Biancaneve e i sette nani – Jachob y Wilhelm Grimm

Biancaneve e i sette nani - Jachob y Wilhelm Grimm

Biancaneve e i sette nani – Jachob y Wilhelm Grimm

Una volta, nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva, seduta accanto a una finestra, dalla cornice d’ebano.
E così, cucendo e alzando gli occhi per guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue.
Il rosso era così bello su quel candore, ch’ella pensò:

«Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra!»
Poco dopo diede alla luce una figlioletta bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come l’ebano; e la chiamarono Biancaneve.

E quando nacque, la regina morì.

Dopo un anno il re prese un’altra moglie; era bella, ma superba e prepotente, e non poteva sopportare che qualcuno la superasse in bellezza. Aveva uno specchio magico, e nello specchiarsi diceva:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?

E lo specchio rispondeva: Nel regno, Maestà, tu sei quella.
Ed ella era contenta, perché sapeva che lo specchio diceva la verità.
Ma Biancaneve cresceva, diventava sempre più bella e a sette anni era bella come la luce del giorno e ancor più della regina.

Una volta che la regina chiese allo specchio:
Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
lo specchio rispose: Regina, la più bella qui sei tu, ma Biancaneve lo è molto di più.
La regina allibì e diventò verde e gialla d’invidia.

Da quel momento la vista di Biancaneve la sconvolse, tanto ella odiava la bimba.
E invidia e superbia crebbero come le male erbe, così che ella non ebbe più pace né giorno né notte.
Allora chiamò un cacciatore e disse:

– Porta la bambina nel bosco, non la voglio più vedere. Uccidila, e mostrami i polmoni e il fegato come prova della sua morte

Il cacciatore obbedì e condusse la bimba lontano; ma quando estrasse il coltello per trafiggere il suo cuore innocente, ella si mise a piangere e disse:

– Ah, caro cacciatore, lasciami vivere! Correrò nella foresta selvaggia e non tornerò mai più -.

Ed era tanto bella che il cacciatore disse, impietosito:

– Và, pure, povera bambina-. «Le bestie feroci faranno presto a divorarti», pensava; ma sentiva che gli si era levato un gran peso dal cuore, a non doverla uccidere.
E siccome proprio allora arrivò di corsa un cinghialetto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova.
Il cuoco dovette salarli e cucinarli, e la perfida li mangiò, credendo di mangiare i polmoni e il fegato di Biancaneve.

Ora la povera bambina era tutta sola nel gran bosco e aveva tanta paura che badava anche alle foglie degli alberi e non sapeva che fare.

Si mise a correre e corse sulle pietre aguzze e fra le spine; le bestie feroci le passavano accanto, ma senza farle alcun male.
Corse finché le ressero le gambe; era quasi sera, quando vide una casettina ed entrò per riposarsi.
Nella casetta tutto era piccino, ma lindo e leggiadro oltre ogni dire.

C’era una tavola apparecchiata con sette piattini: ogni piattino col suo cucchiaino, e sette coltellini, sette forchettine e sette bicchierini.

Lungo la parete, l’uno accanto all’altro, c’eran sette lettini, coperti di candide lenzuola.
Biancaneve aveva tanta fame e tanta sete, che mangiò un po’ di verdura con pane da ogni piattino, e bevve una goccia di vino da ogni bicchierino, perché non voleva portar via tutto a uno solo.

Poi era così stanca che si sdraiò in un lettino ma non ce n’era uno che andasse bene: o troppo lungo o troppo corto, finchè il settimo fu quello giusto: ci si coricò, si raccomandò a Dio e si addormentò. A buio, arrivarono i padroni di casa: erano i sette nani, che scavavano i minerali dai monti.

Accesero le loro sette candeline e, quando la casetta fu illuminata, videro che era entrato qualcuno; perché non tutto era in ordine, come l’avevan lasciato.
Il primo disse:

– Chi si è seduto sulla mia seggiolina?-
Il secondo: – Chi ha mangiato dal mio piattino?-
Il terzo: – Chi ha preso un po’ del mio panino?-
Il quarto: – Chi ha mangiato un po’ della mia verdura?-
Il quinto: – Chi ha usato la mia forchettina?-
Il sesto: – Chi ha tagliato col mio coltellino?-
Il settimo: – Chi ha bevuto dal mio bicchierino?-

Poi il primo si guardò intorno, vide che il suo letto era un po’ ammaccato e disse:

– Chi mi ha schiacciato il lettino?-

Gli altri accorsero e gridarono: – Anche nel mio c’è stato qualcuno -.

