jachob y Wilhelm Grimm

Il principe ranocchio e la principessa – Jachob y Wilhelm Grimm

Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana: nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
 
Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: – Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.
 
Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme. Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! – disse, – piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte.
 
– Chétati e non piangere, – rispose il ranocchio, – ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco?
– Quello che vuoi, caro ranocchio, – diss’ella, – i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d’oro.
Il ranocchio rispose: – Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d’oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d’oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d’oro.
 
– Ah sì, – diss’ella, – ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla.
Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell’acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! »
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott’acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull’erba. La principessa, piena di gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via.
– Aspetta, aspetta! – gridò il ranocchio: – prendimi con te, io non posso correre come fai tu.
Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non l’ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.
Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d’oro – plitsch platsch, plitsch platsch – qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: – Figlia di re, piccina, aprimi!
Ella corse a vedere chi c’era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio.
Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: – Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c’è forse un gigante che vuol rapirti?
 
– Ah no, – rispose ella, – non è un gigante, ma un brutto ranocchio.
– Che cosa vuole da te?
– Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d’oro cadde nell’acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l’ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell’acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me.
 
Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare:
– Figlia di re, piccina, aprimi!
Non sai più quel che ieri m’hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi!
Allora il re disse: – Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va’ dunque, e apri -.
 
Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia.
Lì si fermò e gridò: – Sollevami fino a te.
La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: – Adesso avvicinami il tuo piattino d’oro, perché mangiamo insieme.
La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia.
 
Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: – Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire.
La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito.
 
Ma il re andò in collera e disse: – Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno.
Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo.
Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: – Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre.
Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: – Adesso starai zitto, brutto ranocchio!
 
Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti.
Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo.
Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all’infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono.
 
La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d’oro; e dietro c’era il servo del giovane re, il fedele Enrico.
 
Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall’angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto.
 
Allora si volse e gridò:- Rico, qui va in pezzi il cocchio!
– No, padrone, non è il cocchio,
bensì un cerchio del mio cuore,
ch’era immerso in gran dolore,
quando dentro alla fontana
tramutato foste in rana.
 
Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti – Jachob y Wilhelm Grimm

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti - Jachob y Wilhelm Grimm

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un sarto, che aveva tre figli e una sola capra. Ma siccome la capra li nutriva tutti col suo latte, dovevano darle erba buona e condurla al pascolo ogni giorno. I figli lo facevano a turno. Una volta il maggiore la portò al camposanto, dove c’era l’erba più bella, e la lasciò pascolare e scorazzare. La sera, venuta l’ora del ri torno, domandò:
 
 – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose: – Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
– Allora vieni a casa, – disse il ragazzo; la prese per la fune, la condusse nella stalla e la legò.
– Be’, – disse il vecchio sarto, – la capra ha avuto la sua pastura?
– Oh, – rispose il figlio, – ha mangiato a sua voglia, e non ci sta più foglia -.
 
Ma il padre volle persuadersene lui stesso, andò nella stalla, accarezzò la cara bestiola e domandò: – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
 
-Che cosa mi tocca sentire! -esclamò il sarto; corse di sopra e disse al ragazzo: – Ehi, bugiardo! dici che la capra ha mangiato a voglia, e le hai fatto patir la fame? – E, incollerito, staccò il metro dalla parete e lo cacciò fuori a botte.
Il giorno dopo, toccò al secondo figlio, che scelse un posto accanto alla siepe, dove c’era solo erba buona; e la capra se la mangiò. La sera, prima di tornare a casa, egli domandò:
 
– Capra, hai a tua voglia? –
 
La capra rispose: – Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
Allora vieni, – disse il ragazzo; la portò a casa e la legò nella stalla.
Be’,- disse il vecchio sarto, – la capra ha avuto la sua pastura?
 
– Oh, – rispose il figlio, – ha mangiato a sua voglia e non ci sta più foglia-.
Il sarto non si fidò, scese nella stalla e domandò: – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
– Scellerato, furfante! – gridò il sarto: – far patir la fame a una bestia tanto buona! – Corse di sopra, e cacciò fuori il figlio a colpi di metro.
 
Ora toccò al terzo figlio; questi volle farsi onore, cercò i cespugli più frondosi e fece pascolare la capra. La sera, prima di andare a casa, le domandò:
 
– Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose:- Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
– Allora vieni a casa, – disse il ragazzo; la condusse nella stalla e la legò.
– Be’, – disse il vecchio sarto, – la capra ha avuto tutta la sua pastura?
– Oh, – rispose il figlio, – ha mangiato a sua voglia e non ci sta più foglia -.
 
