L’avvocatino difensore – Carlo Collodi

L’avvocatino difensore - Carlo Collodi

L’avvocatino difensore – Carlo Collodi

Il suo nome era Tommaso: ma, in casa e fuori di casa, lo chiamavano Masino.
 
Masino aveva tutti i difetti, che può avere un giovinetto della sua età, fra gli undici e i dodici anni: disubbidiente, goloso, pigro, dormiglione, nemico dell’acqua per lavarsi le mani e il viso, coperto di frittelle e di strappi in tutti i vestiti che portava addosso, spacciatore di bugie all’ingrosso e al minuto, ciarliero, impertinente, rispondiero e avversario implacabile dei libri e della scuola.
 
 La mamma lo sgridava: il babbo lo rimproverava: il maestro lo puniva, i compagni di scuola lo canzonavano della sua buaggine; ma il nostro Masino non se ne faceva né in qua, né in là.
 
«Quando avranno detto ben bene, si cheteranno!» E con queste parole, accompagnate da una spallucciata o da una scrollatina di capo, rimetteva l’animo in pace.
 
Un giorno, per altro, si ficcò in testa di essere perseguitato ingiustamente, e tenne fra sé e sé questo curioso ragionamento:
 
«Tutti mi sgridano… tutti l’hanno con me!… E la ragione? Alla fin de’ conti, io faccio quel che debbono fare tutti i ragazzi. La colpa, dunque, non è mia. La colpa è della mamma, la quale non si cheta mai; la colpa è del babbo, che urla sempre… la colpa è del maestro, che ha bisogno di farmi scomparire tutti i giorni dinanzi a’ miei compagni di scuola.
 
Oh che bella cosa se i babbi e le mamme qualche volta si correggessero della loro smania di brontolare!… Oh! che bella cosa se i maestri si persuadessero che dai ragazzi si può pretendere tutt’al più che vadano a scuola… Ma pretendere che vadano a scuola e che studino, mi pare una bella esigenza! Due cose a un tempo, chi è che possa farle?».
 
Batti oggi e batti domani con questi ragionamenti, Masino ebbe finalmente una bellissima idea, e disse tutto contento:
 
«Se mi facessi il difensore dei ragazzi come me? Se scrivessi un libro per dare una buona lezione ai babbi e alle mamme, e per correggere questi signori maestri, che sono peggio di tutti? Io non ho mai imparato a scrivere, ma ho sempre sentito dire che si scrive come si parla.
 
Io parlo bene, dunque debbo sapere scrivere!… E pensare che il babbo e la mamma si ostinano a mandarmi a scuola! Un momento: e che cosa potrei scrivere? una Commedia col titolo I brontoloni?… Per la commedia, non toccherebbe a me a dirlo, ci ho avuto sempre molta vocazione.
 
Anche la mamma, quando invento qualche bugia, dice sempre che somiglio al Bugiardo di Goldoni. Dunque, se somiglio al Goldoni, vuol dire che le commedie le so fare anch’io. E poi, quando ho fatto la Commedia, chi me la recita? E se per disgrazia me la fischiano? E il caso c’è, perché i babbi e le mamme, con la scusa di condurre noialtri ragazzi al teatro, vanno sempre alla commedia e alla farsa: e loro mi fischierebbero dicerto.
 
O non sarebbe più liscia se scrivessi invece un bel raccontino, da mettersi sui giornali? Così mi salverei dal pericolo dei fischi, e se mi scappasse qualche sproposito, nessuno ci guarderebbe, perché il babbo dice sempre che i giornali sono pieni di spropositi e di notizie false. Sì, sì, voglio provarmi e subito».
 
Detto fatto, il nostro Masino, si chiuse in camera: e presa la penna e un foglio di carta, cominciò il suo racconto con questo titolo:
 
UN RAGAZZINO MODELLO
 
ossia una buona lezione per i genitori
 
e per i maestri di scuola.
 
Poi seguitò così:
 
Masino era il più buon figliolo di questo mondo. Il suo babbo e la sua mamma lo sgridavano sempre, e lui li lasciava sgridare: il suo maestro, per cavarsi il gusto di punirlo, gli levava la colazione, e lui per prudenza faceva colazione prima di andare a scuola.
 
Ma venne finalmente un giorno, in cui i suoi genitori e il suo maestro si accorsero d’avere un gran torto a fargli sempre de’ rimproveri, e allora le cose andarono di bene in meglio.
 
Quando Masino qualche volta si dimenticava di lavarsi le mani e il viso, la sua mamma, invece di sgridarlo, cominciò a dirgli:
 
«Bravo Masino! Vedo che non ti sei lavato né il viso né le mani, e hai fatto bene. Coll’acqua, bambino mio, non bisogna pigliarsi mai confidenza. È così facile beccar delle infreddature e dei mal di petto!… A quanto pare, ti sei alzato ora dal letto, non è vero?»
 
_»Sì, mamma.»
 
«Sai che ore sono? sono le nove: e tu alle otto avresti dovuto andare a scuola…»
 
«Che vuoi? Avevo sonno, e dormivo così bene!…»
 
«Capisco, poverino! Il proverbio dice che chi dorme non piglia pesci, ma tu, carino mio, non devi fare il pescatore: dunque, se ti fa piacere, puoi dormire fino a mezzogiorno. E la lezione l’hai fatta?…»
 
«La volevo fare, ma poi me ne sono scordato…»
 
«Tale e quale come me! Anch’io volevo andare dalla mia sorella, e poi me ne sono scordata. Si vede proprio che sei figliolo della tua mamma. E per colazione che cosa prenderesti?»
 
«Prenderò il solito Caffè e Latte…»
 
«Ma rammentati, carino mio, di metterci dentro dimolto ma dimolto zucchero. Lo zucchero si compra apposta per finirlo subito, se no, va a male.»
 
«E c’inzupperò due fettine di pane.»
 
«No, angiolo mio, ci devi inzuppare due semelli, e bene imburrati, perché il burro fa bene alla gola e aiuta la digestione. E a scuola ci vuoi andare oggi?»
 
«Senti, mamma, non ci anderei…»
 
«È appunto quello che volevo dirti io. Per andare a scuola c’è sempre tempo. Sai piuttosto che cosa farei, se fossi in te? Anderei a giocare a palla fino a mezzogiorno: poi tornerei a casa a fare uno spuntino con una bella fetta di rosbiffe, un piatto di maccheroni con sopra due dita di cacio parmigiano, e una bella torta ripiena di panna montata. E se dopo lo spuntino, vorrai studiare un po’ la lezione…»
 
«Ecco, mamma, se invece di studiar la lezione, andassi a giocare a trottola nei viali delle Cascine?»
 
«Benissimo! Si vede proprio che sei un ragazzino pieno di giudizio. La trottola, alla tua età, è molto più utile della Geografia e della Storia. Che bisogno c’è di studiare la Storia quando tutto il mondo è pieno di storie? Dunque, addio carino: io scappo a fare una visita alla mia sorella, e tu cerca di divertirti più che puoi, e non studiar tanto!… (tornando indietro) Mi raccomando: non studiar tanto! (tornando indietro una seconda volta) Non studiar tanto, perché a studiare c’è sempre tempo!…»
 
Fra babbo e figliolo
 
Masino, pochi giorni dopo, andò in camera a cercare il suo babbo (il quale si era corretto del bruttissimo vizio di brontolare) e gli disse:
 
«Sai, babbo, che cosa mi ha fatto il maestro?».
 
«Che ti ha fatto?»
 
«Con la scusa che ho sbagliato a rispondere nell’Aritmetica, mi ha messo in penitenza…»
 
«Ma queste son cose orribili!… Lo racconterò ai carabinieri!…»
 
«Senti, babbo; io non voglio più andare a scuola.»
 
«Io farei come te. A che serve la scuola? La scuola non è altro che un supplizio inventato apposta per tormentare voialtri poveri ragazzi.»
 
«Capisci? Mettermi in penitenza perché l’Aritmetica non vuole entrarmi nella testa! Sta’ a vedere che un libero cittadino non è padrone di non saper l’abbaco? Perché anch’io sono un libero cittadino, ne convieni, babbo?»
 
«Sicuro che ne convengo.»
 
«Il mio maestro è un buon omo: ma è un omo piccoso. Figurati! pretenderebbe che i suoi scolari dovessero studiare!…»
 
«Pretensioni ridicole! Se viene a dirlo a me, non dubitare che lo servo io.»
 
«Dovresti andare a trovarlo!»
 
«Vi anderò sicuro: e gli dirò che i maestri possono pretendere che i loro scolari sappiano la lezione… ma obbligarli a studiare, no, no, mille volte no.»
 
«La volontà è libera, ne convieni, babbo?»
 
«Sicuro che ne convengo, e quando un ragazzo dice: «Io non voglio studiare» nessuno può costringerlo.»
 
«Figurati! Pretenderebbe che, durante la lezione, i suoi scolari stessero tutti zitti! Com’è possibile di stare zitti quando si sente la voglia di parlare?»
 
«Hai mille ragioni! Che forse la parola venne data all’uomo, perché a scuola stesse zitto? Lascia fare a me: domani vado a trovarlo, e gli dirò il fatto mio.»
 
A scuola
 
E il babbo andò davvero a trovare il maestro, e gli fece una bella lavata di capo, da ricordarsene per un pezzo: tant’è vero che quando Masino tornò a scuola, il maestro gli si fece incontro tutto mortificato, e tenendo il berretto in mano, gli disse:
 
«Scusa, sai, Masino, se l’altro giorno ti messi in penitenza. Fu uno sbaglio, perdonami: tutti si può sbagliare in questo mondo. Che cosa avevi fatto, povero figliuolo, da meritarti quel gastigo? Non avevi imparato la lezione…
 
Ma è forse questa una mancanza? Che forse gli scolari hanno l’obbligo di saper la lezione? Non ci mancherebb’altro! Animo, via, perdonami e non se ne parli più! Fammi intanto vedere i tuoi quinterni! Benissimo!
 
Sono tutti coperti di scarabocchi! Gli scarabocchi sui quinterni provano che lo scolaro è un ragazzino pulito e che studia bene. Ti darò sette meriti per gli scarabocchi. I ragazzi di buona volontà, come te, vanno sempre incoraggiati. Vediamo ora i tuoi libri. Arcibenissimo! Questi libri tutti strappati e sbrindellati, sono una bella prova che sai tenerne di conto.
 
La prima cosa che deve fare uno scolaro perbene e veramente studioso, è quella di sciupare i libri di scuola. Ti darò cinque meriti per i libri sciupati. Se domani poi, venendo a scuola, ne perderai qualcuno per la strada, ti aggiungerò altri cinque meriti, perché la cosa possa servir d’esempio a’ tuoi compagni. E questa macchia, che hai qui sul davanti della camicia, come mai te la sei fatta?».
 
«Me la son fatta stamani, nel leccare lo zucchero in fondo alla chicchera.»
 
«È una macchia che ti torna benissimo a viso. Io ho avuto sempre a noia gli scolari con la camicia pulita. Gli scolari mi piacciono, come te, tutti coperti di macchie e di frittelle. Ti darò sei meriti per quella bella macchia di caffè e latte. Ne meriterebbe di più, ma per oggi tiriamo via. Dimmi, Masino: hai studiato la lezione di Grammatica?»
 
«Sissignore.»
 
«Dimmi, dunque, quante lettere ci vogliono per formare una sillaba?»
 
«Così, all’improvviso, non saprei dirlo…»
 
«Benissimo. Me lo dirai un’altra volta. E l’Abbaco l’hai studiato?»
 
«Sissignore.»
 
«Che cosa rappresenta una crocellina così + posta fra due numeri?»
 
«Ecco… dirò… che rappresenta una croce…»
 
«Oggi non sei in vena a rispondere. Mi risponderai un’altra volta. E la Geografia l’hai imparata?»
 
«Sissignore.»
 
«Sentiamola. In quante parti si divide comunemente l’Italia?»
 
«In quattro parti: Italia di sopra, Italia di sotto, Italia nel mezzo, e Italia…»
 
«Italia come?…»
 
«Italia… da una parte.»
 
«Non è precisamente così, ma mi risponderai meglio un’altra volta. Eccoti intanto dieci meriti per la franchezza, con la quale hai risposto a tutte le mie domande.»
 
Agli esami della fin dell’anno, il bravo Masino si fece moltissimo onore, e il suo babbo e la sua mamma gli regalarono venti pasticcini e un panforte di Siena.
 
La morale della Favola
 
L’autore offrì questo suo Racconto a parecchi giornali, ma nessuno volle accettarlo. I più benigni si contentarono di ridergli in faccia. Allora il nostro amico si consolò dicendo:
 
«Peccato che nessuno abbia voluto pubblicarmi questo Racconto! Che bella lezione sarebbe stata per i genitori brontoloni e per i maestri tiranni!… Ma oramai ci vuol pazienza! e i ragazzi, con la scusa di farli studiare, si troveranno sempre perseguitati!…».
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Dopo il teatro – Carlo Collodi

Dopo il teatro - Carlo Collodi

Dopo il teatro – Carlo Collodi

Alfredo, Gino e Ida entrano tutti e tre insieme nella stanza preceduti da Bettina, che va a posare il lume sulla tavola.
 
ALFREDO (levandosi il cappello e il paletò): Com’hanno recitato bene! ma proprio bene!…
 
IDA: Quanto ci siamo divertiti, Bettina mia!… Che bella commedia!…
 
GINO: E la farsa dove la lasci? Se tu avessi visto, Bettina, il brillante della farsa! Chi sa quanto tu avresti riso! Figurati! gli è venuto fuori in maniche di camicia, e ha detto che dal freddo tremava tutto come un pezzo di gelatina. Te lo immagini un brillante di gelatina! (Ridendo di genio.)
 
 BETTINA: E la commedia era bella davvero?
IDA: Alfredo, diglielo tu.
 
ALFREDO: La commedia era bellissima: ma io, dico la verità, avrei sentito più volentieri un dramma.
 
IDA: Perché un dramma?
 
ALFREDO: Perché i drammi mi piacciono di più.
 
GINO: Anch’io mi diverto di più ai drammi: almeno si piange. Ma, più di tutto, mi piacciono le tragedie.
 
ALFREDO: Le tragedie? O dove le hai viste tu, le tragedie?
 
IDA: Povero figliolo, se l’è sognate!
 
GINO: Hai sentito, Bettina? E’ voglion dire che le tragedie me le sono sognate!… Non è vero che l’anno passato mi conducevi quasi tutte le sere ai burattini nel Parterre?
 
BETTINA: Verissimo.
 
CINO: Non è vero che una sera i burattini fecero due tragedie di fila?
 
BETTINA: Sarà vero, ma io le tragedie non le conosco: a me mi paiono tutte commedie.
 
ALFREDO: E com’erano intitolate queste due tragedie?
 
GINO: Ora non me ne rammento: gli è passato tanto tempo! Una mi pare che la fosse intitolata, Filippo Vu Re di Spagna.
 
ALFREDO (ridendo): Ma che Filippo Vu? Sarà stato Filippo Quinto.
 
GINO: Sarà stato Filippo Quinto: io però mi ricordo che sul cartellone c’era scritto Filippo, e dopo Filippo c’era un V in stampatello grande come la mia mano.
 
ALFREDO: Sta bene che ci fosse un V: ma quel V in numeri romani vuol dir quinto.
 
GINO: Cosa vuoi tu che io sappia dei numeri romani? Non ci sono mica stato a Roma, io.
 
ALFREDO: E quell’altra tragedia?
 
GINO: Quell’altra l’aveva un certo titolo curioso… te ne ricordi te, Bettina?
 
BETTINA: Che vuol che mi ricordi?
 
GINO: Mi pare che fosse una specie di Spazzolino Tiranno di Padova.
 
ALFREDO: Ma che spazzolino, buacciòlo? Vorrai dire Ezzelino tiranno di Padova.
 
GINO: Insomma, o lui o un altro, io so che a quella tragedia mi sono divertito dimolto. Ti rammenti, Bettina, che piacere quando tutti cominciarono a dare addosso al tiranno? Giusto te, Alfredo, levami una curiosità: mi dici perché tutti i tiranni hanno la barba nera?
 
ALFREDO (con serietà): Già: perché se la tingono apposta per far paura.
 
GINO: Ah!… ora capisco. Del resto io so che se domani avessi cento milioni di patrimonio…
 
IDA: Sentiamo un po’: che cosa vorresti fare?
 
GINO: Prima di tutto vorrei mettere ogni mattina nel Caffè-e-latte più di mezza tazza di zucchero, e poi vorrei andare tutte le sere ai burattini.
 
IDA: Tutte, tutte le sere?
 
GINO: Tutte le sere: anche quando piovesse.
 
IDA: A me poi i burattini mi piacciono, sì, ma fino a un certo segno: io più di tutto mi diverto al teatro, e specialmente a stare in un palco.
 
ALFREDO: si dice i gusti! Io, invece del palco, anderei più volentieri in una poltrona d’orchestra. A stare in un palco ci ho rabbia, e sai perché? perché ci guardano tutti.
 
IDA: Lasciali guardare. Io so che mi diverto moltissimo a vedermi guardare co’ cannocchiali.
 
ALFREDO: Finiscila, giuccherella! Chi vuoi che perda il suo tempo a guardare co’ cannocchiali una moccichina come te?
 
IDA (risentita): Non cominciare, Alfredo! Tu hai sempre il vizio di offendere!…
 
ALFREDO (ridendo): Mi dispiace: ho sbagliato a dir moccichina: volevo dire un bel pezzo di donna come te.
 
IDA (impermalita): C’è poco da canzonare. Ora sono piccola! ma poi crescerò anch’io. Il babbo dice che gli anni passano per tutti. Per noi altri ragazzi, però, questi anni benedetti non passano mai. La mi pare una bella ingiustizia! Oramai gli è un secolo che ho sempre dieci anni!…
 
BETTINA: si consoli: fra pochi mesi ne avrà undici.
 
IDA: Bella consolazione! Prima d’arrivare a quindici anni, figurati se c’è da allungare il collo. Però, se si guarda alla statura, sono grande quasi quanto Alfredo.
 
ALFREDO: Cucù! (In canzonatura.)
 
IDA: Quanto vuoi scommettere che ci corre appena un dito?
 
ALFREDO: Cucù.
 
BETTINA: Vediamo un po’, Idina: la vada a misurarsi con Alfredo.
 