Ma il settimo scorse nel suo letto Biancaneve addormentata.
Chiamò gli altri, che accorsero e gridando di meraviglia presero le loro sette candeline e illuminarono Biancaneve.

– Ah, Dio mio! ah, Dio mio! – esclamarono: – Che bella bambina! –

Ed erano così felici che non la svegliarono e la lasciarono dormire nel lettino.
Il settimo nano dormì coi suoi compagni, un’ora con ciascuno; e la notte passò.
Al mattino, Biancaneve si svegliò e s’impaurì vedendo i sette nani.

Ma essi le chiesero gentilmente: – Come ti chiami?- Mi chiamo Biancaneve,- rispose. – Come sei venuta in casa nostra?- dissero ancora i nani.
Ella raccontò che la sua matrigna voleva farla uccidere, ma il cacciatore le aveva lasciato la vita ed ella aveva corso tutto il giorno, finchè aveva trovato la casina.

I nani dissero: – Se vuoi curare la nostra casa, cucinare, fare i letti, lavare, cucire e far la calza, e tener tutto in ordine e ben pulito, puoi rimanere con noi, e non ti mancherà nulla.
– Sì,- disse Biancaneve,- di gran cuore-.

E rimase con loro.
Teneva in ordine la casa; al mattino essi andavano nei monti, in cerca di minerali e d’oro, la sera tornavano, e la cena doveva essere pronta. Di giorno la fanciulla era sola. I nani l’ammonivano affettuosamente, dicendo:

– Guardati dalla tua matrigna; farà presto a sapere che sei qui: non lasciar entrare nessuno. Ma la regina, persuasa di aver mangiato i polmoni e il fegato di Biancaneve, non pensava ad altro, se non ch’ella era di nuovo la prima e la più bella; andò davanti allo specchio e disse:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
E lo specchio rispose: – Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più.

La regina inorridì, perché sapeva che lo specchio non mentiva mai, e si accorse che il cacciatore l’aveva ingannata e Biancaneve era ancora viva.
E allora pensò di nuovo come fare ad ucciderla: perché, s’ella non era la più bella di tutto il paese, l’invidia non le dava requie.

Pensa e ripensa, finalmente si tinse la faccia e si travestì da vecchia merciaia, in modo da rendersi del tutto irriconoscibile. Così trasformata, passò i sette monti, fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò:

– Roba bella, chi compra! chi compra!- Biancaneve diede un’occhiata dalla finestra e gridò:
– Buon giorno, brava donna, cos’avete da vendere?
– Roba buona, roba bella,- rispose la vecchia,- stringhe di tutti i colori -.

E ne tirò fuori una, di seta variopinta.

«Questa brava donna posso lasciarla entrare», pensò Biancaneve; aprì la porta e si comprò la bella stringa.
– Bambina, – disse la vecchia,- come sei conciata! Vieni, per una volta voglio allacciarti io come si deve-.
La fanciulla le si mise davanti fiduciosa e si lasciò allacciare con la stringa nuova: ma la vecchia strinse tanto e così rapidamente che a Biancaneve mancò il respiro e cadde come morta.

– Ormai lo sei stata la più bella,- disse la regina, e corse via.

Presto si fece sera e tornarono i sette nani: come si spaventarono, vedendo la loro cara Biancaneve stesa a terra, rigida, come se fosse morta!
La sollevarono e, vedendo che era troppo stretta alla vita, tagliarono la stringa.
Allora ella cominciò a respirare lievemente e a poco a poco si rianimò.
Quando i nani udirono l’accaduto, le dissero:

– La vecchia merciaia altri non era che la scellerata regina; sta’ in guardia, e non lasciar entrare nessuno, se non ci siamo anche noi.

Ma la cattiva regina, appena arrivata a casa, andò davanti allo specchio e chiese:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?