Il sarto non si fidava, andò nella stalla e domandò: – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La bestia malvagia rispose: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
 
– Oh, razza di bugiardi! – esclamò il sarto: – tutti a un modo, scellerati e sleali! Non mi gabberete più-. E fuor di sé dalla collera, corse di sopra e diede il metro sulla schiena al povero ragazzo, con tanta forza, ch’egli schizzò di casa.
Ora il vecchio sarto era solo con la sua capra. La mattina dopo, scese nella stalla, l’accarezzò e disse:
– Vieni, cara bestiola, ti porterò io stesso al pascolo -. La prese per la fune e la condusse lungo siepi verdi, nel millefoglio e altre erbe che piacciono alle capre.
 
– Una volta tanto puoi mangiare a sazietà, – le disse, e la lasciò pascolare fino a sera. Allora domandò:
– Capra, hai mangiato a tua voglia? –
Essa rispose: – Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
– Allora vieni a casa, – disse il sarto; la condusse nella stalla e la legò. Andandosene, si voltò ancora a dirle: – Stavolta hai proprio mangiato a tua voglia! –
 
Ma la capra non lo trattò meglio e gridò: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
All’udirla, il sarto rimase attonito e capì di aver scacciato i suoi figli senza motivo. – Aspetta, – esclamò, – ingrata creatura! Scacciarti è troppo poco: ti concerò in modo che non potrai più farti vedere fra sarti per bene -.
 
Corse su in un lampo, prese un rasoio, insaponò la testa della capra e la rase come il palmo della mano. E siccome il metro sarebbe stato troppo onorevole, prese la frusta, e le diede tali botte, che essa scappò via a gran balzi.
Il sarto, solo solo nella sua casa, cadde in profonda malinconia e avrebbe voluto riavere i suoi figli, ma nessuno ne sapeva nulla.
 
Il maggiore era andato a imparare il mestiere da un falegname. Lo imparò con gran zelo e quando, finito il tirocinio, dovette partire, il maestro gli regalò un tavolino di legno comune, niente di speciale a vederlo; ma aveva una gran virtù: quando lo si metteva in terra e si diceva: – Tavolino, apparecchiati! – ecco il bravo tavolino coprirsi di una linda tovaglietta, con un piatto e una posata, e vassoi di lesso e d’arrosto quanti ce ne potevan stare, e un bicchierone di vin rosso che scintillava da rallegrare il cuore.
 
Il giovane apprendista pensò: « Ne hai per tutta la vita ». Se ne andò allegramente per il mondo e non gli importava che una locanda fosse buona o cattiva, e ci si potesse o no trovar qualcosa. Quando gliene saltava il ticchio, non si fermava neanche a un’osteria, ma in un campo, nel bosco, in un prato, come gli piaceva, si toglieva il tavolino dalle spalle, se lo metteva davanti e diceva:
– Tavolino, apparecchiati! – ed ecco pronto tutto quel che desiderava.
Alla fine pensò di tornar da suo padre: la collera si era certo placata e, con il tavolino magico, l’avrebbe accolto volentieri. Ora avvenne che la sera, sulla via del ritorno, giunse in una locanda piena di gente: gli diedero il benvenuto e l’invitarono a sedersi e a mangiare con loro; se no, difficilmente avrebbe ancora trovato qualcosa.
 
– No, – rispose il falegname, – non voglio togliervi quei due bocconi; piuttosto sarete voi miei ospiti -. Si misero a ridere, pensando che si burlasse di loro. Ma egli mise in mezzo alla stanza il suo tavo lino di legno e disse:
– Tavolino, apparecchiati! – Ed eccolo guarnito di cibi squisiti, quali l’oste non avrebbe mai potuto fornire, e il cui profumo solleticava piacevolmente il naso degli avventori.
– Coraggio, cari amici! – disse il falegname; e quelli, vedendo che faceva sul serio, non se lo fecero dire due volte, si avvicinarono, estrassero i loro coltelli e non fecero complimenti.
 
E meraviglioso era che ogni piatto, non appena vuoto, veniva subito sostituito da uno colmo. L’oste stava a guardare in un angolo, non sapendo che dire; ma pensava: « Un simile cuoco ti ci vorrebbe proprio per la tua locanda! » Il falegname e la sua brigata se la spassarono fino a tarda notte; alla fine andarono a letto e anche il giovane apprendista si coricò, appoggiando il suo tavolino magico alla parete.
 