ALFREDO (con serietà): Sai, Bettina, potresti anche dire col signor Alfredo: ti ho già avvertito che questo tono di confidenza non mi piace punto. Capirai che non lo faccio per me: lo faccio per riguardo del mondo.
 
GINO (in caricatura): Oh! l’illustrissimo signore Alfredo ha mille ragioni. Da qui in avanti gli darò del signore anch’io. Anzi, gli voglio dare dell’eccellenza (ridendo).
 
ALFREDO: Bada, Gino! non far tanto lo spiritoso. Ti avverto, per tua regola, che le mani mi cominciano a prudere…
 
GINO (scherzando): Che paura che mi hai fatto!… Ora non parlo più. Scusa, Bettina: ma la cena non è ancora preparata? Io ho un appetito che paion due.
 
BETTINA: La cena è preparata: ma il babbo legge il giornale, e quando avrà finito li farà chiamare.
 
GINO: Vuoi sapere perché il teatro mi piace tanto? perché dopo il teatro, ci tocca la cena.
 
BETTINA: O che forse non cena anche le altre sere?
 
GINO: Sì: ma l’altre sere io e l’Ida ci fanno cenare alle otto, per poi mandarci a letto. Cenare alle otto mi pare una cena da polli.
 
ALFREDO: Che cosa vorresti fare tutta la sera levato? Dopo le ventiquattro ti addormenteresti sul canapè.
 
GINO: Io, anzi, non ho mai sonno.
 
ALFREDO: Bravo! Meno male che ti sei addormentato anche stasera.
 
GINO: Dove?
 
ALFREDO: Nel palco.
 
GINO: Quando?
 
ALFREDO: A metà del second’atto: non è vero, Ida?
 
IDA: M’è parso anche a me.
 
GINO: Nossignori: sbagliano, non dormivo.
 
ALFREDO: O allora che cosa facevi?
 
GINO (un po’ confuso): Pareva che dormissi… ma invece pensavo.
 
ALFREDO (ridendo): O che per pensare c’è forse bisogno di chiudere gli occhi?
 
CINO: Secondo i naturali delle persone. Per esempio, anche il nostro maestro di scuola qualche volta, specialmente nelle ore calde dell’estate, ci dice: «Ragazzi, siate buoni e non fate tanto chiasso, perché ho bisogno di pensare cinque minuti a una cosa»; e quando ha detto così, appoggia la testa alla spalliera della poltrona, chiude gli occhi, apre la bocca e comincia a pensare…
 
ALFREDO: Ossia, comincierà a dormire.
 
GINO: Nossignore, non dorme: tant’è vero che, se urliamo troppo forte, si sveglia subito e ci fa una strapazzata di quelle co’ fiocchi… Ma dunque, si va o non si va a cena? Ho una fame che la vedo.
 
BETTINA: Abbia pazienza altri due minuti.
 
ALFREDO: Intanto che si aspetta, si fa una bella cosa?
 
GINO E IDA (insieme): Sentiamo.
 
ALFREDO: si ripete fra noi tre quella bella scena della commedia, dove il figlio riconosce sua madre?
 
IDA: Ripetiamola davvero.
 
GINO: No, no: io voglio prima ripetere alla Bettina il discorso che ha fatto il brillante, quando è venuto sulla scena in maniche di camicia. Vuoi sentirlo, Bettina? (si leva la giacchettina, la butta sul canapè e rimane in maniche di camicia.)
 
BETTINA: Perché si è levata la giacchettina?
 
GINO: Voglio farti vedere il brillante tale e quale.
 
BETTINA: Io non voglio vedere tanti brillanti. Io voglio che si rimetta subito la giacchettina. Ma non lo sa che a questi freddi potrebbe prendere un’infreddatura come nulla?
 
GINO: Un’infreddatura? non mi parrebbe vero di prenderla. Almeno il babbo mi comprerebbe le pasticche di lichene.
 
IDA: Vergognati, ghiottonaccio!
 
GINO: Mi piacciono tanto le pasticche di lichene!… E, invece, a farlo apposta, non infreddo mai. Si vede proprio che sono nato disgraziato! (Rimettendosi la giacchettina.)
 
ALFREDO: Dunque si fa questa scena, dove il figlio riconosce la madre?
 
GINO: Scusa, Alfredo: spiegami prima una cosa, che non ho potuto capire. Nella commedia di stasera, la madre sa fin dal principio che Carlo è suo figlio, non è vero?
 
ALFREDO: Sicuro che lo sa.
 
GINO: E se lo sa, mi dici perché aspetta a farsi riconoscere da lui, proprio all’ultima scena dell’ultimo atto?
 
ALFREDO: Povero figlio! Bisogna proprio dire che non hai nemmeno l’ombra del genio drammatico! O non capisci che se la madre si facesse riconoscere alla prima, la commedia finirebbe subito, e noi a quest’ora saremmo tutti a letto da un bel pezzo? Invece la madre, aspettando a farsi riconoscere proprio all’ultimo atto, costringe il pubblico a rimanere in teatro fino alle undici sonate: e così la gente, quando torna a casa, è tutta contenta, perché sa di avere spesi giustificati i suoi quattrini per il biglietto d’ingresso: mi sono spiegato?
 
GINO: Ora ho capito tutto. E io m’ero figurato invece che quella mamma di Carlo facesse un po’ di burletta.
 
ALFREDO: Diavol mai! O che si fanno le burlette anche nelle commedie serie?… Non ci mancherebb’altro!
 
IDA: Dunque si recita o non si recita questa scena?
 
ALFREDO: Lasciatemi distribuire le parti a me. Io farò da Carlo, ossia da figlio, e tu, Ida, farai la parte della madre.
 
GINO: E io?
 
ALFREDO: E tu farai da marito, ossia farai la parte di quello che arriva da ultimo e che tira la revolverata.
 
GINO: Fossi matto! Io non le faccio quelle brutte cosacce!
 
ALFREDO: S’intende bene che, invece di tirare colla pistola, tu farai il colpo con la bocca.
 
GINO: Come sarebbe a dire?
 
ALFREDO: Tu farai colla bocca: bum!
 
GINO: E quando lo debbo fare?
 
ALFREDO: Quando sarà il momento.
 
GINO: Ho capito.
 
ALFREDO: Dunque attenti. Io starò da questa parte: tu, Ida, mettiti là, vicina a quella tavola, per poterti appoggiare, quando dovrà venirti lo svenimento.
 
GINO: E io?
 
ALFREDO: E tu nasconditi dietro quella porta: e quando sarà il momento, uscirai fuori tutt’a un tratto e farai: bum!
 
IDA: Se io faccio la parte di madre, tocca a me a incominciare.
 
ALFREDO: Comincia pure: io son pronto.
 
IDA (movendosi e gestendo drammaticamente): «No, Carlo, voi non partirete… Oh! Dio!… se voi poteste… oh! Dio!… vedere i tormenti… e lo strazio… oh! Dio… di quest’anima!… Oh! Dio, pietà… di questa povera infelice…»
 
IL CAMERIERE (affacciandosi sulla porta): Signorini, il babbo li chiama a cena.
 
ALFREDO: Eccoci subito. Su, Ida; riattacca subito la tua parte, ma mettici un po’ più di passione… un po’ più di singhiozzo… molto singhiozzo.
 
IDA (declamando): «Oh! Carlo! Se poteste leggere… Oh Dio… in questo cuore… Oh!… Se poteste contare le lacrime…»
 
GINO (uscendo fuori): Bum!
 
ALFREDO (a Gino): No, no! Troppo presto, ancora no!
 
GINO: Spicciatevi, ragazzi, perché io voglio andare a cena.
 
ALFREDO: Avanti, Ida, avanti!
 
IDA (declamando): «No, Carlo, ve lo ripeto, voi non partirete… voi non potete partire di qui…»
 
ALFREDO (declamando): «Sì, o donna, io partirò… io lascerò
 
questi luoghi fatali… io fuggirò lontano, lontano, lontano…»
 
GINO (uscendo fuori): Bum! bum! bum!
 
ALFREDO: Ancora no, t’ho detto!
 
GINO: Ho fame, la volete capire?
 
ALFREDO: Altri due minuti, e la scena è finita. (declamando) «Sì, il mio destino vuole così… noi non ci rivedremo mai più… mai più!»
 
IDA: «Voi, Carlo, non partirete!»
 
ALFREDO: «Io partirò!»
 
IDA: «No…»
 
ALFREDO: «Sì: chi potrà impedirmelo?»
 
IDA: «Io!»
 
ALFREDO: «Voi?… e chi siete voi?»
 
IDA (con molto singhiozzo): «Sciagurato!… io… so… no… tua…»
 
GINO (uscendo fuori e interrompendo): Sai, Bettina: penserai tu a fare bum; io ho troppa fame e scappo a cena (via di corsa).
 
ALFREDO: Quand’è così, si può calare il sipario e andare a cena anche noi.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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La festa di Natale – Carlo Collodi

La festa di Natale - Carlo Collodi

La festa di Natale

La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.
 
Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l’Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne’ sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.
 
 La contessa passava molti mesi all’anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de’ suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.
 
Finita l’ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!
 
Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:
 
«Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene».
 
E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d’ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.
 
Alberto, il fratello minore, aveva un’altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.
 
Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.
 
E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:
 
«Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»
 
E Pulcinella non rispondeva.
 
«Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto.
 
E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.
 
«Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»
 
E Pulcinella, duro!
 
«Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po’ stizzito.
 
E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.
 
«Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico «guardami» allora mi guardi; e se ti dico «buon giorno» non mi rispondi?»
 
E Pulcinella, zitto!
 
«Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»
 
E Pulcinella alzava una gamba.
 
«Dammi la mano!»
 
E Pulcinella gli dava la mano.
 
«Ora fammi una bella carezzina!»
 
E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.
 
«Ora spalanca tutta la bocca!»
 
E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.
 
«Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»
 
Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.
 
Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!… e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.
 
«Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone… ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio… e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d’oro e mezza d’argento.»
 
Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l’uso di regalare a’ suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s’intende bene, de’ loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell’Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.
 
Luigino, com’è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.
 
L’Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l’ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.
 
In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.
 
Intanto il Natale s’avvicinava, quand’ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c’era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.
 
«Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l’interno della stanza terrena.
 
Nessuno rispose.
 
In quella stanza terrena c’era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.
 
«Zio Bernardo, ho fame!…», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.
 
«Insomma vuoi finirla?», gridò l’uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c’è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»
 
E nel dir così, quell’uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.
 
Allora Luigino, Alberto e l’Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.
 
Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:
 
«Grazie… ora non ho più fame…».
 
Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.
 
Alberto, per altro, non se l’era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:
 
«Oh come dev’essere cattivo il freddo! Brrr…».
 
E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev’esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.
 
Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l’ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.
 
«Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell’Orco?»
 
«Chi è l’Orco?»
 
«Noi si chiama con questo soprannome quell’uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»
 
«O il suo bambino che fa?»
 
«Povera creatura, che vuol che faccia?… È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo…»
 
«Che dev’essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.
 
«Pur troppo! Meno male che domani parte per l’America… e forse non ritornerà più.»
 
«E il nipotino lo porta con sé?»
 
«Nossignore: quel povero figliuolo l’ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».
 
«Brava Rosa.»
 
«A dir la verità, gli volevo fare un po’ di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo… ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»
 
Alberto stette un po’ soprappensiero, poi disse:
 
«Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»
 
«Non dubiti.»
 
Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de’ tre salvadanai.
 
Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l’Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.
 
«Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest’anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»
 
«La voglia di studiare l’ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»
 
«Speriamo che quest’altr’anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell’uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l’uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé l’Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.
 
Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:
 
«Sor Alberto! sor Alberto!».
 
Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell’andarsene, ripeté più volte:
 
«Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».
 
Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.
 
Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:
 
«Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».
 
Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d’una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.
 
«Non c’è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto… il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»
 
«No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all’Ada.»
 
E l’Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l’ultimo figurino.
 
«Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l’Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.
 
«Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d’una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»
 
«E ora, Alberto, vediamo un po’ come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»
 
«Ecco… io volevo… ossia, avevo pensato di fare… ossia, credevo… ma poi ho creduto meglio… e così oramai l’affare è fatto e non se ne parli più.»
 
«Ma che cosa hai fatto?»
 
«Non ho fatto nulla.»
 
«Sicché avrai sempre in tasca i danari?»
 
«Ce li dovrei avere…»
 
«Li hai forse perduti?»
 
«No.»
 
«E, allora, come li hai tu spesi?»
 
«Non me ne ricordo più.»
 
In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:
 
«È permesso?.»
 
«Avanti.»
 
Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.
 
«È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.
 
«Ora è lo stesso che sia mio, perché l’ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»
 
«E chi è quest’angelo di benefattore?», chiese la Contessa.
 
L’ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:
 
«Eccolo là.»
 
Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:
 
«Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!…».
 
«La scusi: che c’è forse da vergognarsi per aver fatto una bell’opera di carità come la sua?»
 
«Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.
 
La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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La Cervia nel bosco – Carlo Collodi

La Cervia nel bosco - Carlo Collodi

La Cervia nel bosco

C’era una volta un Re e una Regina che stavano fra loro d’accordo come due anime in un nocciolo: si amavano teneramente ed erano adorati dai loro sudditi; ma alla felicità completa degli uni e degli altri mancava una cosa: un erede al trono. La Regina, la quale sapeva che il Re l’avrebbe amata il doppio se avesse avuto un figlio, non lasciava mai in primavera di andare a bere certe acque che si dicevano miracolose per aver figliuoli. A queste acque ci correva la gente in folla da ogni parte; e il numero dei forestieri era così stragrande, che ci si trovavano di tutti i paesi del mondo.
 
 In un gran bosco, dove si andava a beverle, c’erano parecchie fontane: le quali erano di marmo o di porfido, perché tutti gareggiavano a chi le faceva più belle. Un giorno che la Regina stava seduta sull’orlo d’una fontana, ordinò alle sue dame di compagnia di allontanarsi e di lasciarla sola e poi cominciò i suoi soliti piagnistei. «Come sono disgraziata», diceva essa, «di non aver figli! sono ormai cinque anni che chiedo la grazia di averne uno; e ancora non ho potuto averla.
 
Dovrò dunque morire senza provare questa consolazione?» Mentre parlava così, osservò che l’acqua della fontana era tutta mossa; poi venne fuori un grosso gambero e le disse: «O gran Regina! finalmente avrete la grazia desiderata.
 
Dovete sapere che qui vicino c’è un magnifico palazzo fabbricato dalle fate: ma è impossibile trovarlo, perché circondato da nuvole foltissime attraverso alle quali non passa occhio mortale: a ogni modo, siccome io sono vostro servitore umilissimo, eccomi qui pronto a menarvici se volete fidarvi alla guida di un povero gambero».
 
La Regina lo stette a sentire senza interromperlo, perché la cosa di vedere un gambero che discorreva, l’aveva sbalordita dalla meraviglia: quindi gli disse che avrebbe gradita volentieri la sua offerta, ma che non sapeva, come lui, camminare all’indietro. Il gambero sorrise e prese subito l’aspetto di una bella vecchietta.
 
«Ecco fatto, o signora», le disse, «così non cammineremo più all’indietro. Ma vi domando una grazia: tenetemi sempre per una delle vostre amiche, perché io non desidero altro che di esservi utile a qualche cosa.» Uscì dalla fontana senza avere una goccia di acqua addosso: il suo vestito era bianco, foderato di seta cremisi, e i capelli grigi annodati dietro con nastri verdi. Non s’era vista mai vecchietta galante a quel modo! Salutò la Regina, che volle abbracciarla; e senza mettere tempo in mezzo, la fece prendere per una viottola del bosco, con molta meraviglia della Regina stessa: la quale sebbene fosse venuta nel bosco migliaia di volte, non era mai passata per quella viottola lì.
 
E come avrebbe fatto a potervi passare? Quella era la strada delle fate, per andare alla fontana, e per il solito era tutta chiusa da ronchi e da pruneti: ma appena la Regina e la sua guida vi ebbero messo il piede, le rose sbocciarono improvvisamente dai rosai, i gelsomini e gli aranci intrecciarono i loro rami per formare un pergolato coperto di foglie e di fiori, e migliaia di uccelli di varie specie, posati sui rami degli alberi, sfringuellarono allegramente.
 
Non si era ancora riavuta dallo stupore, che la Regina si trovò abbacinati gli occhi dallo splendore abbagliante di un palazzo tutto di diamanti; le mura, i tetti, i soffitti, i pavimenti, i giardini, le finestre e perfino le stesse terrazze erano tutte di diamanti. Nel delirio della sua ammirazione, ella non poté trattenersi dal mandare un urlo di sorpresa, e chiese all’elegante vecchietta, che l’accompagnava, se ciò che aveva dinanzi agli occhi era sogno o verità. «Non c’è nulla di più vero, o signora», ella rispose.
 
E subito le porte del palazzo si aprirono, e uscirono fuori sei fate: e quali fate! Di più belle e di più magnifiche non se n’erano vedute in tutto il loro reame. Vennero tutte a fare una profonda riverenza alla Regina: e ciascuna le presentò un fiore di pietre preziose, per poter formare un mazzo: c’era una rosa, un tulipano, un anemone, un’aquilegia, un garofano e un melagrano.
 
«Signora», le dissero, «noi non possiamo darvi un maggior segno della nostra venerazione, che permettendovi di venirci qui a visitare: noi siamo molto liete di farvi sapere che avrete una bella Principessa, alla quale metterete il nome di Desiderata, perché bisogna pur convenire che è un gran pezzo che la desiderate.
 
Quando verrà alla luce, ricordatevi di chiamarci, perché vogliamo arricchirla di tutte le più belle doti; e per invitarci a venire, non dovete far altro che prendere in mano il mazzo, che ora vi diamo, e nominare a uno a uno tutti i fiori, pensando a noi. State sicura che in un batter d’occhio saremo tutte nella vostra camera.» La Regina, fuori di sé dall’allegrezza, si gettò al collo alle fate; e gli abbracciamenti durarono una mezz’ora buona.
 
Quand’ebbero finito, pregarono la Regina a passare nel loro palazzo, del quale non si possono ridire a parole tutte le meraviglie. Figuratevi che per fabbricarlo avevano preso l’architetto del palazzo del sole, il quale aveva rifatto in piccolo quello che era in grande il palazzo del sole.
 