Come al solito, lo specchio rispose:

– Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più.

A queste parole, il sangue le affluì tutto al cuore dallo spavento, perché vide che Biancaneve era tornata in vita.
«Ma adesso,. pensò,- troverò qualcosa che sarà la tua rovina»; e, siccome s’intendeva di stregoneria, preparò un pettine avvelenato. Poi si travestì e prese l’aspetto di un’altra vecchia. Passò i sette monti fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò:

– Roba bella! roba bella! –

Biancaneve guardò fuori e disse:

– Andate pure, non posso lasciar entrare nessuno.
– Ma guardare ti sarà permesso,- disse la vecchia; tirò fuori il pettine avvelenato e lo sollevò.

Alla bimba piacque tanto che si lasciò sedurre e aprì la porta.
Conclusa la compera, la vecchia disse:

-Adesso voglio pettinarti per bene-.

La povera Biancaneve, di nulla sospettando, lasciò fare; ma non appena quella le mise il pettine nei capelli, il veleno agì e la fanciulla cadde priva di sensi.

– Portento di bellezza!- disse la cattiva matrigna: – è finita per te!- e se ne andò.

Ma per fortuna era quasi sera e i sette nani stavano per tornare. Quando videro Biancaneve giacer come morta, sospettarono subito della matrigna, cercarono e trovarono il pettine avvelenato; appena l’ebbero tolto, Biancaneve tornò in sé e narrò quel che era accaduto.
Di nuovo l’ammonirono che stesse in guardia e non aprisse la porta a nessuno.
A casa, la regina si mise allo specchio e disse:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
Come al solito, lo specchio rispose:
– Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più.

A tali parole, ella rabbrividì e tremò di collera.

– Biancaneve morirà,- gridò,- dovesse costarmi la vita -.

Andò in una stanza segreta dove non entrava nessuno e preparò una mela velenosissima.
Di fuori era bella, bianca e rossa, che invogliava solo a vederla; ma chi ne mangiava un pezzetto, doveva morire.
Quando la mela fu pronta, ella si tinse il viso e si travestì da contadina, e così passò i sette monti fino alla casa dei sette nani.

Bussò, Biancaneve si affacciò alla finestra e disse:

– Non posso lasciar entrare nessuno, i sette anni me l’hanno proibito.
– Non importa,- rispose la contadina,- le mie mele le vendo lo stesso. Prendi, voglio regalartene una.
– No,- rispose Biancaneve,- non posso accettar nulla.
– Hai paura del veleno?- disse la vecchia.- Guarda, la divido per metà: tu mangerai quella rossa, io quella bianca -.

Ma la mela era fatta con tanta arte che soltanto la metà rossa era avvelenata.
Biancaneve mangiava con gli occhi la bella mela, e quando vide la contadina morderci dentro, non potè più resistere, stese la mano e prese la metà avvelenata.
Ma al primo boccone cadde a terra morta.
La regina l’osservò ferocemente e scoppiò a ridere, dicendo:

– Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano! Stavolta i nani non ti sveglieranno più -.

A casa, domandò allo specchio:

– Da muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella ?

E finalmente lo specchio rispose: – Nel regno, Maestà, tu sei quella.
Allora il suo cuore invidioso ebbe pace, se ci può esse pace per un cuore invidioso.

I nani, tornando a casa, trovarono Biancaneve che giaceva a terra, e non usciva respiro dalle sue labbra ed era morta. La sollevarono, cercarono se mai ci fosse qualcosa di velenoso, le slacciarono le vesti, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma inutilmente: la cara bambina era morta e non si ridestò.

La misero su un cataletto, la circondarono tutti e sette e la piansero, la piansero per tre giorni. Poi volevano sotterrarla; ma in viso, con le sue belle guance rosse, ella era ancora fresca, come se fosse viva. Dissero: – Non possiamo seppellirla dentro la terra nera,- e fecero fare una bara di cristallo, perché la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero e vi misero sopra il suo nome, a lettere d’oro, e scrissero che era figlia di re.

Poi esposero la bara sul monte, e uno di loro vi restò sempre a guardia. E anche gli animali vennero a pianger Biancaneve: prima una civetta, poi un corvo e infine una colombella. Biancaneve rimase molto, molto tempo nella bara, ma non imputridì: sembrava che dormisse, perché era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano.