Ma l’oste continuava ad almanaccare; gli venne in mente che nel ripostiglio c’era un vecchio tavolino, identico all’aspetto; l’andò a prendere pian piano e lo scambiò con quello magico. La mattina dopo il falegname pagò il conto, si caricò del tavolino, senza sospettare che fosse falso, e se ne andò per la sua strada. A mezzogiorno giunse dal padre, che l’accolse con gran gioia.
– Be’, caro figlio, cos’hai imparato? – gli chiese. – Babbo, son diventato falegname.
– Un bel mestiere, – replicò il vecchio, – ma cos hai portato dal viaggio?
– Babbo, il meglio che abbia portato è il tavolino -.
 
Il sarto l’osservò da ogni parte e disse: – Non hai fatto un capolavoro: è un tavolino vecchio e brutto.
– Ma è un tavolino magico, – rispose il figlio: – quando lo metto in terra e gli dico: « Apparecchiati! » subito vi compaiono le più squisite vivande e un vino che rallegra il cuore. Invitate tutti i parenti e gli amici, che una volta tanto si ristoreranno: il tavolino li sazia tutti -.
 
Quando la compagnia fu raccolta, mise il suo tavolino in mezzo alla stanza e disse:
– ‘Tavolino, apparecchiati! – Ma quello non si mosse e rimase vuoto, come qualsiasi altro tavolo che non capisce la lingua. Allora il povero apprendista s’accorse che il tavolino gli era stato scambiato e si vergognava di far la figura del bugiardo. Ma i parenti lo presero in giro, e tornarono a casa, senza aver mangiato né bevuto. Il padre tirò fuori le sue pezze e continuò a fare il sarto e il figlio andò a lavorare a bottega.
 
Il secondo figlio aveva imparato il mestiere da un mugnaio. Finiti gli anni di tirocinio, il padrone gli disse:
– Ti sei comportato cosi bene, che ti regalo un asino speciale: non tira il carretto e non porta sacchi.
– E a che serve? – domandò il giovane garzone.
– Butta oro! – rispose il mugnaio: – se lo metti su un panno e dici: « Briclebrit », questa buona bestia butta monete d’oro, di dietro e davanti.
– E’ una bella cosa! – disse il giovane; ringraziò il padrone e se ne andò per il mondo.
 
Quando aveva bisogno di denaro, bastava che dicesse al suo asino: « Briclebrit! » e piovevan monete d’oro; la sua sola fatica era di raccoglierle da terra. Dovunque andasse, non gli garbavan che le cose più fini, e quanto più care tanto meglio, perché aveva la borsa sempre piena. Dopo aver girato un po il mondo, pensò: « Dovresti tornar da tuo padre: se arrivi con l’asino d’oro, scorderà la sua collera e ti accoglierà bene ».
 
Ora avvenne ch’egli capitò nella stessa locanda in cui avevano sostituito il tavolino a suo fratello. Se ne arrivò con il suo asino, e l’oste voleva prender l’animale e legarlo, ma il giovane disse:
– Non datevi pena, il mio Rabicano lo porto io nella stalla e lo lego io; devo saper dov’è -.
 
La cosa parve strana all’oste, che pensò: « Uno che al suo asino deve provveder da sé, non ha certo molto da spendere ». Ma quando il forestiero trasse di tasca due monete d’oro e gli disse di badar solo a comprargli qualcosa di buono, fece tanto d’occhi e corse a cercar il meglio che potesse trovare. Dopo pranzo, il giovane chiese quanto gli dovesse; l’oste non volle lesinare nel conto e gli disse che ci volevano altre due monete d’oro. Il garzone frugò in tasca, ma l’oro era alla fine.
 
– Aspettate un attimo, signor oste, – disse, – vado soltanto a prendere il denaro -.
Ma portò con sé la tovaglia. L’oste, che non sapeva come spiegar la cosa, pieno di curiosità, lo segui pian piano; e poiché l’altro chiuse la porta della stalla col catenaccio, sbirciò da una fessura. Il forestiero stese la tovaglia sotto l’asino, disse: « Briclebrit! » e subito dalla bestia cadde una vera pioggia d’oro, di dietro e davanti.
 