La Regina, non potendo reggere a così vivo bagliore, era costretta ogni tantino a chiudere gli occhi. La condussero nel loro giardino, e frutta più belle non se n’erano mai sognate! Albicocche più grosse della testa di un ragazzo, e certe ciliegie, che per mangiarne una, bisognava farla in quattro pezzi; e d’un sapore così squisito, che la Regina, dopo che l’ebbe assaggiate, non volle mangiarne d’altra specie in tempo di vita sua.
 
Tra tante meraviglie, c’era anche un boschetto di alberi finti e artificiali, i quali crescevano e mettevano le foglie alla pari di tutti gli altri. Impossibile ridire tutte le esclamazioni di stupore della Regina, i discorsi che fece sulla Principessina Desiderata e i ringraziamenti alle gentili persone che avevano voluto darle una notizia così gradita: basti questo, che non fu dimenticata nessuna parola di gratitudine e nessuna espressione di tenerezza.
 
La fata della fontana n’ebbe la sua parte, come di santa ragione le toccava. La Regina si trattenne nel palazzo fino alla sera: e innamoratissima della musica, le fecero sentire delle voci angeliche. Fu quasi affogata dai regali e dopo aver ringraziato mille volte quelle grandi signore, se ne venne via insieme colla fata della fontana. Tutte le persone della Corte, impensierite, la cercavano di qui e di là: e nessuno poteva immaginarsi dove trovarla.
 
Ci fu perfino chi sospettò che fosse stata rapita da qualche ardito forestiero, tanto più che era ancora giovane e nel fior della bellezza. Quando la videro tornata, com’è da figurarselo fu per tutti una grandissima festa: e perché anch’essa sentiva nel cuore una consolazione immensa per le buone speranze avute, così nel suo conversare c’era non so che di allegro e di gioiale che innamorava. La fata della fontana la lasciò che era quasi vicina a casa; e nell’atto di dirsi addio, raddoppiarono le carezze e i complimenti.
 
La Regina, trattenutasi ancora per una settimana a bevere le acque, non lasciò un giorno senza ritornare al palazzo delle fate colla sua elegante vecchietta, la quale tutte le volte si mostrava da principio in forma di gambero, e finiva poi col prendere la sua figura naturale. La Regina, partita che fu, divenne incinta, e mise alla luce una Principessa, alla quale dette il nome di Desiderata: e preso subito il mazzo, che aveva avuto in regalo, nominò a uno a uno tutti i fiori che lo componevano, ed ecco che sul momento si videro arrivare le fate.
 
Ciascuna di esse aveva un cocchio differente dall’altro: uno era d’ebano, tirato da colombi bianchi; alcuni erano d’avorio, attaccati a piccoli cervi, e altri di cedro, e altri di legno-rosa. Questo era l’equipaggio che solevano usare in segno d’alleanza e di pace; perché, quand’erano in collera, si servivano soltanto di draghi volanti, di serpenti che buttavano fiamme dalla gola e dagli occhi, di leoni, di leopardi e di pantere, in groppa alle quali si facevano portare da un capo all’altro del mondo in meno tempo che non ci voglia a dire buon giorno o buon anno.
 
Ma questa volta esse erano in pace e di buonissimo umore. La Regina le vide entrare nella sua camera, che avevano una cera molto lieta e maestosa: e dietro di loro, le nane e i nani del corteggio, tutti carichi di regali. Dopo abbracciata la Regina e baciata la Principessina, spiegarono il corredino, fatto di una tela così fine e così resistente da bastare cent’anni, senza pericolo che diventasse lisa; le fate la filavano da sé nelle ore d’ozio.
 
Quanto alle trine erano di maggior valore della tela stessa: vi si vedeva in essa raffigurata, o coll’ago o col fuso, tutta la storia del mondo; dopo di questa messero in mostra le fasce e le coperte, ricamate apposta con le loro proprie mani: e in queste erano rappresentati mille di quei giuochetti svariatissimi, che servono per baloccare i ragazzi. Dacché al mondo ci sono ricamatori e ricamatrici, non s’era mai veduta una cosa meravigliosa come quella tela. Ma quando fu messa fuori la culla, allora la Regina non poté frenarsi dal cacciare un grido di stupore, tanto quella culla sorpassava, per magnificenza, tutto il rimanente. Era fatta d’un legno che costava centomila scudi la libbra.
 
La sorreggevano quattro amorini: quattro veri capolavori, dove l’arte aveva vinto la materia, sebbene fossero tutti rubini e diamanti, da non potersi dire quanto valevano. Questi amorini erano stati animati dalle fate; per cui quando la bambina strillava, la cullavano dolcemente e l’addormentavano, e ciò faceva un grandissimo comodo anche alla balia. Le fate presero la Principessina e se la messero sui ginocchi: la fasciarono e la baciarono più di cento volte, perché era di già tanto bella, che bastava vederla, per mangiarla dai baci.
 
Quando si accorsero che aveva bisogno di poppare, batterono la loro bacchetta in terra, e comparve subito una balia, quale ci voleva per una così graziosa lattante. Restava oramai soltanto da dotarla: e le fate si spicciarono a fare anche questo; chi le diede la virtù, chi la grazia; la terza, una bellezza maravigliosa; la quarta, le augurò ogni fortuna; la quinta, buona salute; e l’ultima, la facilità di riuscir bene in tutte quelle cose che avesse preso a fare.
 
La Regina, contentissima, non rifiniva dal ringraziarle di tanti favori prodigati alla Principessina; quand’ecco che videro entrare in camera un gambero così grosso, che passava appena dalla porta. «Oh! ingratissima Regina», disse il gambero, «com’è egli possibile che vi siate dimenticata così presto della fata della fontana e del gran servizio che vi ho reso, menandovi dalle mie sorelle? Come! voi le avete invitate tutte, e me sola avete lasciata da parte? Pur troppo ne aveva un presentimento, e fu per questo che mi trovai obbligata a prendere la figura d’un gambero la prima volta che vi parlai, appunto per farvi notare che la vostra amicizia, invece di progredire, avrebbe camminato all’indietro.»
La Regina, disperata per la smemoraggine commessa, la interruppe e le chiese perdono. Ella disse che aveva creduto di nominare il suo fiore, come quelli di tutte le altre; che era stato il mazzetto di fiori di pietre preziose quello che l’aveva ingannata: e che essa non era capace di dimenticarsi i grandi favori ricevuti; e che, per conseguenza, la pregava e la scongiurava a non privarla della sua amicizia, e segnatamente a mostrarsi benigna verso la Principessina.
 
Tutte le fate, per la paura che volesse dotarla di miseria e di disgrazie, fecero coro alla Regina per vedere di abbonirla. «Cara sorella», le dissero, «Vostra Altezza non si mostri sdegnata contro una Regina, che non ebbe mai in mente di farvi il più piccolo sgarbo; lasciate, di grazia, codesta buccia di gambero e fatevi vedere in tutta la vostra bellezza.» Come è stato detto, la fata della fontana era un po’ civetta, e a sentirsi lodare dalle sorelle si ammansì un poco e diventò più agevole. «Ebbene», disse, «non farò a Desiderata tutto il male che avrei voluto: perché vi giuro che era mia intenzione di rovinarla affatto, e nessuno avrebbe potuto impedirmelo; nondimeno voglio annunziarvi una cosa: se ella vedrà la luce del sole, prima che abbia compiti quindici anni, dovrà pentirsene amaramente e forse ci rimetterà la vita.»
 
Il pianto della Regina e le preghiere delle illustri fate non valsero a smuoverla di un capello dalla sua sentenza. Ella si ritirò camminando all’indietro, perché non aveva voluto lasciare la sua sopravveste di gambero. Quando si fu allontanata dalla camera, la povera Regina chiese alle fate se ci fosse verso di salvare la figlia dalle disgrazie che le erano state minacciate. Esse tennero consiglio fra loro, e dopo aver messi avanti parecchi partiti, finalmente si attennero a questo: che, cioè, bisognava fabbricare un gran palazzo senza porte e senza finestre; con una porta d’ingresso sotterranea, e custodirvi lì dentro la Principessina fino a tanto che non avesse raggiunto l’età fatale, per esser fuori da ogni pericolo.
 
Tre colpi di bacchetta bastarono per cominciare e finire questo vasto edifizio. All’esterno era tutto di marmo bianco e verde: e i soffitti e gl’impiantiti tutti di diamanti e di smeraldi, che raffiguravano fiori, uccelli e mille altre cose graziose. Le pareti erano tappezzate di velluto di vari colori, ricamato dalle fate colle loro mani: e perché esse sapevano di storia, s’erano prese il gusto di rappresentarvi i fatti storici più belli e più notevoli: c’era dipinto il passato e l’avvenire, e in parecchi arazzi si vedevano effigiate le gesta dei più grandi Re della terra.
 
Le brave fate avevano immaginato questo modo ingegnoso per insegnare più facilmente alla giovine Principessa i vari casi della vita degli eroi e degli altri mortali. Tutta la casa, nell’interno, era rischiarata soltanto a forza di lampade: ma ce n’erano tante e poi tante, che pareva fosse giorno chiaro da un anno all’altro. Vi furono introdotti tutti i maestri, dei quali ella poteva aver bisogno per istruirsi e perfezionarsi; e il suo spirito, la sua svegliatezza e il suo buon senso arrivavano a intendere molte cose, anche prima che le fossero insegnate: ragion per cui i maestri rimanevano strasecolati per le cose bellissime che essa sapeva dire in una età, nella quale gli altri ragazzi sanno appena chiamare babbo e mamma. E questa è una prova che le fate non accordano la loro protezione, per tirar su degli stupidi e degl’ignoranti! Se la vivacità del suo spirito innamorava tutti coloro che l’avvicinavano, la sua bellezza non faceva di meno, e sapeva amicarsi le persone più insensibili e i cuori più duri.
 
La Regina madre non l’avrebbe lasciata un solo minuto, se il suo dovere non l’avesse tenuta presso il Re. Di tanto in tanto le buone fate venivano a vedere la Principessa e le portavano in regalo cose rarissime e vestiti sfarzosi ed eleganti, che parevano fatti per le nozze di qualche Principessa, non meno bella di Desiderata. Ma fra tutte le fate che le volevano bene, quella che le voleva più di tutte era Tulipano, la quale non rifiniva mai di raccomandare alla Regina che non le lasciasse vedere la luce del giorno prima di aver toccato i quindici anni. «La nostra sorella, quella della fontana, è vendicativa», diceva Tulipano, «avremo un bel pigliarci tutte le cure per questa fanciulla; ma se ella può, state certa che le farà del male; e per questa ragione bisogna, o signora, che voi siate vigilante, e di molto.»
 
La Regina dal canto suo prometteva di vegliare continuamente sopra una cosa di tanto rilievo: ma avvicinandosi il tempo nel quale la sua cara figlia doveva uscire dal castello, le fece fare il ritratto, e il ritratto fu portato a mostra nelle più grandi Corti dell’universo. Al solo vederlo, non vi fu Principe che non si mostrasse preso di ammirazione: ma fra gli altri ve ne fu uno che ne rimase talmente invaghito, da non sapersene più distaccare. Lo portò nel suo gabinetto, e si chiuse dentro insieme col ritratto, e parlandogli come se fosse vivo e potesse intenderlo, gli diceva le cose più appassionate di questo mondo. Il Re, non vedendo più il figliuolo, domandò che cosa facesse e come passasse il suo tempo, e perché non fosse più del suo solito buon umore.
 
Qualche cortigiano, di quelli che chiacchierano volentieri, e ve ne sono parecchi con questo vizio, gli fece intendere che c’era il caso che al Principe desse volta il cervello, perché passava le giornate intere chiuso nel suo gabinetto, e lì discorreva da sé solo, come se vi fosse stato qualcuno insieme con lui. Il Re sentì questa cosa con dispiacere: «Com’è egli possibile», diceva ai suoi confidenti, «che mio figlio perda così il giudizio? lui, che ne ha avuto sempre tanto! Voi sapete che finora esso è stato l’ammirazione di tutti, e io non vedo ne’ suoi occhi alcun segno di pazzia o di aberrazione mentale: soltanto mi pare diventato più pensieroso.
 
Bisogna che io lo interroghi da me: forse cosi arriverò a scoprire qual è la fissazione che s’è messa per il capo». Detto fatto, mandò per esso, e quindi ordinò a tutti che uscissero dalla sala. Dopo vari discorsi, ai quali il Principe non stava attento o rispondeva a rovescio, il Re gli domandò il motivo che aveva portato tanto cambiamento nelle sue abitudini e nel suo carattere. Il Principe, parendogli che gli fosse capitata la palla al balzo, si gettò ai suoi piedi, e gli disse: «Voi avete fissato di farmi sposare la Principessa Nera: in questo legame di parentela voi troverete dei vantaggi, che io non posso promettervi con quello della Principessa Desiderata; ma, o signore, io trovo in questa fanciulla tante grazie e tante attrattive, quante l’altra non ne possiede davvero».
 
«E dove le avete vedute?», chiese il Re. «Tanto dell’una che dell’altra, mi sono stati portati i ritratti», rispose il Principe Guerriero (era questo il suo nome, dacché aveva vinto tre grandi battaglie), «e vi confesso che la mia passione per la principessa Desiderata è così forte, che se voi non ritirate la parola data alla Principessa Nera, non mi rimane altro che morire: felice sempre di perdere la vita, una volta perduta la speranza di essere lo sposo di quella che amo.» «È dunque con un ritratto», riprese gravemente il Re, «che passate il vostro tempo a fare certi colloqui, che vi rendono ridicolo agli occhi di tutti i cortigiani?
 
Essi vi credono svanito il cervello, e se sapeste quello che si dice di voi, non avreste faccia di parlare a questo modo di simili ragazzate!» «Io non ho ragione di rimproverarmi una sì bella fiamma», replicò il Principe, «quando avrete veduto il ritratto di questa graziosa Principessa, son sicuro che compatirete la passione che sento per lei.» «Andate a prenderlo subito» esclamò il Re, con tanto risentimento, che dava a dividere la bizza che lo rodeva dentro. Se il Principe non avesse avuta la certezza che nessuna bellezza al mondo poteva stare a fronte di quella di Desiderata, sarebbe rimasto un po’ male.
 
Invece andò subito nel suo gabinetto, e poi tornò al Re. Il Re rimase maravigliato quanto il figlio. «Ah!», diss’egli, «mio caro Guerriero, io approvo la vostra scelta; quando alla mia Corte ci sarà una Principessa così graziosa, mi sentirò anch’io ringiovanito. Fin da questo momento mando subito degli ambasciatori dalla Principessa Nera per isciogliermi della parola data: e quand’anche dovessi tirarmi sulle braccia una guerra a morte, preferisco di farla finita una buona volta per tutte.» Il Principe baciò rispettosamente le mani del padre e gli abbracciò i ginocchi. La sua gioia era tanta, che pareva diventato un altro. Pregò e ripregò il padre a mandare degli ambasciatori non soltanto alla Principessa Nera, ma anche a Desiderata, raccomandandosi che per quest’ultima fosse scelto l’uomo più capace e più ricco del Regno, perché in questa grande occasione era necessario fare una splendida figura, e ottenere ciò che si voleva.
 
Il Re pose gli occhi su Beccafico. Era un gran signore, eloquente quanto Cicerone, e con centomila lire di rendita. Beccafico voleva un gran bene al principe Guerriero, e per andargli a genio, si fece fare il più splendido equipaggio e le più belle livree che si possa immaginare. La sua fretta per allestire i preparativi del viaggio fu grandissima, perché l’amore del Principe cresceva a occhio di giorno in giorno, ed esso era sempre lì a punzecchiarlo perché partisse. «Ricordatevi», gli diceva in tutta confidenza, «che c’è di mezzo la vita mia, e che io perdo il lume della ragione tutte le volte che penso al caso che il padre di questa Principessa potrebbe impegnarsi con qualcun altro, senza aver modo di tornare indietro: e che allora io dovrei perderla per sempre.» Beccafico lo rassicurava, non foss’altro per pigliar tempo; perché dopo le grandi spese alle quali era andato incontro, voleva almeno farsene onore.
Menò seco ottanta carrozze tutte risplendenti d’oro e di brillanti, e dipinte con certe miniature, da fare scomparire le miniature più finite che si sieno vedute mai: c’erano, per di più, altre cinquecento carrozze: ventiquattromila paggi a cavallo, vestiti come tanti principi: e il resto del corteggio non era da sfigurare in mezzo a quella magnificenza. Quando l’ambasciatore ebbe dal Principe l’udienza di congedo, questo l’abbracciò come un suo fratello, e gli disse: «Pensate, mio caro Beccafico, che la mia vita dipende dal matrimonio che andate a combinare: dite tutto quel che più sapete, e conducete con voi la Principessa, che è l’anima dell’anima mia».
 
E gli consegnò mille regali da offrirle, nei quali spiccavano in egual modo l’eleganza e la ricchezza; erano tutte allegorie amorose, incise su gemme e diamanti: orologi incrostati di carbonchi, con sopra le cifre di Desiderata: braccialetti di rubini modellati in forma di cuori: insomma, non c’era cosa alla quale non avesse pensato, per trovare il modo di piacerle. L’ambasciatore portava seco il ritratto del Principe, dipinto con tanta bravura e maestria, che non gli mancava nemmeno la parola, e faceva dei complimenti pieni di grazia e di brio.
 
È vero che non sapeva rispondere a tutto quello che gli si domandava: ma di questo non ce n’era un gran bisogno. Beccafico, per la parte sua, promise al Principe che avrebbe fatto l’impossibile per vederlo contento, e soggiunse che aveva con sé moltissimo denaro: e caso mai gli avessero negata la Principessa, avrebbe trovato il mezzo di comprare qualcuna delle sue cameriere e l’avrebbe rapita. «Ah!», esclamò il Principe, «non lo dite neanche per celia: son sicuro che ella si chiamerebbe offesa da un modo di fare così poco rispettoso!» Beccafico non stette a dir altro, e partì.
 
La gran diceria del suo viaggio arrivò prima di lui: il Re e la Regina ne furono lietissimi, perché stimavano molto il suo sovrano e conoscevano gli atti di valore del Principe Guerriero, e, in particolar modo, il suo merito personale; motivo per cui non avrebbero potuto trovare un partito più degno per la loro figlia, neanche a cercarlo apposta nelle cinque parti del mondo. Fu apprestato un palazzo per alloggiarvi Beccafico, e vennero dati gli ordini perché tutta la Corte si mostrasse in abito di gran gala.
 