Ma un bel giorno capitò nel bosco un principe e andò a pernottare nella casa dei nani.
Vide la bara sul monte e la bella Biancaneve e lesse quel che era scritto a lettere d’oro.

Allora disse ai nani: – Lasciatemi la bara; in compenso vi darò quel che volete -.
Ma i nani risposero: – Non la cediamo per tutto l’oro del mondo

– Regalatemela, allora,- egli disse,- non posso vivere senza veder Biancaneve: voglio onorarla ed esaltarla come la cosa che mi è più cara al mondo.-

A sentirlo, i buoni nani s’impietosirono e gli donarono la bara.
Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle.
Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa quel pezzo di mela avvelenata, che Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola.

E poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio e si rizzò nella bara: era tornata in vita.
-Ah Dio, dove sono?- gridò.

Il principe disse, pieno di gioia: – Sei con me,- e le raccontò quel che era avvenuto, aggiungendo: – Ti amo sopra ogni cosa del mondo; vieni con me nel castello di mio padre, sarai la mia sposa-.

Biancaneve acconsentì e andò con lui, e furono ordinate le nozze con gran pompa e splendore.
Ma alla festa invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. Indossate le sue belle vesti, ella andò allo specchio e disse:

– Da muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
Lo specchio rispose: – Regina, la più bella qui sei tu; ma la sposa lo è molto di più.

La cattiva donna imprecò e il suo affanno era così grande che non poteva più dominarsi. Dapprima non voleva assistere alle nozze; ma non trovò pace e dovette andar a vedere la giovane regina.

Entrando, riconobbe Biancaneve e impietrì dallo spavento e dall’orrore.
Ma sulla brace eran già pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle, e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette calzare le scarpe roventi e ballare, finché cadde a terra, morta.

Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Hansel e Gretel – Jachob y Wilhelm Grimm

Hansel e Gretel - Jachob y Wilhelm Grimm

Hansel e Gretel – Jachob y Wilhelm Grimm

Nella periferia di un piccolo villaggio, al limite del bosco, viveva una famiglia di taglialegna composta dai genitori e da due figli: Hansel e Gretel. I bambini vivevano felici a contatto con la natura che li circondava. Il loro lavoro preferito era quello di raccogliere i frutti del bosco. Una sera, mentre stavano per rincasare, dopo aver giocato nel centro del bosco, udirono un lontano suono simile al pianto di un bambino. – È il pianto di un neonato… – Esclamò Gretel.

 – Cerchiamolo- Disse Hansel.
Penetrarono tra gli alberi, nella direzione dalla quale proveniva il lamento. Nel frattempo si stava facendo buio e tutto diventava grigio.

– Torniamo, ho una paura tremenda! -Disse Gretel.
– Sei una codarda e una fifona! – Replicò spavaldamente Hansel.
– Tua sorella ha ragione, Hansel. È da stupidi girare per il bosco a quest’ora, quindi è meglio che torniate indietro!
I bambini ebbero un sobbalzo. Chi aveva parlato?
– Sono io, sono qui… Siete forse ciechi?

Hansel fu il primo a vederlo:

– Un corvo che parla? – Disse.
– In realtà -Rispose il corvo – io sono un nano dalla barba bianca che ha subìto un incantesimo. È stata una strega e il suo maleficio continuerà fino alla sua morte.
– Hai sentito il pianto di un bambino? -Chiese Gretel.
– State tranquilli, avete udito me.
– Sei tu?!- Rise Hansel – Non dire fesserie! Tu hai la voce come quella del vecchio Snipe, l’ubriacone del villaggio: cavernosa.