– Capperi! – disse l’oste: – è presto fatto coniar ducati! Non è male un simile borsellino! –
Il giovane pagò e andò a dormire; ma durante la notte l’oste scese di nascosto nella stalla, portò via il direttore della zecca e legò un altro asino al suo posto. La mattina dopo, di buon’ora, il garzone se ne andò con la bestia, credendola il suo asino d’oro. A mezzogiorno arrivò dal padre che, tutto lieto di rivederlo, l’accolse con gioia.
 
– Cosa sei diventato, figlio mio? – gli domandò il vecchio.
– Mugnaio, caro babbo, – rispose.
– Cos’hai portato dal viaggio?
-Soltanto un asino.
– Asìni ce n’è abbastanza anche qui, – disse il padre, – sarebbe stato meglio una bella capra.
– Si, – rispose il figlio, – ma non è un asino comune, è un asino d’oro; se dico: « Briclebrit! » la buona bestia vi riempie di monete d’oro una tovaglia. Fate venire i parenti, che li faccio tutti ricchi.
– Benissimo! – disse il sarto: – cosi non ho più bisogno d’affaticarmi con l’ago -.
 
E corse a chiamare i parenti. Appena furon tutti riuniti, il mugnaio fece far posto, stese la tovaglia e portò l’asino nella stanza.
– Adesso state attenti, – disse; e gridò: – Briclebrit! – Ma non caddero precisamente monete d’oro, e apparve chiaro che la bestia non conosceva affatto quell’arte: perché non tutti gli asini ci arrivano. Allora il povero mugnaio fece la faccia lunga, accorgendosi d’essere stato ingannato, e domandò scusa ai parenti, che tornarono a casa, poveri com’eran venuti. Non c’era scampo: il vecchio dovette riprender l’ago e il giovane entrò a servizio da un mugnaio.
 
Il terzo fratello era andato a imparar il mestiere da un tornitore; ed essendo un mestiere raffinato, dovette far pratica più a lungo. Ma i fratelli gli narrarono per lettera le loro disgrazie, e come proprio l’ultima sera l’oste li avesse derubati dei loro begli oggetti magici.
 
Quando il tornitore ebbe finito il tirocinio e dovette partire, per la sua buona condotta il padrone gli regalò un sacco e gli disse:
 
– C’è dentro un randello.
– Il sacco me lo metterò in spalla e può ben servirmi, ma che ci fa il randello? è soltanto un peso.
– Te lo dirò, – rispose il padrone: – se qualcuno ti ha fatto del male, basta che tu dica: « Randello, fuori del sacco! » e il randello salta fuori e balza così allegro sulla schiena della gente, da farla stare otto giorni a letto; e non la smette se tu non dici: « Randello, dentro nel sacco! » –
 
L’apprendista lo ringraziò, si mise il sacco in spalla e se qualcuno gli veniva addosso per aggredirlo, egli diceva: « Randello, fuori dal sacco! » E subito il randello saltava fuori e li spolverava l’un dopo l’altro sulla schiena, e non la smetteva finché c’era giubba o farsetto; e andava cosi svelto, che non te l’aspettavi ed era già il tuo turno.
La sera, il giovane tornitore giunse all’osteria dov’erano stati ingannati i suoi fratelli. Mise il suo sacco accanto a sé sulla tavola e cominciò a raccontare tutte le meraviglie vedute per il mondo.
 
– Già, – disse, – ci si può trovare un tavolino magico, un asino d’oro e simili: bellissime cose, che io non disprezzo; ma tutto questo è nulla a confronto del tesoro che mi son guadagnato e che ho qui nel mio sacco -.
 
L’oste tese gli orecchi: « Che può mai essere? – pensò: – il sacco è certo pieno di gemme; mi parrebbe giusto averlo: non c’è due senza tre ». Quando fu l’ora di dormire, il forestiero si coricò sulla panca e si mise il sacco sotto la testa, come cuscino. Quando lo credette immerso nel sonno, l’oste gli si avvicinò, e pian piano e con gran cautela smosse e tirò il sacco, cercando di toglierlo e di sostituirlo con un altro. Ma il tornitore se l’aspettava da un pezzo, e, appena l’oste volle dare uno strattone vigoroso, egli gridò:
 
– Randello, fuori dal sacco! – Subito il randello saltò addosso all’oste e gli spianò le costole di santa ragione. L’oste gridava da far pietà, ma più gridava, più forte il randello gli batteva il tempo sulla schiena, finché egli cadde a terra sfinito. Allora il tornitore disse:
 
– Se non rendi il tavolino magico e l’asino d’oro, ricomincia il ballo.
– Ah no, – esclamò l’oste, sgomento: – restituisco tutto ben volentieri, purché ricacciate nel sacco quel maledetto diavolo -.
Allora il garzone disse: – Sarò misericordioso, ma non cercar di nuocermi! – Poi gridò: – Randello, dentro nel sacco! – e ve lo lasciò.
 