Il Re e la Regina avevano pensato di far vedere all’ambasciatore la Principessa Desiderata: ma la fata Tulipano venne a trovare la Regina e le disse: «Guardatevi bene, Regina, da menare Beccafico dalla nostra figliuola», era solita di chiamarla così, «non conviene che egli la veda tanto presto e non bisogna mandarla al Re, che l’ha domandata in sposa, finché non abbia compiti i quindici anni! perché, badate bene a quello che vi dico, se ella esce fuori prima del tempo, si troverà a sentirsi cascare addosso qualche grosso malanno». La Regina abbracciò la buona Tulipano: le promise di darle retta, e senza perder tempo andarono insieme dalla Principessa. Intanto arrivò l’ambasciatore. Il suo seguito durò ventitré ore a passare, perché egli aveva seicentomila muli, colle sonagliere e i ferri d’oro e gualdrappe di velluto e di broccato ricamate in perle.
 
Lungo la strada c’era un pigia-pigia da non farsene idea, e tutti correvano per vederlo. Il Re e la Regina gli andarono incontro, tanto erano contenti della sua venuta. Salteremo a pié pari le cose che egli disse, i complimenti che si scambiarono, perché ci vuol poco a figurarseli: ma quando egli domandò di presentare i suoi omaggi alla Principessa, rimase molto male nel sentirsi negata la grazia. «Signor Beccafico», disse il Re, «se vi ricusiamo una cosa che pare così giusta, credetelo, non è un capriccio: e perché ne siate persuaso, bisogna raccontarvi la strana avventura di nostra figlia. Una fata, dal giorno che nacque, la prese a noia e la minacciò di mille guai, se ella avesse veduto la luce del sole prima di toccare i quindici anni: noi dunque la teniamo chiusa in un palazzo, che ha i suoi quartieri più belli sotto terra.
 
Era nostra idea di menarvici ma la fata Tulipano ci ha comandato di non fare nulla.» «Come mai, Sire!», replicò l’ambasciatore, «e io dunque dovrò avere il dispiacere di tornarmene indietro senza di lei? Voi l’accordaste al Re mio signore per il suo figlio: ella è aspettata con vivissima impazienza: e sarà possibile che voi vi lasciate imporre da certe fanciullaggini, come sono le predizioni delle fate? Ecco qui il ritratto del Principe Guerriero, che ho l’ordine di presentarvi: e il ritratto è così somigliante, che quando lo guardo mi par di vedere le stesso Principe in persona.» E cosi dicendo, lo scoprì. Il ritratto, che era stato ammaestrato soltanto per parlare alla Principessa, disse: «Bella Desiderata, non potete figurarvi con quanto ardore io vi attenda! venite subito alla nostra Corte, e abbellitela con quelle grazie che vi fanno unica al mondo!».
 
Il ritratto non disse altro: e il Re e la Regina rimasero tanto meravigliati, che pregarono Beccafico a darglielo, per portarlo a far vedere alla Principessa. A lui non gli parve vero, e consegnò subito il ritratto nelle loro mani. La Regina non aveva mai fatto cenno alla figlia di ciò che accadeva in Corte; ed anzi aveva proibito alle dame che le stavano intorno di dirle la più piccola cosa sull’arrivo dell’ambasciatore: ma esse non l’avevano ubbidita, e la Principessa sapeva già che si stava combinando un gran matrimonio; peraltro era tanto prudente, da fare in modo che la madre non si avvedesse di nulla. Quando questa le ebbe mostrato il ritratto del Principe, che parlava, e che le fece un complimento non so se più tenero o più grazioso, ella rimase molto sorpresa, perché non aveva mai veduto nulla di simile; e la bella fisonomia del Principe, l’aspetto sveglio e la regolarità delle fattezze non la stupivano meno delle cose che aveva dette il ritratto parlante.
 
«Vi dispiacerebbe», le disse la Regina, «di avere uno sposo che somigliasse a questo Principe?» «Signora», ella rispose, «non tocca a me a scegliere: sarò sempre contenta di colui che vi piacerà destinarmi.» «Ma pure», insisté la Regina, «se la sorte cadesse su lui, non vi stimereste felice?» Ella arrossì, abbassò gli occhi e non rispose nulla. La Regina la prese fra le braccia e la baciò più e più volte, né poté frenarsi dal versare alcune lacrime, pensando che stava sul punto di doverla perdere, perché non le mancavano oramai che tre mesi soli a compiere i quindici anni: e nascondendole il suo dispiacere, la mise al fatto di tutto quanto la riguardava nell’ambasciata di Beccafico: e fra le altre cose, le dette anche i regali che erano stati portati per lei. Essa li ammirò: lodò con finezza di gusto le cose più singolari; ma ogni pochino i suoi occhi si divagavano, per andare a posarsi sul ritratto del Principe, con un diletto fin’allora non provato mai.
 
L’ambasciatore, vedendo che perdeva il suo tempo a insistere perché gli dessero la Principessa, e che si contentavano soltanto di promettergliela, ma in modo solenne da non poterne dubitare, si trattenne pochi giorni presso il Re, e tornò per la posta a render conto al padrone del suo operato. Quando il Principe venne a sapere che la sua Desiderata non poteva averla prima di tre mesi, dette in tali sfoghi di dolore, che rattristarono tutta la Corte: non dormiva più: non mangiava nulla e diventò tristo e pensieroso: perse il suo bel colore: passava le giornate intere sdraiato su un canapè, nel suo gabinetto, a contemplare il ritratto della Principessa: le scriveva ogni cinque minuti e porgeva le lettere al ritratto, come se questo le sapesse leggere.
 
Alla fine le sue forze s’indebolirono a poco a poco, e cadde gravemente malato: né ci fu bisogno di medico o di chirurgo per indovinare la cagione del male. Il Re si disperava; egli amava teneramente suo figlio, e si trovava sul punto di perderlo. Che afflizione per lui! Né vedeva rimedio alcuno che valesse a salvargli il Principe, il quale non domandava altro che la sua Desiderata: senza di essa non gli restava che morire. In faccia alla gravità del caso egli prese la risoluzione di andare a trovare il Re e la Regina, che gli avevano promesso la figlia, affine di scongiurarli a muoversi a compassione dello stato in cui s’era ridotto il Principe, e a non mandare più in lungo le nozze; le quali non si sarebbero fatte più, quand’essi si fossero incaponiti a volere aspettare che la Principessa avesse compito i quindici anni.
 
Questo passo era straordinario per un Re, ma sarebbe stata una cosa anche più straordinaria se egli avesse lasciato morire il figlio, che gli era più caro delle pupille degli occhi. Peraltro s’inciampò in una difficoltà insormontabile: e questa era l’età molto avanzata del Re, la quale non gli acconsentiva se non di viaggiare in portantina: e questa cosa si combinava male coll’impazienza del figlio: per cui egli mandò per la posta il suo fido Beccafico e scrisse delle lettere commoventissime per impegnare il Re e la Regina a contentarlo nei suoi desideri. Intanto Desiderata non provava minor piacere a contemplare il ritratto del Re, che questi non provasse a guardare quello di lei.
 
Ogni tantino ella andava nella stanza dove era stato messo, e sebbene s’ingegnasse di celare i sentimenti del suo cuore, c’era chi sapeva indovinarli; e, fra gli altri, Viola-a-ciocche e Spinalunga, che erano le sue damigelle d’onore, si accorsero di quella specie d’irrequietezza che cominciava a tormentarla. Viola-a-ciocche l’amava di sincero amore e l’era fidatissima; mentre Spinalunga aveva sempre covato una gelosia segreta per le belle virtù e per lo splendido stato della Principessa. La madre di Spinalunga aveva allevata la Principessa, e dopo essere stata sua governante, era divenuta sua dama d’onore.
 
Ella dunque avrebbe dovuto amarla, come la cosa più cara di questo mondo: ma idolatrando essa la propria figlia, e vedendo l’odio di questa per la bella Principessa, non poteva, neanch’essa, volerle bene. L’ambasciatore, che era stato spedito alla Corte della Principessa Nera, non vi trovò lieta accoglienza, subito che si venne a sapere la bella parte che doveva fare. Questa negra era la creatura più vendicativa che possa immaginarsi; e le parve di non essere trattata troppo cavallerescamente a sentirsi dire sul viso, dopo le promesse e gl’impegni presi, che essa rimaneva ringraziata e messa in libertà.
 
Ella aveva veduto il ritratto del Principe, e s’era fitta in capo di voler lui a ogni costo: perché le donne nere, quando si ragiona d’amore, diventano le donne più ostinate del mondo. «Come, signor ambasciatore», ella disse, «forse il vostro Re non mi crede abbastanza ricca o abbastanza bella? Girate per i miei Stati e difficilmente ne troverete de’ più vasti; entrate nel mio tesoro reale e vedrete tant’oro, quanto non se n’è mai cavato da tutte le miniere del Perù; date finalmente un’occhiata al color morato del mio viso, alle mie labbra tumide, al mio naso schiacciato, eppoi ditemi se una donna, per esser bella, non bisogna che sia fatta così!» «Signora», rispose l’ambasciatore, il quale aveva una gran paura d’essere bastonato, peggio che in Turchia, «io biasimo il procedere del mio Sovrano, per quanto è lecito di farlo a un suddito: e se il cielo mi avesse dato il più bel trono dell’universo, saprei ben io la persona alla quale offrirlo!» «Queste parole vi salvano la vita», ella disse, «avevo fissato di cominciare da voi la mia vendetta; ma mi sarebbe parsa un’ingiustizia, perché in fin de’ conti non siete voi la cagione dello sleale procedere del vostro Principe: andate, e ditegli da parte mia che mi fa un vero regalo a sciogliersi con me, perché io non me la sono mai detta con le persone poco di buono.»
 
L’ambasciatore, che non vedeva l’ora di essere congedato, prese queste parole a volo; e via a gambe. Ma la Negra era troppo stizzita contro il Principe Guerriero, per potergli perdonare. Salì sopra un cocchio d’avorio tirato da sei struzzi, i quali facevano dieci miglia l’ora. Andò al palazzo della fata della fontana, che era la sua comare e la migliore amica che avesse: e dopo averle raccontata la sua avventura, la pregò colle braccia in croce perché l’aiutasse a pigliarsi una vendetta.
 
La fata si lasciò commuovere dal dolore della figlioccia; guardò nel libro, dove si dice tutto, e così venne subito a sapere che il Principe Guerriero lasciava la Principessa Nera per motivo di Desiderata, che egli amava perdutamente, e che era stato perfino malato dalla gran passione di non poterla vedere. Bastò questa cosa per riaccendere nel cuore alla fata quella collera, che oramai era quasi spenta; tanto che si poteva sperare, che non avendo più veduto la Principessa dal giorno che nacque, non avrebbe più pensato a farle del male, senza gl’incitamenti di quella brutta moraccia. «Come!», gridò la fata, «dunque questa sciaguratissima Desiderata s’è messa in capo di farmi sempre dei dispetti? No, no, vezzosa Principessa: no, carina mia; non soffrirò mai che ti si faccia un affronto. Il cielo e tutti gli elementi piglieranno parte in questa cosa.
 
Torna pure a casa e fidati alla parola della tua buona comare.» La Principessa la ringraziò e le fece dei doni di frutte e di fiori, che furono moltissimo graditi. Intanto l’ambasciatore Beccafico si avanzava a spron battuto verso la città, dove stava il padre di Desiderata: e appena giunto andò a gettarsi ai piedi del Re e della Regina; versò un torrente di lacrime e disse con un linguaggio da intenerire i sassi, che il Principe Guerriero sarebbe morto, se gl’indugiavano il piacere di vedere la Principessa: che oramai non mancavano più che tre soli mesi per compire i quindici anni; che non c’era pericolo che in un tempo così corto potesse accadere qualche disgrazia: che si prendeva la libertà di rammentare che questa eccessiva credulità per certe fandonie faceva torto alla maestà reale: in una parola, tanto seppe dire e tanto seppe fare, che finì col persuaderli tutti e due. Prova ne sia che anche essi s’intenerirono e piansero, ripensando al pietoso stato in cui s’era ridotto il Principe: e finirono col dire che pigliavano qualche giorno di tempo prima di dargli una risposta di benestare.
 
Esso allora replicò che non poteva concedere che poche ore, perché il suo padrone era oramai ridotto al lumicino, e s’era fitto in capo che la Principessa non lo potesse soffrire e fosse essa medesima che studiasse tutti gli ammennicoli per rimandare la partenza dall’oggi al domani. Allora gli fu detto che nella serata avrebbe saputo quello che si poteva fare. La Regina corse subito al palazzo della sua cara figlia, e le raccontò ogni cosa. Desiderata sentì un gran dolore: ebbe una stretta al cuore e svenne. Così la Regina poté conoscere tutta la passione del suo amore per il Principe. «Non ti dar tanto alla disperazione, bambina mia», ella le disse, «tu hai la virtù di poterlo guarire: la sola cosa che mi tenga in pensiero, sono le minacce fatte dalla fata della fontana al momento della tua nascita.» «Voglio sperare, o signora», ella riprese, «che ci debba essere qualche ripiego, per ingannare questa fata malandrina.
 
Non potrei, per dirne una, partire in una carrozza tutta chiusa, dove non potessi vedere la luce del giorno? questa carrozza l’aprirebbero soltanto la notte, per darci da mangiare, e così arriverei felicemente a casa del Principe Guerriero.» Il ripiego piacque molto alla Regina: ne parlò al Re, il quale lo approvò: e così mandarono a chiamare Beccafico, perché andasse subito a Corte, dove gli dettero per cosa sicura che la Principessa sarebbe partita prestissimo; e gli dissero di recarsi intanto a dare la buona novella al suo padrone, aggiungendo che per amor di far presto, avrebbero tralasciato di farle il corredo e i ricchissimi vestiti, quali si addicevano al suo grado di Principessa.
 
L’ambasciatore, che non capiva nella pelle dalla contentezza, si gettò di nuovo ai piedi delle loro Maestà per ringraziarle, e partì subito senza aver veduto la Principessa. Non c’è dubbio che ella avrebbe sentito un gran dolore nello staccarsi dal padre e dalla madre, se fosse stata meno viva in lei la prevenzione a favore del Principe: ma si danno nella vita certi sentimenti così prepotenti, che fanno tacere tutti gli altri. Le prepararono una carrozza foderata al di fuori di velluto, ornato di grandi borchie d’oro; e al di dentro di broccato ricamato d’argento e color di rosa.
 
Non vi erano cristalli; la carrozza era molto grande, tutta chiusa come una scatola; e uno dei primi signori del Regno teneva in custodia le chiavi, che aprivano la serratura degli sportelli. E perché un seguito troppo numeroso poteva essere d’impiccio, furono scelti pochi ufficiali per accompagnarla: e dopo averle date le più belle gemme del mondo e alcuni ricchissimi vestiti, e dopo gli addii, che fecero quasi soffocare dai pianti e dai singhiozzi il Re, la Regina e tutta la Corte, la chiusero nella carrozza, insieme alle sue dame d’onore Viola-a-ciocche e Spinalunga.
 
Bisogna ricordarsi che Spinalunga non voleva punto bene a Desiderata; ma invece ne voleva moltissimo al Principe Guerriero, del quale aveva veduto il ritratto parlante. Il dardo che l’aveva ferita era così acuto, che, nel partire, disse a sua madre che morirebbe di dolore, se accadesse il matrimonio della Principessa, e che se voleva salvarla dalla sua tristissima sorte, bisognava trovasse il verso di mandare all’aria ogni cosa. Sua madre, che era dama d’onore, le disse di darsi pace, che avrebbe cercato il modo di consolarla e di farla felice.
 
Quando la Regina fu sul punto di staccarsi dalla sua figlia, che partiva, la raccomandò, non si può dir quanto, a questa femmina trista. «Questo prezioso deposito», diss’ella, «lo confido alle vostre mani. Mi è più caro della vita! abbiate cura della salute di mia figlia, e soprattutto guardate bene che non vegga mai la luce del giorno. Sarebbe finita per lei! Voi sapete da quali sciagure è minacciata, e però ho fissato coll’ambasciatore del Principe Guerriero che, fino a tanto che non abbia quindici anni compiti, la terranno in un castello, dove non possa vedere altra luce che quella dei lampadari.»
La Regina affogò di regali questa dama, per impegnarla a stare attaccata fedelmente alle sue istruzioni, ed ella dal canto suo promise di vegliare alla conservazione della Principessa, e di renderle minutissimo conto di tutto, appena fossero arrivate. A questo modo il Re e la Regina, fidandosi di averla raccomandata bene, non ebbero alcun pensiero per la loro cara figlia, e così sentirono meno il dolore del distacco; ma Spinalunga, che dagli ufficiali incaricati di aprire tutte le sere la carrozza per servire la cena alla Principessa, aveva saputo che si avvicinavano alla città dov’erano aspettate, cominciò a metter su la madre perché compisse il suo tristo disegno, prima che il Re e il Principe venissero loro incontro e mancasse il tempo di fare il gran colpo. Cosicché, quando fu circa l’ora del mezzogiorno e quando i raggi del sole saettavano con maggior forza, ella tagliò di netto con un gran coltello fatto apposta, che aveva portato seco, l’imperiale della carrozza dove stavano rinserrate.
 
Fu quella la prima volta che la Principessa Desiderata vide la luce del giorno. Appena l’ebbe vista, mandò un sospiro e si precipitò fuori della carrozza, trasmutata in una Cervia bianca: e a quel modo si messe a correre fino alla vicina foresta, dove si nascose in un luogo folto e oscuro, per potervi piangere, senza essere vista da alcuno, le grazie, i bei lineamenti e la elegante figura, che aveva perduta.
 
La fata della fontana, che dirigeva questa strana avventura, vedendo che tutti quelli che accompagnavano la Principessa si davano un gran moto, gli uni per seguirla, gli altri per correre alla città e fare avvertito il Principe Guerriero della disgrazia accaduta, messe sottosopra cielo e terra: talché i lampi e i tuoni impaurirono anche i più coraggiosi: e in grazia del suo portentoso sapere, riuscì a trasportare quelle persone molto lontano di lì, togliendole in questo modo da un luogo, dove la loro presenza non le faceva punto piacere.
 