La mattina dopo il tornitore andò da suo padre col tavolino magico e l’asino d’oro. Il sarto, felice di rivederlo, domandò anche a lui che cosa avesse imparato fuori di casa.
– Caro babbo, – rispose, – son diventato tornitore. – Un mestiere raffinato, –
 
Rispose il padre: – Cos’hai portato dal viaggio?
– Un oggetto preziosissimo, caro babbo, – rispose il figlio, – un randello nel sacco!
– Come! – esclamò il padre: – Un randello! valeva la pena! Puoi tagliartelo da qualunque albero.
– Ma non uno come questo, caro babbo; quando dico: « Randello, fuori del sacco! » salta fuori e concia per il di delle feste ogni malintenzionato, e non la smette prima che giaccia a terra e implori grazia.
 
Vedete, con questo randello mi son ripreso il tavolino magico e l’asino d’oro, che quel ladro di un oste aveva rubato ai miei fratelli. Adesso fateli chiamare entrambi e invitate tutti i parenti. Voglio che mangino e bevano e si riempiano le tasche d’oro -.
 
Il vecchio sarto si fidava poco, ma riunii parenti. Allora il tornitore stese un panno nella stanza, portò dentro l’asino e disse al fratello:
– Adesso parlagli, caro fratello -.
Il mugnaio disse: « Briclebrit! » e all’istante le monete d’oro caddero sul panno come uno scroscio di pioggia; e l’asino non la smise, finché tutti non furon carichi da non poterne più. (E anche tu, vedo, avresti voluto esserci).
Poi il tornitore andò a prendere il tavolino e disse: – Parlagli, caro fratello -.
 
Il falegname disse: – Tavolino, apparecchiati! – ed eccolo apparecchiato e copiosamente fornito di piatti squisiti. Fecero un pranzo, quale il buon sarto non aveva ancor visto in casa sua, e restarono tutti insieme fino a tarda notte, allegri e contenti.
Il sarto chiuse in un armadietto ago e filo, il metro e il ferro da stirare, e fece con i suoi tre figli una vita da principe.
 
Ma dov’è finita la capra, colpevole di aver spinto il sarto a scacciare i tre figli? Te lo dirò. Si vergognava della sua pelata e corse a rannicchiarsi in una tana di volpe. Quando la volpe rincasò, si vide sfavillar di fronte nell’oscurità due occhiacci, e fuggi via con gran terrore. Incontrò l’orso, che vedendola cosi turbata disse:
 
– Cosa ti succede, sorella volpe? perché hai quella faccia?
– Ah, – rispose Pelorosso, – nella mia tana c’è un mostro, che spalanca due occhi fiammeggianti.
– Lo cacceremo fuori, – disse l’orso; l’accompagnò alla tana e guardò dentro; ma quando scorse quegli occhi di fuoco, fu preso anche lui dalla paura: non volle cimentarsi col mostro e se la diede a gambe. Incontrò l’ape che, vedendolo cosi a disagio, disse:
 
– Orso, che brutta faccia hai! Dov’è andata la tua giovialità?
– Hai un bel dire, – rispose l’orso, – nella tana di Pelorosso c e un – mostro con gli occhiacci e non possiamo cacciarlo fuori -.
Disse l’ape: – Mi fai pena, orso; io sono una povera e debole creatura, che per strada voi non guardate neanche; ma credo di potervi aiutare -.
 
Volò nella tana, si posò sulla testa pelata della capra e la punse con tanta forza, che quella saltò su, gridando:
– Mèee! mèee! – e corse fuori come pazza. E finora nessuno sa dove sia andata.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Fratellino e sorellina – Jachob y Wilhelm Grimm

Fratellino e sorellina - Jachob y Wilhelm Grimm

Fratellino e sorellina – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta una capanna in mezzo al bosco, dove vivevano due bambini, fratello e sorella, con il babbo, perché la mamma era morta. Si sentivano abbastanza soli e furono contenti quando il babbo decise di risposarsi. Speravano che la matrigna avrebbe fatto loro da mamma, che fosse una donna buona, che li amasse e, li consolasse quando si sentivano tristi. Ma la matrigna era una strega astuta e cattiva, che detestava i due bambini. Sgridava e picchiava Fratellino e Sorellina per qualsiasi inezia, e spesso li metteva in castigo senza ragione.
 
I bambini erano molto infelici, pensavano sempre con nostalgia alla loro mamma, e sapevano che sarebbe stata triste nel vederli soffrire così.
Decisero allora di andarsene da quella casa.
 
La sorellina disse:
– Andiamo, Fratellino. Ci faremo compagnia e non ci lasceremo mai.
Approfittarono di un momento in cui la matrigna si era addormentata e fuggirono nel bosco.
Corsero quanto più poterono per non essere ritrovati. Dormirono nel bosco e il mattino dopo, sentendo il rumore di un ruscello, vi si diressero per bere almeno un po’ d’acqua.
 
Fratellino stava per bere, ma la sorella lo fermò. Aveva udito la sorgente mormorare:
– Chi mi beve diventa una tigre! Chi mi beve diventa una tigre!
– Fratellino, non bere! – supplicò – Altrimenti diventerai una tigre e mi sbranerai.
-Va bene, – sospirò – andiamo a cercare un’altra sorgente.
 
Poco dopo trovarono un ruscelletto, ma anche questo mormorava:
– Chi mi beve diventa un lupo! Chi mi beve diventa un lupo!
– Oh, Fratellino mio, non bere! Altrimenti diventerai un lupo e mi mangerai.
Il fratellino borbottò:
– Va bene, cerchiamo un’altra sorgente; ma non resisto più.
Era opera della matrigna, che aveva stregato tutte le fonti del bosco.
 
Anche la terza fonte mormorava:
– Chi mi beve diventa un capriolo! Chi mi beve diventa un capriolo!
– Fratellino mio, non bere! Altrimenti diventerai un capriolo e fuggirai.
 
Ma Fratellino non l’ascoltò e bevve a sazietà. Subito si trasformò in un grazioso capriolo dal pelo macchiato di bianco.
Sorellina, vedendolo, scoppiò a piangere disperata:
– Non so come faremo, ma abbiamo giurato di non lasciarci mai, perciò ti terrò con me e continueremo la strada insieme.
Dopo un po’ trovarono una casetta solitaria.
– Ci fermeremo qui. – disse la sorellina – Ti preparerò un bel giaciglio, e ogni giorno andrò a cercare da mangiare per me e per te.
 
La sera Sorellina chiudeva gli occhi con la testa appoggiata al dorso di Fratellino.
La vita scorreva così, abbastanza tranquilla, anche perché il capriolo poteva parlare e i due fratelli potevano ancora chiacchierare tra loro.
 
Ma un mattino nel bosco risuonò l’abbaiare di cani e uno squillare di corni.
Era il giovane re del paese che aveva organizzato una battuta di caccia.
Il capriolo fu preso dalla smania di uscire.
 
…. Oh, Sorellina mia! – supplicò. – Lasciami andare ad assistere alla caccia, ti prego.
La sorellina non voleva e cercò sulle prime di opporsi, ma tanto il fratellino nelle spoglie del capriolo insistette che alla fine dovette cedere.
– Quando tornerai – raccomandò – dovrai dire: «Sorellina, fammi entrare», così io potrò riconoscerti. Altrimenti non aprirò a nessuno perché ho paura dei cacciatori.
 
Fratellino promise e in un momento scomparve nel bosco. Quel giorno si divertì moltissimo: facendosi vedere dai cacciatori ed eludendo ogni volta il loro inseguimento.
Verso sera ritornò: – Sorellina fammi entrare!
 
La sorellina aprì subito.
Il giovane re intanto decise che doveva proprio catturare, ma vivo, quel dispettoso capriolo che per tutto il giorno li aveva fatti correre beffandosi di loro. E all’alba la caccia ricominciò.
Fratellino volle uscire, e per la seconda volta si fece beffe di tutti, cacciatori e cani, apparendo e sparendo come il lampo.
Uno dei cacciatori però riuscì a seguirlo fino alla casetta e lo sentì dire:
 
– Sorellina, fammi entrare! – e vide anche una bella fanciulla che apriva la porta e accoglieva fra le braccia il capriolo.
Il cacciatore ritornò dal re e gli narrò ogni cosa. Il re desiderò ancora di più catturare vivo quel capriolo.
– Non devi uscire più, Fratellino, – diceva intanto Sorellina – altrimenti i cacciatori ti uccideranno, e io resterò sola in questo bosco!
 