Le sole che restassero, furono la dama d’onore, Spinalunga e Viola-a-ciocche. Quest’ultima corse dietro alla sua padrona, facendo risuonare il bosco del nome di lei e de’ suoi acuti lamenti. Le altre due, contentissime di vedersi libere, non persero un minuto per fare quanto avevano già fissato. Spinalunga s’infilò i vestiti di Desiderata. Il manto reale, che doveva servire per le nozze, era d’una ricchezza da non potersi dire, e la corona aveva dei diamanti grossi due o tre volte il pugno della mano. Il suo scettro era d’un rubino d’un sol pezzo: e il globo che teneva nell’altra mano, una perla grossa quanto il capo d’un bambino.
 
Tutte cose bellissime a vedersi e pesantissime a portarsi addosso: ma bisognava non lasciare indietro nessuno degli ornamenti reali, una volta che Spinalunga voleva farsi credere la Principessa. In quest’abbigliamento, Spinalunga, seguita dalla madre che le reggeva lo strascico, si avviò verso la città. La falsa Principessa camminava con passo maestoso. Ella era sicura che sarebbe venuta gente a incontrarla; difatti, non avevano ancora fatta molta strada, che scorsero un drappello di cavalleria, e in mezzo due portantine luccicanti di oro e di gemme, portate da piccoli muli, ornati di lunghi pennacchi verdi (perché il verde era il colore favorito della Principessa).
 
Il Re che stava in una portantina, e il Principe malato nell’altra, non sapevano che cosa pensare di queste dame, che venivano incontro a loro. I più curiosi galopparono innanzi, e dalla ricchezza dei vestiti giudicarono che dovessero essere due signore di gran riguardo. Scesero da cavallo e le salutarono con molto rispetto. «Fatemi la grazia» disse loro Spinalunga «di sapermi dire chi c’è dentro quelle portantine.» «Signora», essi risposero, «c’è il Re e il Principe suo figlio, che vanno incontro alla Principessa Desiderata.» «Allora vi prego», continuò ella, «di andare a dir loro che la Principessa è qui. Una fata, che è nemica della mia felicità, ha sparpagliato e disperso tutti coloro che mi accompagnavano a furia di tuoni, di lampi e di prodigi paurosi: ma ecco qui la mia dama d’onore, la quale è incaricata di presentare le lettere del Re mio padre e di tenere in custodia le mie gioie.» I cavalieri, a queste parole, baciarono subito il lembo della sua veste e andarono di corsa a dire al Re che la Principessa si avvicinava. «Come!», egli esclamò, «ella se ne viene a piedi e di pieno giorno?»
 
Essi gli raccontarono ciò che ella aveva detto loro. Il Principe, che smaniava d’impazienza, li chiamò, dicendo loro con gran premura: «Non è un prodigio di bellezza? un vero miracolo? una Principessa senza confronti?». Nessuno rispose: per cui il Principe ne rimase stupito. «Si vede proprio», egli riprese, «che dovendo dirne troppo bene, preferite piuttosto non dir nulla.» «Signore, voi la vedrete da voi», disse il più ardito di essi, «sarà che lo strapazzo del viaggio l’abbia un po’ trasfigurita.» Il Principe rimase di stucco: se fosse stato più in forze, si sarebbe buttato giù dalla portantina per correre ad appagare la sua impazienza e la sua curiosità.
 
Il Re scese a piedi, e avanzandosi con tutto il corteggio raggiunse la falsa Principessa. Vederla, gettare un grido e tirarsi indietro di qualche passo, fu un punto solo. «Chi vedo mai?», egli disse, «ma questa è una vera perfidia.» «Sire», disse la dama d’onore avanzandosi a faccia fresca, «ecco qui la Principessa Desiderata con le lettere del Re e della Regina. Io rimetto pure nelle vostre mani la cassetta delle gioie, che mi fu consegnata sul punto di partire.» Il Re serbò un silenzio sinistro e cupo; e il Principe, appoggiandosi al braccio di Beccafico, si avvicinò a Spinalunga.
 
Dio degli Dei! come dové egli restare, vedendo una fanciulla di una statura così sperticata da far paura? Essa era così lunga, che gli abiti della Principessa le toccavano appena il ginocchio; secca come un uscio; col naso che somigliava al becco ricurvo di un pappagallo, e rosso e lustro in cima come un peperone. Denti più neri e più disuniti di quelli, non se n’è visti mai: in una parola, ell’era tanto brutta, quanto Desiderata era bella. Il Principe, che aveva sempre dinanzi agli occhi l’immagine della sua cara Principessa, al vedere questa brutta befana rimase imbietolito: non aveva fiato né per muoversi né per dire una mezza parola. Soltanto, dopo averla guardata un poco cogli occhi fuor della testa, si volse al Re ed esclamò: «Io sono tradito! Il maraviglioso ritratto sul quale ho vincolata la mia libertà non ha che veder nulla con la persona che ci è stata inviata. Hanno preteso ingannarmi? ci sono riusciti: ma a me mi costerà la vita».
 
«Che cosa intendete dire, o signore?», disse Spinalunga. «Chi è che ha cercato di ingannarvi? sappiate, o signore, che sposando me, non vi hanno ingannato davvero.» Tanta sfacciataggine e tanta arroganza non aveva esempio. Per parte sua, anche la dama d’onore rincarava la dose: «Oh! mia bella Principessa», esclamava, «dove siamo mai capitate? È forse in questo modo, che si accoglie una Principessa par vostro?
 
Quale incostanza! e che razza di procedere!…Il Re vostro padre saprà farsene render ragione». «Tocca a noi farsi rendere ragione», ribatté il Re, «egli ci aveva promesso una bella Principessa e ci manda invece un sacco d’ossi, una mummia da fare scappare dallo spavento: ora non mi fa più specie che egli abbia tenuto nascosto questo bel tesoro per quindici anni di seguito: aspettava che capitasse il merlotto: e la disgrazia è capitata su noi: ma staremo a vedere come finirà.» «Ma quale insolenza!», esclamò la falsa Principessa.
 
«Quanto sono sventurata di esser venuta qui, sulla parola di questa razza di gente! Guardate un po’ il gran delitto di essersi fatta ritrattare un po’ più bella del vero! Non sono forse cose che accadono tutti i giorni? Se per queste piccole marachelle i Principi rimandassero indietro le loro fidanzate, poche ma poche bene se ne mariterebbero.» Il Re e il Principe, colla bizza fino alla punta dei capelli, non si degnarono risponderle: salirono ciascuno nella loro portantina, mentre una guardia del corpo, senza tanti complimenti, messe in groppa al cavallo, dietro di sé, la Principessa: la dama d’onore ebbe lo stesso trattamento: e così furono menate in città, dove per ordine del Re furono chiuse nel Castello delle Tre Punte.
 
Il Principe Guerriero restò così sbalordito da questo colpo, che tutta la pena gli si rinserrò in fondo al cuore. Quand’ebbe fiato per parlare, che cosa mai non disse del suo tristo destino? Egli era sempre innamorato come prima, ma non gli restava per oggetto della sua passione che un bugiardo ritratto.
 
Tutte le sue speranze andate in fumo: tutte le sue illusioni intorno alla Principessa Desiderata, svanite! Non c’era disperazione da potersi agguagliare alla sua. La Corte gli era divenuta un soggiorno insoffribile, e pensò, appena ristabilitosi un po’ in salute, di fuggirsene di nascosto in un luogo solitario e passarvi tutto il resto della sua misera vita. Confidò questa sua idea soltanto al fido Beccafico, nella certezza che questi lo seguirebbe dappertutto: e lo scelse apposta per avere una persona colla quale potersi sfogare più liberamente che con chiunque altro, del brutto tiro che aveva dovuto patire.
 
Appena si sentì un po’ meglio, partì dalla Corte, lasciando sulla tavola del suo gabinetto una lunga lettera pel Re, colla quale lo avvertiva che sarebbe tornato appena avesse ritrovato un po’ di quiete di spirito: ma intanto lo scongiurava di pensare alla vendetta di tutti e due, e di tener sempre in prigione quello spauracchio di Principessa. È facile immaginarsi il dolore del Re nel ricevere questa lettera. Credette morir di dolore per la lontananza di un figlio, così adorato.
 
Mentre tutti s’ingegnavano di consolarlo, il Principe e Beccafico facevano strada: finché in capo a tre giorni si trovarono in una gran foresta, così oscura per la spessezza delle piante e così seducente per la freschezza dell’erbe e per i ruscelletti e i fili d’acqua, che scorrevano in tutti i versi, che il Principe, rifinito dal lungo cammino, non essendosi ancora rimesso perbene in forze smontò da cavallo e si sdraiò malinconicamente per terra, reggendosi il capo con la mano, e per la debolezza avendo appena fiato di parlare. «Signore», gli disse Beccafico, «mentre vi riposate un poco, io anderò in cerca di qualche frutto perché possiate rinfrescarvi: e intanto darò un’occhiata per farmi un’idea del luogo dove ci troviamo.»
 
Il Principe non rispose, ma gli fece segno col capo, come per dirgli: «Sta bene». Egli è ormai un bel pezzo che abbiamo lasciata la Cervia nel bosco, voglio dire l’incomparabile Principessa. Ella pianse, come può piangere una cervia all’ultima disperazione, quando si accorse delle sue nuove forme, specchiandosi nell’acqua di una fontana. «Come! e son io, proprio io?», essa diceva, «ed è per l’appunto oggi, che mi trovo ridotta a subire la più trista avventura che possa mai toccare a un’innocente Principessa come me, per capriccio e colpa delle fate? E quanto dovrà durare questa metamorfosi?
 
E dove nascondermi, perché i leoni, gli orsi e i lupi non mi divorino? Come potrò io cibarmi d’erba?» E via di questo passo, faceva a se stessa mille domande, e provava il più acerbo dolore che mai si possa. Se qualche cosa poteva consolarla, era il vedere che essa era una bella cervia, nello stesso modo che era stata una bella Principessa. Spinta dalla fame, Desiderata si messe a mangiar l’erba con molto appetito: e non sapeva intendere come questa cosa potesse stare.
 
Quindi si accoccolò sul muschio: intanto si fece notte, senza addarsene: ed essa la passò in mezzo a spaventi così terribili, da non poterseli figurare. Sentiva le bestie feroci a pochi passi di distanza; e scordandosi di esser Cervia, provava ad arrampicarsi su per gli alberi. I primi chiarori del giorno la rassicurarono un poco: ammirò la levata del sole: e il sole gli pareva così maraviglioso, che non finiva mai di guardarlo. Tutte le grandi cose, che ne aveva sentite dire, le sembravano molto inferiori a quel che vedeva. Era questo l’unico svago che avesse in quel luogo deserto.
 
Per parecchi giorni vi restò sola sola. La fata Tulipano, che aveva sempre voluto bene a questa Principessa, si appassionava di cuore per la sua disgrazia; ma d’altra parte, essa era molto indispettita che tanto la Regina come la figlia avessero fatto così poco conto de’ suoi consigli: perché, se vi ricordate, la buona fata aveva ripetuto loro più volte che se la Principessa fosse partita prima de’ quindici anni compiti, sarebbe andata incontro a qualche malanno. A ogni modo non volle lasciarla in balìa alle ire della fata della fontana, e fu essa stessa che guidò i passi di Viola-a-ciocche verso la foresta, perché questa fida confidente potesse consolarla nella sua terribile sventura.
 
La bella Cervia se ne andava, un passo dietro l’altro, lungo un fiumiciattolo, quando Viola-a-ciocche, non avendo più gambe per camminare, si coricò per pigliare un po’ di riposo. Tutta afflitta, stava almanaccando colla testa da qual parte volgersi per potersi imbattere nella sua cara Principessa. Appena la Cervia l’ebbe vista, fece tutto un salto, e passata dall’altra parte del fiume, che era abbastanza largo e profondo, venne a gettarsi addosso a Viola-a-ciocche e le fece un’infinità di carezze. Ella rimase stupita, non sapendo se le bestie di quel luogo avessero una simpatia particolare per gli uomini tanto da diventare umane, o se la Cervia la conoscesse; perché a dirla tale e quale, non accade tutti i giorni di vedere una Cervia che faccia con tanto garbo e con tanta cortesia gli onori della foresta.
 
Dopo averla guardata attentamente, si accorse con molta maraviglia che da’ suoi occhi sgorgavano alcuni grossi lacrimoni; per cui non ebbe più l’ombra del dubbio che quella fosse la sua cara Principessa. Le prese le zampe e gliele baciò collo stesso rispetto e colla medesima tenerezza, come le avrebbe baciato le mani. Provò a parlare e s’avvide che la Cervia la intendeva benissimo: ma non poteva risponderle; e allora le lacrime e i sospiri raddoppiarono da una parte e dall’altra. Viola-a-ciocche promise alla sua padrona che non l’avrebbe abbandonata mai: la Cervia le fece mille piccoli segni col capo e cogli occhi, per farle intendere che ne sarebbe contentissima, e che questa cosa la consolerebbe in parte delle sue pene. Erano state insieme tutta la giornata, quando la Cervietta ebbe paura che la sua fida Viola-a-ciocche potesse aver bisogno di mangiare, e la menò in un certo punto della foresta, dove aveva veduto alcune frutta selvatiche ma saporite.
 
Viola-a-ciocche ne mangiò moltissime, perché si sentiva morire dalla fame; ma quand’ebbe finita la sua cena, fu presa da una grande inquietudine, perché non sapeva dove si sarebbero ricoverate per dormire. Restare in mezzo alla foresta, esposte a tutti i pericoli, non era nemmeno da pensarci. «Non avete paura, graziosa Cervia», ella disse, «a passare la nottata qui?» La Cervia alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Ma pure», continuò Viola-a-ciocche, «voi avete già percorso una parte di questa vasta solitudine: non vi son, per caso, punte capanne, un carbonaio, un taglialegna, un eremitaggio?»
 
La Cervia fece col capo di no. «Oh Dei!», esclamò Viola-a-ciocche, «domani non sarò più viva: quand’anche avessi la sorte di scansare le tigri e gli orsi, son sicura che basterebbe la paura per uccidermi. E non crediate, mia cara Principessa, che mi dispiaccia per me di perdere la vita: me ne dispiace per voi. Povera me! Lasciarvi in questi luoghi, senza un’anima che vi consoli! Si può immaginare più trista cosa?» La Cervietta si mise a piangere: ella singhiozzava come potrebbe fare una persona. Le sue lacrime toccarono il cuore alla fata Tulipano, che in fondo l’amava teneramente e che, nonostante la sua disobbedienza, aveva sempre vegliato alla conservazione di lei: per cui, apparendole tutt’a un tratto, le disse: «Non ho nessuna voglia di farvi dei rimproveri: lo stato in cui vi trovate mi fa troppa pena».
 
Cervietta e Viola-a-ciocche la interruppero, gettandosi ai suoi ginocchi: la prima le baciava le mani e le faceva le carezze più graziose di questo mondo: mentre l’altra la scongiurava a muoversi a pietà della Principessa, rendendole le sue sembianze naturali. «Ciò non dipende da me», disse Tulipano; «colei che le fece tanto male ha molto potere; ma io abbrevierò il tempo della sua penitenza: e per addolcirla un poco, appena si farà notte ella lascerà le spoglie di Cervia; ma ai primi chiarori dell’alba, bisognerà che le riprenda daccapo e corra per la pianura e per la foresta, come le altre Cervie.»
 
Cessare di essere Cervia durante la notte, era già qualcosa, anzi molto: e la Principessa dette a dividere la sua allegrezza a furia di salti e di capriole, che messero di buon umore la fata. «Pigliate», diss’ella, «per questa viottola, e troverete una capanna abbastanza decente per questi luoghi campestri.»
 
Ciò detto, sparì. Viola-a-ciocche obbedì, e insieme con la Cervia entrò nella viottola, che era lì a pochi passi, e trovarono una vecchia seduta sulla soglia della porta, che stava ultimando un canestro di giunchi. Viola-a-ciocche la salutò: «Vorreste voi, mia buona nonna», le disse, «darmi un po’ d’ospitalità insieme a questa Cervia?». «Ma sì, figlia mia, che ti ospiterò volentieri: entra pure colla tua Cervia.» E detto fatto, le menò subito in una graziosa camerina, che aveva le pareti e l’impiantito di tavole di ciliegio: ci erano due letti di tela bianca: biancheria finissima, e ogni altra cosa così semplice e linda, che la Principessa ha raccontato dopo di non aver mai trovato nulla che fosse più di suo gusto.
 
Quando fu notte buia Desiderata cessò di essere cervia: abbracciò più di cento volte la sua cara Viola-a-ciocche; la ringraziò per l’affezione che l’aveva impegnata a seguire la sua fortuna, e le promise di farla felice, appena la sua penitenza fosse finita. La vecchia venne a bussare con molto garbino alla porta e, senza entrare, dette a Viola-a-ciocche dei frutti squisiti, de’ quali ne mangiò anche Desiderata, e con un grande appetito: quindi andarono a letto, ma appena giorno, Desiderata essendo ritornata Cervia, cominciò a grattare coi piedi la porta, perché Viola-a-ciocche le aprisse.
 
All’atto di separarsi, tutte e due si scambiarono i segni di un vivo dispiacere, sebbene il distacco fosse di poche ore: e la Cervia, lanciatasi nel fitto del bosco, cominciò a correre, secondo il suo solito. Mi par di aver detto che il Principe Guerriero si era fermato nella foresta, e che Beccafico girava in qua e in là, in cerca di frutti. Era già molto tardi, quand’esso capitò alla casina della buona donna, di cui si è già parlato. Esso si presentò con modi molto cortesi e le chiese quelle cose che gli abbisognavano per il suo padrone.
 
La vecchina fece in un lampo a empirgli un corbello di frutta, e glielo dette dicendogli: «Ho paura che se passate la notte qui, a cielo scoperto, vi capiterà qualche disgrazia: io non posso offrirvi che una povera stanzuccia: se non altro, sarete al sicuro dai leoni». Beccafico la ringraziò, e le disse che era in compagnia di un amico, e che andava a proporgli di andare a casa di lei: difatti seppe pigliare il Principe così per il suo verso, che questi si lasciò menare alla casa della buona donna. La trovarono, che era ancora sulla porta: ed essa, in punta di piedi, li menò in una camera, compagna a quella della Principessa, e tutte e due così accosto l’una all’altra, che erano separate da un semplice tramezzo.
 
Il Principe passò la notte inquietissimo, secondo il solito: ma appena il sole gli batté nell’imposte della finestra, si alzò, e per isvagarsi dall’uggia che aveva addosso andò nella foresta, dicendo a Beccafico di non seguirlo. Camminò una mezza giornata, senza neanche sapere dove andasse; finché capitò in un praticello, abbastanza grande, tutto coperto d’alberi e d’erba di muschio. In quel punto sbucò fuori una Cervia, ed egli non poté resistere alla voglia d’inseguirla, perché la caccia era la sua passione prediletta: sebbene ora non fosse più come una volta, dacché aveva nel cuore quest’altra spina.
Pur nondimeno si messe dietro alla Cervia, e di tanto in tanto le tirava coll’arco dei dardi, che la gelavano dalla paura, quantunque non le facessero il più piccolo male: perché bisogna sapere che la sua amica Tulipano vegliava in sua difesa: e non ci voleva di meno della mano soccorritrice di una fata per salvarla dalla morte, sotto una pioggia di colpi così bene assestati. Non è possibile essere stracchi, come lo era la Principessa delle Cervie, così poco avvezza a questo nuovo esercizio. Alla fine ebbe la fortuna di svoltare a secco per una viottola, dove il pericoloso cacciatore, avendola persa di vista e sentendosi anch’esso stanco morto, non si ostinò a darle dietro.
 
Passata in questo modo la giornata, la povera Cervia vide con gioia avvicinarsi l’ora di tornare a casa: difatti s’incamminò verso la capanna dove Viola-a-ciocche l’aspettava con impazienza. Entrata in camera, si buttò sul letto, rifinita e grondante di sudore. Viola-a-ciocche le faceva un monte di carezze e si struggeva di sapere che cosa le fosse accaduto. Essendo venuto il momento di perdere la sua buccia di Cervia, la bella Principessa riprese la sua vera sembianza e gettando le braccia al collo della sua amica del cuore: «Povera me!», disse ella, «io credeva di dover temere soltanto la fata della fontana e le bestie feroci della foresta: ma oggi sono stata insegnita da un giovine cacciatore: l’ho appena veduto, tanto io fuggivo a gambe: mille dardi mi minacciavano una morte inevitabile, e mi son salvata, non so neppur io come».
 
«Non vi conviene più andar fuori, mia bella Principessa»; disse Viola-a-ciocche, «date retta a me: passate in questa camera il tempo fatale della vostra penitenza, io anderò qui alla città più vicina a comprarvi dei libri perché abbiate uno svago: leggeremo i nuovi racconti che hanno scritto sulle fate, e faremo dei versi e delle canzonette.» «Taci, mia cara figlia», riprese la Principessa, «mi basta la cara immagine del Principe Guerriero, per farmi passare piacevolmente le giornate intere; ma quella stessa potenza che mi condanna durante il giorno alla trista condizione di Cervia, mi forza, malgrado mio, a fare quello che fanno le cervie: io corro, salto e mangio l’erba com’esse, e in quel tempo lì, una camera sarebbe per me una prigione insoffribile.» Era così affaticata dalla caccia che chiese da mangiare: e dopo, i suoi begli occhi si chiusero fino allo spuntar dell’alba.
 
Appena si accorse che faceva giorno, accadde la solita metamorfosi ed ella riprese la via della foresta. Il Principe dal canto suo era tornato sulla sera a raggiungere il suo grande amico. «Ho passato la giornata», gli disse, «a dar dietro alla più bella Cervia che abbia mai veduto: più di cento volte essa mi ha fatto cilecca con una sveltezza straordinaria: e sì che ho tirato giusto, né so capire com’abbia fatto a scansare i miei colpi.
 
Domani a giorno vo’ tornare a cercarla, e questa volta non mi scappa.» Infatti il giovane Principe che faceva di tutto per divagarsi da un’idea che oramai credeva un sogno, vedendo che la caccia per lui era una gran distrazione, andò di buonissim’ora nello stesso punto dove aveva trovato la Cervia; ma essa aveva pensato bene di non andarvi, per paura si rinnovasse il brutto caso del giorno innanzi. Il Principe guardava di qua e di là, e seguitava a camminare; finché, essendo un po’ accaldato, non gli parve vero di trovare delle mele, che al colore erano bellissime; ne colse, ne mangiò e di lì a poco si addormentò come un ghiro, sdraiato sull’erbetta fresca e all’ombra di alcuni alberi, sui quali molti uccelletti pareva che si fossero dati il punto di ritrovo.
 
Mentre dormiva, la nostra timida Cervia, sempre in cerca di luoghi solitari, passò da quella parte. Se l’avesse veduto subito, forse sarebbe scappata: ma trovandosi, senza addarsene, a passare rasente a lui, non poté stare dal guardarlo: e il suo sonno gli parve così profondo, che si sentì tanto sicura da fermarsi con tutto il comodo a contemplarne i bei lineamenti. Oh Dei! Come restò quando l’ebbe riconosciuto! Quella diletta immagine era scolpita troppo nel suo cuore, perché potesse averla dimenticata in sì poco tempo. Amore, amore, che pretendi da lei? Vuoi tu che Cervietta si esponga a perdere la vita per mano del Principe? Non dubitare, lo farà; essa non ha più testa per pensare alla propria sicurezza.
 
Si accovacciò a pochi passi distante da lui, e i suoi occhi, innamorati a guardarlo, non sapevano staccarsi un minuto solo: sospirava e mandava dei piccoli gemiti; finché, fattasi un po’ di coraggio, si avvicinò tanto, che quasi lo toccava: quand’egli si svegliò a un tratto. La sua meraviglia fu grande. Riconobbe la Cervia che gli aveva dato tanto da fare, e che aveva cercato per tutta la foresta: e trovarsela ora così vicina, gli parve quasi un miracolo. Essa non aspettò che egli tentasse di prenderla, ma fuggì con quanto ne avea nelle gambe; ed egli, dietro alla gran carriera.
 
Di tanto in tanto si fermavano per ripigliar fiato, perché la bella Cervia era stanca del giorno innanzi, e lo stesso era del Principe. Ma ciò che faceva rallentare di più la corsa della Cervia, era… ohimè, debbo dirlo? era il gran dispiacere di allontanarsi da colui, che l’aveva ferita più coi suoi pregi che colle sue frecce. Egli la vedeva ogni pochino voltarsi col capo verso di lui, come per chiedergli se voleva che ella perisse per i suoi colpi: e quando egli era a tocco e non tocco per raggiungerla, ella ripigliava nuova forza per scappare. «Oh! se tu potessi intendermi, Cervietta mia», gridava il Principe, «tu non mi fuggiresti a questo modo! Io ti amo; io ti voglio dar da mangiare.
 
Tu sei carina, e io voglio aver cura di te.» Ma il vento portava via le parole, per cui non arrivavano fino agli orecchi di Cervia. Alla fine, dopo aver fatto il giro della foresta, ella, non avendo più fiato da correre, rallentò il passo: il Principe invece raddoppiò il suo e la raggiunse con una gioia, della quale non si credeva più capace. Vide subito che ella aveva finite le sue forze: era tutta sdraiata per terra, come una povera bestiola, mezza morta, non aspettando altro che finire la vita per le mani del suo vincitore.
 
Ma esso, invece di mostrarsi crudele, cominciò a carezzarla. «Bella Cervia», le disse, «non aver paura: vo’ condurti meco, e devi star sempre con me.» Tagliò apposta alcuni rami d’albero: li piegò con garbo, li ricuoprì di muschi e vi sparse su delle rose, colte da una macchia che era tutta fiorita. Prese quindi la Cervia fra le sue braccia, le fece appoggiare il capo sul collo e andò a posarla amorosamente sul lettino erboso, fatto da lui.
 
Poi si sedette accanto cercando qua e là dei fili d’erba, che le presentava alla bocca, e che ella mangiava nella sua mano. Sebbene non sperasse punto di essere inteso, il Principe continuava a parlare: ed ella, per quanto grande fosse il piacere che provava nel vederlo, s’inquietava per l’avvicinarsi della notte. «Che sarà mai», diceva fra sé e sé, «caso mi vedesse tutt’a un tratto cambiar di sembianza? O fuggirà spaventato, o, se non fugge, che avverrà di me, trovandomi sola sola in mezzo a questa foresta?»
 
Ella si lambiccava il cervello per trovare il modo di mettersi in salvo, quand’egli stesso le agevolò la strada: perché, nel timore che la Cervia patisse la sete, se ne andò a cercare un qualche ruscello, per menarvela; ma in quel mentre che stava cercando, ella se la dette a gambe e giunse alla capanna, dove Viola-a-ciocche l’aspettava. Si gettò di nuovo sul letto; sopravvenne la notte, la sua metamorfosi cessò e prese a raccontare la sua avventura. «Lo crederai, mia cara?», ella disse all’amica, «il mio Principe Guerriero è qui, proprio qui in questa foresta; è lui che da due giorni mi dà la caccia, e che, dopo avermi presa, mi ha fatto mille carezze. Oh! com’è poco somigliante il ritratto che me ne fecero ! Egli è cento volte più bello; quello stesso disordine, che sogliono avere i cacciatori negli abiti e nella persona, non toglie nulla alla sua fisonomia geniale: anzi, gli dona un certo non so che, da non potersi ridire a parole.
 
Non son io forse una gran disgraziata a dover fuggire questo Principe? egli che mi fu destinato da’ miei genitori? egli che mi ama ed è riamato. Non ci mancava altro che una fata, che mi pigliasse a noia fin dalla mia nascita, per avvelenarmi tutti i giorni della mia vita!…» E dette in un gran pianto. Viola-a-ciocche la consolò e le fece sperare che quanto prima le sue pene si cambierebbero in tante allegrezze. Il Principe, appena ebbe trovato una fonte, tornò subito dalla sua cara Cervia: ma la Cervia non era più dove l’aveva lasciata. La cercò dappertutto, ma inutilmente, e se la prese con lei, come se l’avesse creduta capace di ragionare. «Com’è mai possibile», egli esclamò, «che io debba aver sempre dei motivi di lagnarmi di questo sesso volubile e ingannatore?» E tornò dalla buona vecchia col cuore amareggiato: raccontò al suo fido amico l’avventura, e tacciò la Cervia d’ingratitudine.
 
Beccafico non poté far di meno di ridere della bizza del Principe, e gli consigliò di punire la Cervia, la prima volta che gli capitasse sotto. «Rimango qui apposta,» rispose il Principe «dopo ripartiremo per altri paesi più lontani.» Si fece daccapo giorno, e col giorno la Principessa riprese la figura di Cervia bianca. Ella non sapeva a qual partito appigliarsi: o andare negli stessi luoghi, dove il Principe era solito cacciare; o tenere una strada diversa, per non incontrarlo.
 
Scelse quest’ultimo partito, e si allontanò dimolto, ma dimolto assai: ma il giovane Principe, furbo quanto lei, indovinò che essa avrebbe usata questa piccola astuzia; ed ecco che te la coglie calda calda nel più fitto della foresta, dove essa credeva di essere sicura da ogni pericolo. Appena essa lo vede, schizza in piedi, scavalca le macchie, e impaurita anche di più per il caso del giorno avanti, fugge via come il vento, ma in quella che sta per traversare una viottola, il Principe la mira così giusto, che le pianta una freccia nella gamba.
 
Ella sentì un gran male, e non avendo più forza per correre, si lasciò cadere per terra. Questa trista catastrofe non poteva scansarsi, perché la fata della fontana l’aveva decretata avanti, come lo scioglimento della strana avventura. Il Principe si avvicinò e fu preso da un vivo dolore nel vedere la Cervia che grondava sangue; strappò alcune erbe, le accomodò sulla ferita, per diminuirne lo spasimo, e preparò un nuovo letto di rami e di foglie. Egli teneva la testa di Cervietta sulle ginocchia: «E non sei tu, cervellino volubile», le disse, «la cagione della disgrazia che ti è toccata? Che ti aveva io fatto di male, ieri, da abbandonarmi a quel modo? Ma oggi non mi scappi, perché ti porterò con me».
 
La Cervia non rispose nulla: e che cosa poteva dire? Aveva torto e non poteva parlare; sebbene non sia sempre vero che quelli che hanno torto, stiano zitti. Il Principe la finiva dalle carezze. «Come mi dispiace di averti ferita», le diceva, «tu mi odierai e io voglio invece che tu mi ami.» A sentirlo, pareva che una voce segreta gl’ispirasse quelle cose che egli diceva a Cervietta. Intanto si fece l’ora di tornare dalla buona vecchia.
 
Egli prese la sua preda, e non fu per lui piccola fatica quella di portarla addosso, o di condurla a mano, o di strascinarsela dietro. Essa non voleva in nessun modo andar con lui. «Che sarà di me?», diceva, «come! e dovrò trovarmi sola con questo Principe? No: piuttosto la morte.» Ella faceva la morta e gli spiombava le spalle col peso: il Principe era in un lago di sudore e colla lingua fuori dalla fatica: e sebbene la capanna non fosse molto distante, sentiva che non ci sarebbe potuto arrivare, senza qualcuno che gli avesse dato una mano.
 
Pensò di chiamare il suo fido Beccafico: ma prima di abbandonare la preda, la legò ben bene con alcuni nastri a pié d’un albero, per paura che non gli scappasse. Ohimè! Chi poteva mai figurarsi che la più bella Principessa del mondo sarebbe un giorno trattata in questo modo da un Principe che l’adorava? Essa si provò inutilmente a strappare i nastri; ma i suoi sforzi non facevano che stringerli di più, e stava sul punto di strozzarsi con un nodo scorsoio, che le stringeva la gola, quando volle il caso che Viola-a-ciocche, stanca di starsene chiusa in camera, uscì per prendere una boccata d’aria e passò sul luogo, dov’era la Cervia bianca che si dibatteva.
 
Come rimase a vedere la sua cara Principessa in quello stato! Non poté scioglierla tanto presto, come avrebbe voluto, perché i nastri erano fermati con molti nodi: e mentre stava per menarla via, ritornò il Principe insieme con Beccafico. «Per quanto grande sia il rispetto che posso aver per voi, o signora», le disse il Principe, «permettetemi di oppormi al furto che volete farmi. Questa Cervia l’ho ferita io, è mia; io le voglio bene e vi supplico di lasciarmela.» «Signore», rispose con bella maniera Viola-a-ciocche, che era compitissima e graziosa quanto mai, «questa Cervia apparteneva a me prima che fosse vostra: rinunzierei piuttosto alla vita, che a lei; e se volete vedere come ella mi conosce, non dovete far altro che lasciarla un po’ in libertà. Animo, mia bella Bianchina, abbracciami», diss’ella: e Cervietta le si gettò colle zampe al collo. «Baciami qui, su questa gota!», ed essa ubbidì. «Toccami dalla parte del cuore», ed essa ci portò la zampina. «Fai un sospiro» ed essa sospirò. Il Principe non poté dubitare di quanto affermava Viola-a-ciocche. «Io ve la rendo», diss’egli garbatamente, «ma vi confesso che lo faccio a malincuore.» Ella se n’andò via subito colla sua Cervia.
 
Tanto l’una che l’altra non sapevano che il Principe albergasse sotto lo stesso tetto: egli le pedinava a una certa distanza, e restò maravigliato vedendole entrare dalla buona vecchia, che stava appunto aspettandole. Dopo pochi minuti vi giunse anch’esso: e spinto da un moto di curiosità, di cui era cagione la Cervia bianca, domandò alla vecchia chi fosse la giovane signora: e questa disse che non la conosceva né punto né poco, che l’aveva presa in casa colla sua Cervia, che pagava bene, e che viveva ritiratissima. Beccafico volle bracare, e domandò dov’era la camera di quella signora: e gli fu risposto che era vicina alla sua e separata soltanto da un semplice intavolato.
 
Quando il Principe fu nella sua stanza, Beccafico gli disse, o che egli s’ingannava all’ingrosso, o quella fanciulla doveva essere stata colla Principessa Desiderata: e che si ricordava di averla veduta a Corte, quando vi andò ambasciatore. «Perché mi richiamate alla mente questi tristi ricordi?», disse il Principe, «per quale stranissimo caso volete voi che ella si trovi qui?» «Ecco ciò che non vi so dire, signor mio», soggiunse Beccafico, «ma mi struggo di vederla un’altra volta: e poiché siamo divisi da un tramezzo di legno, voglio farci un buco.» «Mi pare una curiosità inutile», disse il Principe mestamente, perché le parole di Beccafico gli avevano rinnuovato tutti i suoi dolori: e aperta la finestra, che guardava nel bosco, diventò pensieroso.
 
Intanto Beccafico lavorava, e in pochi minuti fece un buco abbastanza grande da poter vedere la graziosa Principessa, la quale era vestita di un abito di broccato d’argento, sparso di fiori color rosa, ricamati in oro e smeraldi: i suoi capelli cadevano giù in grandi riccioli, sul più bel collo, che si possa vedere; il suo carnato brillava de’ più vivi colori e gli occhi innamoravano a guardarli. Viola-a-ciocche stava in ginocchio davanti a lei, e con alcune strisce di tela fasciava il braccio della Principessa, dal quale il sangue colava in grande abbondanza: e tutte e due parevano in gran pensiero per questa ferita. «Lasciami morire», diceva la Principessa, «meglio la morte, che questa vita disgraziata, che mi tocca a fare.
 
Che si canzona! esser Cervia tutto il giorno: veder colui, al quale sono destinata, senza potergli parlare, senza fargli conoscere la mia fatale sciagura. Ahimè! se tu sapessi le cose appassionate che mi ha detto, sotto la mia figura di Cervia; se tu sentissi la sua voce, se tu vedessi i suoi modi nobili e seducenti, tu mi compiangeresti anche più che tu non faccia, per essere in tale stato da non potergli spiegare il mio crudele destino.» Immaginatevi lo stupore di Beccafico a vedere e sentire di queste cose. Corse dal Principe, e tirandolo via dalla finestra, con un trasporto di gioia indicibile: «Oh signore», esclamò, «spiccatevi a metter l’occhio al buco di quest’intavolato, e vedrete il vero originale del ritratto, che ha formato per tanto tempo la vostra delizia».
 