Ma l’istinto di capriolo era forte e il mattino dopo ricominciò a supplicare:
– Sorellina, lasciami andare!
– Va bene: ma ti prego, torna presto, altrimenti morirò io!
Il capriolo spiccò un balzo e dileguò fra i cespugli.
Il re e i suoi cavalieri erano già pronti e inseguirono il capriolo fino a sera, senza però riuscire a prenderlo. Alla fine il re diede ordine di lasciarlo in pace, poi andò alla capanna, bussò e disse:
 
– Sorellina, fammi entrare!
La fanciulla aprì, ma restò di stucco vedendo davanti a sé non il fratellino in forma di capriolo ma un giovane con un manto di porpora e di ermellino e una corona d’oro sulla testa.
– Dov’è il mio fratellino? È morto? – chiese Sorellina singhiozzando disperatamente.
 
Il giovane re tentò di tranquillizzarla.
– Com’è possibile che siate sorella di un capriolo! Certamente si tratta di un incantesimo!
Sorellina raccontò le sue sventure e quelle di Fratellino.
l re, incantato dalla bellezza della fanciulla, decise di aiutarla, e di condurre con sé i due fratelli al suo palazzo, dove sarebbero stati al sicuro:
 
– Farò immediatamente arrestare la vostra matrigna e la obbligherò a togliere l’incantesimo.
In quel momento rientrò anche il capriolo, che andò ad accucciarsi ai piedi di Sorellina.
 
Poi, tutti insieme, partirono alla volta del palazzo.
Là il re chiese la mano di Sorellina, che acconsentì, felicissima, perché già si era innamorata del re, che era bello e coraggioso.
Si fece una grande festa per festeggiare le nozze. Poi furono mandate delle guardie ad arrestare la matrigna.
 
Ma lei rifiutò di liberare Fratellino dall’incantesimo. Allora il re la condannò al rogo.
Non appena fu bruciata, il capriolo si accasciò a terra, e Fratellino ritornò a vivere con il proprio aspetto: nel frattempo anche lui era diventato un bellissimo giovane.
 
Fratello e sorella, promettendo in cuor loro che mai si sarebbero lasciati, si abbracciarono e abbracciarono anche il re; poi tutti vissero insieme felici e contenti.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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La pioggia di stelle – Jachob y Wilhelm Grimm

La pioggia di stelle - Jachob y Wilhelm Grimm

La pioggia di stelle – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta una bambina, che non aveva più nè babbo nè mamma, ed era tanto povera, non aveva neanche una stanza dove abitare nè un lettino dove dormire; insomma, non aveva che gli abiti indosso e in mano un pezzetto di pane, che un’anima pietosa le aveva donato. Ma era buona e brava e siccome era abbandonata da tutti, vagabondò qua e là per i campi fidando nel buon Dio. Un giorno incontrò un povero, che disse:
 
– Ah, dammi qualcosa da mangiare! Ho tanta fame!
Ella gli porse tutto il suo pezzetto di pane e disse:
– Ti faccia bene! – e continuò la sua strada.
Poi venne una bambina, che si lamentava e le disse:
– Ho tanto freddo alla testa! Regalami qualcosa per coprirla.
Ella si tolse il berretto e glielo diede.
 
Dopo un pò ne venne un’altra bambina, che non aveva indosso neanche un giubbetto e gelava; ella le diede il suo.
E un pò più in là un’altra le chiese una gonnellina, ella le diede la sua.
 
Alla fine giunse in un bosco e si era già fatto buio, arrivò un’altra bimba e le chiese una camicina; la buona fanciulla pensò: «E’ notte fonda nessuno ti vede puoi ben dare la tua camicia «. Se la tolse e diede anche la camicia.
 
E mentre se ne stava là, senza più niente indosso, d’un tratto caddero le stelle dal cielo, ed erano tanti scudi lucenti e benchè avesse dato via la sua camicina ecco che ella ne aveva una nuova, che era di finissimo lino.
Vi mise dentro gli scudi e fù ricca per tutta la vita.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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