Il Principe guardò e riconobbe subito la sua Principessa; e forse sarebbe morto di gioia, se non gli fosse venuto il sospetto di esser vittima di qualche incantesimo; difatti, come mettere d’accordo un incontro così maraviglioso col fatto di Spinalunga e sua madre chiuse nel castello delle Tre Punte, una col nome di Desiderata e l’altra con quello di sua dama d’onore? Ma la passione lo lusingava, senza contare che abbiamo tutti un grandissimo garbo a credere ciò che si desidera. Fatto sta che nel caso suo, non c’era da uscirne: o morir d’impazienza o accertarsi della verità.
 
Senza mettere tempo in mezzo, egli andò a bussare con molta manierina alla porta della camera, dov’era la Principessa. Viola-a-ciocche, non sospettando che potesse esser altri che la buona vecchia, e avendo anzi bisogno del suo aiuto per fasciare il braccio della sua padrona, corse subito ad aprire, e figuratevi come restò nel trovarsi a faccia a faccia col Principe, il quale andò a gettarsi ai piedi di Desiderata. Era tale e tanta la commozione del suo animo, che non poté fare un discorso filato e ammodo: per cui, sebbene mi sia ingegnato di sapere che cosa balbettasse in quei primi momenti, non c’è stato nessuno che me l’abbia saputo dire.
 
La Principessa non fu meno arruffata di lui nelle sue risposte: ma l’amore, che spesso e volentieri fa da interprete fra i mutoli, c’entrò di mezzo e li persuase tutti e due che avevano detto le cose più spiritose e più appassionate di questo mondo. Lacrime, sospiri, giuramenti, e perfino alcuni graziosi sorrisi: insomma, ci fu un po’ di tutto. La nottata passò così: si fece giorno, senza che Desiderata se n’accorgesse nemmeno, ed essa non divenne più Cervia.
 
Non c’è da potersi immaginare la sua allegrezza, appena se ne avvide: ed essa voleva troppo bene al Principe, per indugiare a dirgliene il motivo: e così cominciò a raccontare la sua storia, e lo fece con tanta grazia e con tanta eloquenza naturale, da mettere in soggezione i primi avvocati del mondo. «Come!», esclamò il Principe, «siete dunque voi, mia graziosissima Principessa, quella che io ho ferito sotto la sembianza di una Cervia bianca? Che cosa debbo fare per espiare un tal delitto? Vi basta che io muoia di dolore, qui sotto i vostri occhi?»
 
Egli era così mortificato, che il dispiacere gli si vedeva dipinto sul viso. Desiderata ci pativa e sentiva più dolore di questa cosa che della sua ferita; e voleva persuaderlo che si trattava di una sgraffiatura da non darsene l’ombra del pensiero e che, in fin dei conti, ella non poteva dolersi di un male che era stato cagione per lei di tanta felicità. Il modo col quale egli parlava era così affettuoso, che non si poteva dubitare della verità delle sue parole.
 
E perché anch’essa, alla sua volta, potesse essere istruita di ogni cosa, il Principe le raccontò la trappoleria usata da Spinalunga e da sua madre, aggiungendo che bisognava mandar subito a dire al Re suo padre la fortuna che egli aveva avuto di poterla finalmente trovare, perché il Re si preparava appunto a muovere una guerra micidiale, per ottenere soddisfazione del grand’affronto che credeva di aver ricevuto. Desiderata lo pregò di scrivergli una lettera e di mandargliela per Beccafico, e la cosa stava per essere fatta, quand’ecco che la foresta tutt’a un tratto risuonò di una fanfara squillante di trombe, cornette, timballi e tamburi. E parve di sentir passare gran gente lì vicino alla capanna.
 
Il Principe si affacciò alla finestra e riconobbe molti ufficiali, le sue bandiere e i suoi alfieri; ai quali ordinò di far alto e aspettarlo. Fu per quei soldati una sorpresa graditissima: perché tutti credevano che il loro Principe si sarebbe messo alla testa, per andare a vendicarsi del padre di Desiderata. Il padre del Principe, sebbene carico d’anni, li comandava in persona. Egli si faceva portare in una lettiga di velluto ricamato in oro: e dietro a lui, un carro scoperto, dov’erano Spinalunga e sua madre.
 
Appena veduta la lettiga, il Principe corse subito là, e il Re, stendendogli le braccia, l’abbracciò con una tenerezza veramente paterna. «E di dove venite, mio caro figlio?», domandò il vecchio, «come mai avete potuto lasciarmi nella grande afflizione, cagionatami dalla vostra lontananza?» «Signore», disse il Principe, «degnatevi di ascoltarmi.» Il Re scese subito dalla sua portantina, e ritiratosi in un luogo appartato, il Principe gli raccontò il fortunato incontro che aveva fatto e le furberie di Spinalunga.
 
Il Re, tutto contento di questa bella avventura, alzò le braccia e gli occhi al cielo in atto di rendimento di grazie: e vide in questo frattempo farsi avanti la Principessa Desiderata, più bella e più risplendente di tutti gli astri riuniti insieme. Ella montava un superbo cavallo, che caracollava continuamente: cento piume di diversi colori le ornavano il capo e i più grossi diamanti del mondo erano sparsi sul suo abito, vestita com’era da cacciatrice.
 
Viola-a-ciocche, che la seguiva, non stava meno bene di lei: e questo era tutto effetto della protezione di Tulipano, la quale aveva condotto ogni cosa con molta accuratezza e buon successo. Era essa che aveva fabbricata la graziosa capanna di legno per favorire la Principessa, e sotto le sembianze di vecchia, l’aveva poi regalata per parecchi giorni. Dopo che il Principe ebbe riconosciuti i suoi soldati, e mentre andava a trovare il Re suo padre, la fata entrò nella camera di Desiderata: le soffiò sul braccio per guarirla della ferita: e le diede gli splendidi vestiti, coi quali ella si mostrò agli occhi del Re, che ne rimase tanto meravigliato, da stentare a credere che fosse una persona mortale.
 
Egli le disse tutto quello che si può immaginare di più grazioso e gentile in un caso simile, e la scongiurò a non differire più a lungo ai suoi sudditi il piacere di averla per Regina. «Perché», egli continuò a dire, «io sono determinato a cedere il mio regno al Principe Guerriero, per renderlo in questo modo più degno di voi.» Desiderata gli rispose con tutta quella gentilezza, che c’è da aspettarsi da una persona squisitamente educata: quindi, gettando gli occhi sulle due prigioniere che erano nel carro e che si nascondevano il viso colle mani, ell’ebbe la generosità di chiedere la loro grazia, e che lo stesso carro servisse a condurle dove avessero voluto andare.
 
Il Re acconsentì al suo desiderio; ma dové ammirare il bel cuore di Desiderata e ne fece i più grandi elogi del mondo. Fu dato ordine all’armata di tornare indietro. Il Principe montò a cavallo per accompagnare la sua bella Principessa: e giunti alla capitale furono ricevuti con mille gridi di gioia. Si allestirono i preparativi per il giorno delle nozze: giorno che fu una vera solennità, per la presenza delle sei fate amiche e propizie alla Principessa. Esse le fecero i più ricchi regali, che mai si possano immaginare e fra gli altri, il magnifico palazzo nel quale la Regina era stata a visitarle, apparve a un tratto per aria, portato da cinquantamila Amorini, i quali lo posarono in una bella pianura, sulla riva del fiume. Dopo un tal dono, era impossibile farne altri di maggior valore.
 
Il fido Beccafico pregò il suo signore di mettere per lui una buona parola con Viola-a-ciocche, e di unirlo con essa, quand’egli avesse sposato la Principessa: ed egli lo fece volentieri. E così a questa cara fanciulla non parve vero di trovare un’occasione coi fiocchi, arrivata appena in un paese straniero. La fata Tulipano, che aveva le mani bucate anche più delle sue sorelle, le regalò quattro miniere d’oro nelle Indie, perché non s’avesse a dire che il suo marito era più ricco di lei. Le nozze del Principe durarono parecchi mesi: ogni giorno c’era qualche festa di nuovo, e per tutto non si faceva altro che cantare le avventure di Cervia bianca.
 
Se tutti i racconti delle fate dovessero aver per forza una morale, questo racconto qui non saprebbe proprio dove andare a pescarla. Salvo sempre il caso che Cervia bianca, colla storia pietosa delle sue disgrazie, non abbia preteso di far vedere alle giovinette i grandi pericoli che ci sono, a volere uscire prima del tempo fuori dell’ombra delle pareti domestiche, per entrare nella luce abbagliante del gran mondo.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Chi non ha coraggio non vada alla guerra – Carlo Collodi

Chi non ha coraggio non vada alla guerra - Carlo Collodi

Chi non ha coraggio non vada alla guerra – Carlo Collodi

Leoncino è un ragazzetto entrato appena nei dieci anni.

«Perché questo nome di Leoncino?», domanderete voi.

La storia sarebbe un po’ lunghetta, ma io ve la racconterò in quattro parole.

Bisogna dunque sapere che quando questo bambino fu portato al fonte battesimale, la sua mamma avrebbe gradito volentieri che si fosse chiamato Luigi: ma il suo babbo, incaponitosi a farne col tempo un guerriero (il babbo era comandante dei pompieri e bisogna perdonargli certe debolezze guerresche) volle a tutti i costi che fosse battezzato col nome di Napoleone.

Napoleone!… Come si fa, domando io, a mettere un nomone così grosso sulla testa di un tenero lattante? C’è quasi il pericolo di soffocarlo!

Fatto sta che in famiglia, per vezzeggiativo, cominciarono subito a chiamarlo Napoleoncino: ma poi, avvedutisi che questo vezzeggiativo era troppo lungo, gli tagliarono le due prime sillabe (Na-po), e così, di un Napoleoncino, ne fecero per risparmio di fiato un economico e modesto Leoncino.

Il piccolo guerriero crebbe a occhiate, e a dieci anni era già diventato un bel ragazzo. Correva, ballava, saltava, faceva la ginnastica, e, cosa singolarissima! qualche volta anche studiava.

Di burattini e di altri balocchi non voleva saperne. L’unica sua passione erano le sciabole di latta con l’impugnatura dorata e i fucilini a saltaleone, da caricarsi in tempo di pace coi lupini secchi, e in tempo di vera guerra, coi sassolini di ghiaia o coi nòccioli di ciliegia.

Il suo babbo poi, per contentarlo e per coltivargli sempre più lo spirito marziale, gli aveva fatto fare anche l’uniforme di generale d’armata, con le spalline di bambagia gialla come lo zafferano e con un berretto di panno scuro, ornato di un bel nastro di tela incerata e rilucente, che, veduto da lontano, pareva proprio un gallone d’argento.

Venuto il tempo delle vacanze, Leoncino fu condotto a villeggiare in casa di un suo zio, ricco possidente di campagna.

Questo zio aveva una nidiata di cinque figlioli, tutti bambinetti fra i sette e gli undici anni. Figuratevi la contentezza di Leoncino quando si trovò in mezzo a quegli altri cinque monelli.

Com’è naturale, pensarono subito, tutti d’accordo, di fare i soldati. Arnolfo, il più piccolo dei cugini, nominato trombettiere di reggimento, andava avanti al corpo d’esercito, sonando la tromba con la bocca. Raffaello, il più alto di tutti, faceva da cavalleria, per cui era obbligato a camminare sempre di trotto o di galoppo e qualche volta anche a nitrire e tirare i calci, a uso cavallo: Asdrubale e Gigino rappresentavano il grosso della fanteria. Tonino guidava i carri dell’ambulanza, strascinandosi dietro il carretto dell’ortolano per caricarci su, dopo la battaglia, i morti e i feriti, e Leoncino… Leoncino poi, come potete immaginarvelo, era il comandante generale e marciava sempre alla testa della grande armata.

II.

Tutte le mattine che Dio mandava in terra, i sei ragazzi, dopo aver preso con sé il pane e il companatico per fare il rancio, si mettevano in marcia armati di tutto punto, avviandosi a combattere qualche gran battaglia nel vicino bosco distante forse un chilometro dalla villa.

Arrivati a mezza strada, facevano alto in mezzo a un prato, e lì, sdraiati sull’erba, mangiavano, o, per dir meglio, divoravano il rancio, mentre uno di loro, s’intende bene, rimaneva a far da sentinella avanzata in fondo al prato, per dare il grido d’allarme nel caso che i nemici fossero sbucati fuori all’improvviso.

Ma l’uso della sentinella avanzata durò poco, e vi dirò il perché. Una mattina toccò a far da sentinella al trombettiere Arnolfo, un ragazzino che non aveva ancora sett’anni finiti. Arnolfo, ubbidiente ai regolamenti e alla disciplina militare, si rassegnò a fare una mezz’ora di sentinella: ma appena smontato, corse subito in mezzo ai compagni, per farsi dare la sua parte di rancio. E lascio pensare a voi come restò, quando si accorse che i suoi compagni avevano mangiato tutto, diluviato tutto, spolverato tutto: fino i minuzzoli di pane, fin le cortecce del cacio, fin le bucce del salame! Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c’è l’esempio d’un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui.

Da quel giorno in poi, in quel corpo d’armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l’ora del rancio. Di fronte a un atto così grave d’insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto… e tutti pari.

E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano?

Ve lo dico subito. Appena finito il rancio, l’esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a passo di carica dentro il bosco. Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent’anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l’ordine di cominciare il fuoco. Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: «Avanti! Coraggio, marmotte!… Serrate le file!… Alla baionetta!».

Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita.

E la quercia?… La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire:

«Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio!…».

III.

Un giorno, per altro, avvenne un caso orribile e spaventoso; ed ecco come andò.

Il piccolo esercito, secondo il solito, si avanzava a marcia forzata dentro il bosco, in cerca del solito nemico. Quando, tutt’a un tratto, il general Leoncino, che camminava fieramente avanti una ventina di passi, si fermò esterrefatto, e cacciando un grido acutissimo di terrore, si dette a scappare verso casa.

La sua fuga fu così precipitosa e disordinata, che per la strada perse gli sproni di latta e il berretto di generale, col gallone che pareva d’argento.

Che cos’era mai accaduto di strano?…

Quando Leoncino arrivò alla villa, era ansante, boccheggiante e tutto paonazzo in viso come un cocomero troppo maturo.

E per l’appunto la prima persona, in cui s’imbatté, fu lo zio.

Conoscete, per caso, lo zio di Leoncino? Lo dovete conoscere di certo, perché chi lo sa quante volte lo avete incontrato per la strada: ma ora forse non ve lo rammentate più.

Figuratevi, dunque, un omone lungo lungo, grosso grosso, con un faccione largo come la luna, e con un nasone tutto pieno di nasini, da parere un grappolo d’uva.

Di nome si chiama Giandomenico: ma tutti nel paese lo conoscono col soprannome di Nasobello.

Vedendolo la prima volta e giudicandolo dalla fisonomia burbera e accigliata, c’è da scambiarlo per un orco, per un tiranno, per un mangia-bambini, e invece… Invece è una bonissima pasta d’uomo, burlone, allegro, di buon’umore, tutt’amore per i figliuoli e tutto premure e attenzioni per il suo nipotino.

Tant’è vero che appena gli capitò davanti Leoncino scalmanato e impaurito a quel modo, il sangue gli fece un gran rimescolone e gridò subito:

«Che cos’è stato? Perché hai il viso così acceso?… Dove sono rimasti i tuoi cugini?…».

Il ragazzo stintignava a rispondere: pareva quasi che si vergognasse.

«Dunque?…», insisté lo zio, alzando sempre più la voce.

«Ecco… dirò… una bestia così brutta…»

«Quale bestia?…»

«Io…»

«Come? tu sei una bestia?…»

«Io, no: quell’altra… che ho trovata nel bosco…»

«Non capisco nulla: ma spiegati, per carità!… Dov’hai lasciato i tuoi cugini?…»

«Fra poco verranno…»

«Eccoci qui! eccoci qui!», gridarono di fuori cinque voci argentine e squillanti, come tanti campanelli.

E nel tempo stesso entrarono in sala i cinque ragazzi, che si buttavano via dalle matte risate.

Il babbo, che non sapeva il motivo di questo gran buon’umore, disse allora con accento risentito:

«Finitela una volta! Si potrebbe sapere almeno di chi ridete?».

«Si ride di lui!…» E, accennando Leoncino, dettero in una risata più forte.

«Del nostro coraggioso generale!» E qui una risata più lunga.

«Povero generale, che paura che ha avuta! Diamogli subito un bicchier d’acqua!» E qui una risatona così sguaiata, che non finiva più.

E Leoncino?…

IV.

Leoncino aveva perduto la voce. Stava ritto in mezzo alla sala, con la testa bassa, col mento conficcato nello stomaco, e di tanto in tanto dava dell’occhiatacce ai suoi compagni, come dire: «Quando saremo fuori di qui, faremo i conti e me la pagherete!…».

«Dunque, si può sapere che cos’è accaduto?», domandò il babbo.

«Te lo racconterò io», disse Raffaello, quello che faceva da cavalleria.

«No: io!», gridò Gigino, il rappresentante la fanteria.

«Nossignori, tocca a me», strillò Arnolfo, il trombettiere. «Io sono il più piccino di tutti; dunque ho più diritto degli altri.»

«Lasciate parlare Arnolfo», disse il babbo, «e zitti tutti!»

Il piccolo trombettiere, non sapendo lì per lì trovar subito la parola per dar principio al suo racconto, cominciò a fare con la bocca mille versi e a gesticolare con le mani: alla fine poi, trovata la parola, prese a dire come seguitando un racconto:

«Sicché dunque, quando il nostro generale ci disse: «Avanti!» noi tutti si rispose: «Andiamo!».

«Andiamo? Ma dove volevate andare?», domandò il babbo.

«O che non lo sai? S’andava a far la guerra…»

«La guerra contro chi?»

«La guerra contro Cartagine.»

«E chi è questa Cartagine?»

«È una grossa quercia, che rimane a metà del bosco.»

«E perché la chiamate Cartagine?»

«Bella forza! Perché noi siamo i Romani e andiamo sempre a bastonarla.»

«Ora ho capito tutto!», disse il babbo. «Prosegui pure il racconto.»

«Sicché dunque, quando si fu per i campi, sarebbe toccato a me a camminare avanti, ma siccome Leoncino è un prepotente per la ragione che ha la sciabola dorata e la striscia bianca al berretto, allora mi saltò addosso col dire: «Il Generale sono io, e tu devi venire dietro a me». Ma questa l’è una riffa; ne convieni, babbo? Scusa, babbino, te che te ne intendi, quando si fa la guerra, chi è che va avanti, il generale o quello che sona la tromba? Io dico che quello che sona la tromba gli è sempre il primo di tutti… ne convieni?… Se no la guerra sarebbe una bella ingiustizia.»

«Via! via! via!», gridò il babbo. «Non ci perdiamo in tante lungaggini.»

«Mi spiccio in due parole. Sicché dunque, lui, secondo il solito, volle andare avanti, e noi tutti dietro a passo di corsa. Quando tutt’a un tratto, che è che non è, il nostro Generale in capo si ferma… fa due salti indietro, e cacciando un urlo che pareva il fischio del vapore, si mette a scappare. E come scappava!… Se tu avessi visto come scappava!… Ti ricordi, babbo, del gatto del nostro ortolano, quando gli si faceva vedere la frusta? Tale e quale.»

«E la cagione di questo spavento?»

«Figurati! Aveva visto fra l’erba una tartaruga!»

V.

Il signor Giandomenico, udito il racconto, sentiva anch’esso una gran voglia di ridere: ma invece, atteggiandosi a giudice severo e inesorabile, si voltò verso i suoi figliuoli, gridando in tono di comando militare:

«Soldati! In riga di battaglia!».

A questo comando, i ragazzi si posero tutti in fila, rimanendo immobili e col loro fucilino di legno appoggiato sulle spalle.

Allora il signor Giandomenico riprese:

«Visto e considerato che un generale d’armata, il quale si mette a fuggire perché ha paura di una tartaruga, non è degno di comandare uno dei primi eserciti d’Europa (i soldati chinarono il capo in segno di ringraziamento) ordiniamo e vogliamo che il generale Leoncino si dimetta subito dal supremo grado che ha tenuto finora e prenda invece gli scevroni di caporale. Il prode Raffaello, comandante di tutta la cavalleria, è incaricato di farsi consegnare da Leoncino la sua spada d’onore.»

Raffaello, senza mettere tempo in mezzo, andò subito in fondo alla stanza: e movendosi di là e camminando un po’ di trotto e un po’ di galoppo, si presentò dinanzi al povero Generale, e fece l’atto di chiedergli la spada.

Leoncino non disse una mezza parola: ma seguitava a tentennare il capo, come fanno i chinesi di gesso. Alla fine, visto che non c’era scampo, cominciò adagio adagio a sfibbiarsi la spada dalla cintola: e sfibbiata che l’ebbe, figurò di consegnarla in mano a Raffaello, ossia al comandante della cavalleria.

Ma invece di consegnargliela, gliela batté sulle dita. E pare che gliela battesse piuttosto forte, perché l’altro si risentì tutto inviperito, e ne nacque un combattimento a corpo a corpo fra la cavalleria e il generale. E chi lo sa come questo combattimento sarebbe finito, se il signor Giandomenico non ci fosse entrato di mezzo con le buone maniere, dando, cioè, un bellissimo scappellotto al generale e pigliando per un orecchio la cavalleria. E così persuase i due guerreggianti a sospendere le ostilità e a firmare lì su due piedi un trattato di pace.

E la pace fu firmata.

Ma il povero Leoncino non sapeva rassegnarsi a quest’atto d’umiliazione; e giorno e notte si lambiccava sempre il cervello per trovare il modo di dare qualche splendida prova di coraggio, tanto da riguadagnarsi il grado e la spada di generale. Cerca oggi, cerca domani, finalmente gli parve di vedersi balenare dinanzi agli occhi una bell’idea.

Quella sera andò a letto tutto contento: e prima di addormentarsi diceva dentro di sé: «Domani o doman l’altro sarò generale daccapo… e allora, guai a Raffaello… Per vendicarmi di lui, ordinerò subito che la Cavalleria debba camminare sempre a piedi!…».

Eppure è così: i ragazzi vendicativi spesse volte sono anche ridicoli nelle loro vendette!

VI.

Indovinate un po’, ragazzi, quale fu la bellissima idea (dico bellissima, per modo di dire) che balenò alla mente di Leoncino, per dare una gran prova del suo coraggio e per riguadagnarsi il grado di generale?

Fu quella di sfidare i suoi cugini a chi avesse fatto il salto più alto e più pericoloso. Figuratevi che bel giudizio!

«Io», disse subito Arnolfo, «scommetto di saltare gli ultimi cinque scalini della scala di casa.»

«Bella bravura davvero!», replicò Leoncino, con una spallucciata di disprezzo. «Quello è un salto che lo farebbe anche una pulce.»

«E io scommetto di saltare dalla finestra del fienile», disse Raffaello.

«E noi, se vuoi scommettere, facciamo con te a chi salta meglio la gora del mulino», dissero Gigino e Asdrubale, i due soldati di fanteria.

«Io poi scommetto di saltare una buccia di fico», disse ridendo Tonino, capitano d’ambulanza e nel tempo stesso ragazzino pacifico e tranquillo, che faceva tutte le sue cose con flemma, senza riscaldarsi mai di nulla; prova ne sia che non s’era nemmeno accorto di quella memorabile scena, in cui il suo Generale in capo, dopo essere stato degradato, aveva dovuto consegnare la sciabola in presenza a tutta la soldatesca.

Quando ognuno dei ragazzi ebbe detta la sua, Leoncino si fece avanti e domandò con aria baldanzosa di sfida:

«Chi di voi si sente il coraggio di saltare giù nell’orto dalla terrazza del primo piano?».

«Io no davvero: c’è da rompersi una gamba», rispose uno dei ragazzi.

«Nemmen’io; c’è da spaccarsi la testa», rispose un altro.

«Della testa me ne importerebbe poco», soggiunse Arnolfo ma il male gli è che ci sarebbe da strapparsi i calzoni, e per l’appunto oggi ho i calzoncini nuovi!»

Leoncino sorrise allora d’un risolino maligno e canzonatore e dopo aver dato un’occhiata di compassione a’ suoi cugini, disse con aria di smargiasso:

«Dunque voialtri quel salto non avete il coraggio di farlo? Eppure io lo farò, e quando l’avrò fatto, vedremo se continuerete a mettermi in ridicolo… e poi, perché? perché l’altro giorno all’improvviso ebbi paura di una tartaruga. Dicerto, gua’, se avessi saputo che era una tartaruga, non sarei scappato.»

«O per chi l’avevi presa?», domandò Arnolfo ridendo. «L’avevi forse presa per un elefante?…»

«Non dico un elefante… però, quella brutta bestia, a vederla lì fra l’erba, mi fece una certa impressione… un certo non so che… Ma questo, siamo giusti, non vuol dire che in quel momento non avessi coraggio…»

«Tutt’altro» replicò Arnolfo col solito risolino «vuol dire solamente che avesti paura!…»

«Paura io? per tua regola, a coraggio, vi rivendo quanti siete.»

«Canta, canta, canarino!»

«Arnolfo, non offendere!»

«Io non t’ho offeso.»

«Mi hai detto canarino.»

«Canarino non è un’offesa: canarino gli è un uccellino con le penne gialle.»

«Ma io le penne gialle non ce l’ho!», gridò Leoncino, iscaldandosi.

«Se non le hai, le potresti avere.»

A quest’ultima uscita di Arnolfo, tutti i suoi fratelli dettero in un solennissimo scoppio di risa.

VII.

Allora Leoncino, lasciandosi vincere dalla bizza, fece l’atto di volersi avventare contro il suo piccolo avversario: ma Raffaello, svelto come uno scoiattolo, lo abbracciò subito a mezza vita, e tenendolo fermo, cominciò a dirgli con una certa cantilena burlesca:

«La si calmi, sor Generale, via, la si calmi! La sia bonino!».

E tutti gli altri ragazzi a ripetere in coro con la medesima cantilena:

«La si calmi, sor Generale, la si calmi! La sia bonino!…».

E lì tanto dissero e tanto fecero che Leoncino, dimenticandosi tutta la bizza che aveva addosso, cominciò a ridere anche lui.

Poi, voltandosi verso Arnolfo, gli domandò:

«Mi dici perché te la prendi sempre con me?».

«Io me la prendo con te? Neanche per sogno. Eppoi, anche se me la prendessi con te, credilo, ci sarebbe la sua brava ragione.»

«Perché?»

«Perché, volere o volare, fosti tu che mi mangiasti la colazione quella mattina che feci da sentinella avanzata. E me ne ricorderò sempre!… ma oramai t’ho bell’e perdonato e non ci penso più. Però tutte le volte che quella colazione mi torna in mente, sento sempre una certa vogliolina… o come chi dicesse, una tentazione di ricattarmi… ma oramai ti ho bell’e perdonato e non ci penso più! E per l’appunto, che fame avevo quel giorno! Una fame da lupi!… Abbi pazienza, Leoncino, se te lo dico: ma quella celia fu una gran brutta celia e me la rammenterò sempre fin che campo… Meno male che oramai t’ho bell’e perdonato e non ci penso più!…»

«Basta, basta!» interruppe Raffaello, che cominciava ad annoiarsi. «Andiamo piuttosto a vedere questo gran salto dalla terrazza?»

«Sì, sì, vogliamo il salto, vogliamo il salto!» gridarono tutti.

Leoncino, a dir la verità, se ne sarebbe tirato indietro volentieri; ma dopo essersi vantato tanto, non poteva più scansare la prova. Il suo amor proprio non gliel’avrebbe permesso!!! Perché bisogna sapere che c’è un amor proprio anche per i ragazzi: molte volte è un amor proprio falso, un amor proprio grullo e malinteso (come nel caso di Leoncino che, per amor proprio, si metteva al rischio di rompersi il collo); ma i ragazzi hanno avuto sempre il brutto vizio di voler ragionare su tutte le cose a modo loro, e questa è stata sempre una gran disgrazia per loro e per le loro famiglie.

VIII.

Leoncino esitò un minuto… due minuti… poi, fatto un animo risoluto, si mosse per andare sulla terrazza: non era per altro entrato nell’uscio di casa, che si trovò davanti lo zio Giandomenico, il quale domandò a lui e a quell’altre birbe:

«Dove andate con tanta fretta?».

«Si va su in terrazza.»

«In terrazza? A far che cosa?»

«A… a… a prendere una boccata d’aria.»

«Non è vero, sai, babbo!», disse subito Arnolfo, «non si va a prendere una boccata d’aria: ma si va in terrazza, perché Leoncino, per far vedere che ha più coraggio di noi, ha scommesso di montare sul parapetto della terrazza e di saltare giù nell’orto.»

«È proprio vero che hai fatto questa scommessa?» disse allora lo zio, rivolgendosi al nipote. «Tu dunque credi che il coraggio, il vero coraggio, consista nell’affrontare senza alcun bisogno, i più grandi pericoli? nel saltare per semplice passatempo dai primi piani? nel montar ritti sulla soglia delle finestre? nel camminare in cima ai tetti? nel correre all’impazzata sulle spallette dei fiumi? nell’arrampicarsi in vetta agli alberi? nell’andare a bagnarsi dove l’acqua è più alta, senza saper nuotare?… No, carino mio, no: queste non son prove di coraggio: queste sono temerità imperdonabili, queste sono bravure da matti, che provano solamente la grande spensieratezza e il pochissimo giudizio di voialtri ragazzi!»

A questa parlantina fatta co’ fiocchi, il povero Leoncino restò così confuso, che non trovava il verso né di rispondere, né di guardare in faccia lo zio.

Intanto, tutto afflitto e mortificato, andava pensando dentro di sé:

«E io che speravo di aver trovato il modo di riguadagnarmi il grado di comandante!… mentre è proprio un miracolo se oggi non ho perduto anche gli scevroni di caporale!…».

Ma non si dette per vinto! Anzi, il giorno dopo, ricominciò a stillarsi il cervello per trovare qualche nuovo ammennicolo, che valesse a dare una prova di quel coraggio, che egli non aveva, ma che avrebbe voluto avere.

Ora bisogna sapere che, dall’oggi al domani, era capitata appunto nei dintorni di quella campagna una grossa volpe.

Questa famelica bestia, spavento e flagello di tutti i pollai, non solo mangiava i galli, le chiocce, le pollastre e le galline vecchie, ma, occorrendo, divorava allegramente anche i pulcini e i galletti di primo canto, senza nessun riguardo alla loro tenera età.

IX.

Sentendo parlar tanto di quella volpe, Leoncino domandò al guardaboschi dello zio:

«Dimmi, Tonio, come sono grosse le volpi?».

«Le volpi» rispose il guardaboschi «somigliano molto ai cani; con questa differenza, che hanno la coda assai più grossa, un codone che pare una spazzola. Non le ha mai vedute, lei, le volpi?»

«Mai.»

«Vuol vederne una?»

«Una volpe viva?…»

«No, morta. La trovai cinque anni fa nel bosco, l’ammazzai con una schioppettata, e poi la volli impagliare… ossia, riempire da me: ma non lo dico per vantazione, l’è impagliata così bene, che c’è da scambiarla per una volpe viva. Se lei vuol vederla, venga a casa mia e potrà levarsi questa curiosità.»

«Quando posso venire?»

«Anche domattina.»

«A che ora?»

«Di prima levata, avanti che io vada al bosco.»

Leoncino non intese a sordo. La mattina dopo si alzò di bonissim’ora e senza dir nulla ai suoi cugini, che erano sempre a letto, andò difilato a casa del guardaboschi.

Quando fu là, l’amico Tonio lo condusse in una stanzuccia terrena che serviva per le legna: e in un angolo di questo bugigattolo c’era una bella volpe accovacciata con la testa alta e minacciosa, con gli occhi di vetro, che parevano vivi e veri, e con la bocca aperta in atto di ringhiare e di mostrare rabbiosamente i denti.

Alla vista di quella volpe, Leoncino ebbe, come chi dicesse, una specie d’ispirazione improvvisa… e voltandosi al guardaboschi, gli disse:

«Come è bella! Me la vuoi vendere?».

«Vendere? Che le pare! Piuttosto gliela regalo.»

«Davvero?»

«E gliela regalo volentieri: tanto più che starà meglio in casa di lor signori, che in questa stanzuccia umida e senza luce, dove c’è il caso che, una volta o l’altra, me la mangino i topi.»

«Dunque la posso prendere?»

«La prenda pure: ma che la vuole portare da sé alla villa?»

«Sicuro che la voglio portare da me. La villa dello zio è così vicina!»

«Guà: faccia lei.»

Leoncino, con l’aiuto del guardaboschi, si caricò sulle spalle la volpe, ripeté i suoi ringraziamenti, e se ne andò.

X.

Intanto i cinque cugini, appena alzati da letto, domandarono subito di Leoncino: ma Leoncino non c’era.

Aspettarono un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora, e Leoncino non tornava: e già cominciavano a mettersi in pensiero, quand’ecco che finalmente Leoncino tornò.

«Dove sei stato finora?», gli domandarono tutti insieme.

«Sono andato a fare un giro per questi dintorni; e sapete perché? Per vedere se avevo la fortuna d’incontrare la volpe.»

«La volpe non c’è più: è sparita da un pezzo», disse Raffaello.

«Come lo sai?»

«Sono cinque giorni che non s’è fatta più rivedere, e tutte le galline hanno già ripreso a dormire i loro sonni tranquilli.»

«E se la incontravi davvero?», disse Arnolfo.

«Se la incontravo? Tanto peggio per lei. Che avete paura, voialtri, della volpe?»

«Noi, sì: dopo che abbiamo visto quelle povere galline sbranate e poi lasciate per i campi…»

«A me poi», disse Leoncino, «la volpe non mi fa paura.»

«Guarda un po’ quanto coraggio hai messo fuori tutt’a un tratto: o chi te l’ha prestato?», disse Arnolfo ridendo.

«Arnolfo, non ricominciare!… se no, ci guastiamo davvero. Dunque si va o non si va?»

«Dove?»

«A far la nostra passeggiata militare e il solito rancio.»

«Eccoci pronti!»

«Però, come vostro caporale, voglio che oggi il rancio si debba fare lì, al principio del bosco, dov’è quella foltissima macchia, che si chiama… aiutatemi a dirlo.»

«La macchia di Tentennino», urlarono i cinque ragazzi.

«Bravi! la macchia di Tentennino. Dunque sacco in spalla, e via!»

Dopo venti minuti di marcia forzata, erano già arrivati in vicinanza della macchia: quando, tutt’a un tratto, il caporal Leoncino, fermandosi e voltandosi ai soldati, gridò loro con voce sommessa:

«Alto! e fermi tutti!…»

«Che cos’è stato?…»

«Guardate là, fra le frasche della macchia! non lo vedete quel brutto muso, che sbuca fuori?»

«Altro se lo vediamo! Quella è una volpe!…»

«È una volpe davvero!…»

«Per me, torno subito indietro», disse Arnolfo impaurito.

«Anche noi, anche noi!», dissero gli altri fratelli.

«Dunque avete paura?…», gridò Leoncino. «Marmotte! tornate pure indietro, ma io vado avanti!»

«Leoncino, da’ retta a noi, torna indietro anche tu», dicevano i ragazzi, raccomandandosi e allontanandosi a passo di carica.

XI.

Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato.

Questa lotta disperata durò un buon quarto d’ora. Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli:

«Dunque? Come è andata a finire?».

«Bene.»

«Ti ha graffiato? ti ha morso?»

«Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo.»

«L’hai ammazzata?»

«Mi è fuggita sul più bello… ma è fuggita in uno stato da far pietà… se campa fino a domani è un miracolo.»

A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio.

Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone.

Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll’impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d’argento.

Quand’ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c’era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino.

«Fatelo passar qui» disse lo zio Giandomenico.

E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato.

«Che cosa vuoi, Michele?», domandò lo zio.

«Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l’ha presa col dire che l’avrebbe portata alla villa… ma viceversa poi, l’ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino…»

«Dove?», gridarono i ragazzi a una voce. «Nella macchia di Tentennino?…»

E nel dir così, si scambiarono fra loro un’occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: «Ora abbiamo capito tutto!…».

Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate.

«E guardi, padron lustrissimo», continuò il guardaboschi, «come me l’hanno conciata questa povera bestia!… Se sapessi chi s’è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover’a lui!…»

Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera.

Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma. Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso.

Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po’ monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio:

«Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: «Chi non ha coraggio, non vada alla guerra»».
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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