Il corvo stava per rispondere loro quando intervenne Gretel:

– Non essere maleducato, Hansel! Capisco quello che ti è successo, nanetto, e sepotessi ti aiuterei.
– Sei molto buona, piccola. Non sei certo come quel discolo di tuo fratello. Vi confiderò un segreto… Se andate più avanti, troverete una casetta di cioccolata!
– Una casa di cioccolata – Intervenne Hansel, che era molto goloso. -Dove, dove?
– Pochi passi ancora e ci sarete.
– Non sarà un trucco per farci del male?
– Presto la potrete vedere. È tutta colorata, piena di caramelle sulle pareti e sul tetto. È fatta di cioccolato, di torrone e marzapane…! È una delizia! Dentro troverete tutti i tipi di dolci.
– E potremo mangiarli? – Chiese ancora Hansel.
– Certo – Rispose il corvo. – Basta volerlo,seguitemi!
I bambini non se lo fecero ripetere due volte e, come l’uccello gli aveva detto, in una radura del bosco incontrarono…
– Che meraviglia! – Esclamò Gretel.
– C’è veramente! Pancia mia fatti capanna! – Disse entusiasta, Hansel.

La realtà superava la fantasia. Al fianco della porta c’erano dei bastoni di zucchero.
Le pietre del sentiero erano caramelle di tutti i gusti: mente, limone, banana, pino… Quando si avvicinarono alla casa si aprì la porta e una donna, vecchia e sdentata, li incoraggiò.

– Avanti, entrate figlioli, siete giunti in tempo. Ho appena finito di fare questa torta che dice:»Mangiami!» Volete assaggiarla?
– Certamente! – Disse Hansel, più deciso, come sempre, di sua sorella.
I due bambini cominciarono a mangiare tutto quello che la donna gli portava. Poi, una volta sazi, decisero di andarsene.
– Grazie, buona signora. Non ne possiamo più di mangiare, torneremo a trovarla un’altra volta. È stata molto buona con noi. – Disse Hansel.
– Il bosco è già buio, fermatevi a dormire qui. Domani sarà un altro giorno. -Disse la vecchia.
– Lo faremmo volentieri. – Replicò Hansel. – Ma i nostri genitori ci stanno aspettando… Se il nanett… Il signorcorvo, ci farà da guida, non tarderemo a tornare a casa.
– Niente affatto. – Disse il corvo. – Ho troppo sonno.
– Allora ce ne andiamo da soli. – Disse Hansel. – Andiamo, sorella mia.

La padrona di casa cessò improvvisamente di sorridere e, infuriata,gridò:

– Fermo dove sei, ragazzino! Voi non tornerete dai vostri genitori, né ora né mai più! Come mi piacciono i fanciulli teneri e grassottelli!

Il corvo, appollaiato sulla spalla della vecchia strega, gridava:

– Arrostiti, con le patatine, saranno una delizia! Ti consiglio una ricetta di mia nonna: si mettono le cipolle, alloro e rosmarino, in una pentola e poi…

Hansel e Gretel, terrorizzati, ascoltavano increduli la ricetta dello stufato del corvo, di cui loro erano ingredienti principali.

Tremanti di paura dissero:

– Come siamo stati stupidi a cadere in questa trappola!
Hansel per consolare la sorella disse:
– Non temere ci salveremo!
La brutta strega, che aveva sentito tutto, ridendo disse:
– Hai sentito, corvo? Dicono che se ne andranno da qui!
– Certo, – rispose il corvo – con le ossa linde e pulite! Ho voglia di mangiarmeli subito, li mangiamo adesso?
– no, golosone,aspetteremo che ingrassino un po’ ancora. Il bimbo è magro e alla bambina un paio di chili in più non guasteranno… Una buona razione di dolci al giorno li farà diventare come li desideriamo!

Prese Hansel per le bretelle e disse:

– In cella finché non ingrassi. E non opporre resistenza!

Gli sforzi del piccolo risultarono inutili.
Fu buttato in una stanza senza finestre che comunicava con un’altra cella da dove Hansel poteva vedere la sorella. Allora disse:

– Non dobbiamo disperarci, Gretel, fatti coraggio!
-Oh, Hansel, ci vogliono mangiare!
– Per il momento siamo ancora vivi… Ora, però, ascoltami bene: la vecchia è corta di vista. L’ho capito perché guarda come quel contadino del paese che non riconosce un asino da dieci passi!

Spiegò tutto il suo piano e concluse:

– Non ti opporre, fa quello che ti chiedono. Dobbiamo guadagnare tempo.

Il bambino era orgoglioso del suo piano e guardava soddisfatto il topolino che aveva assistito al dialogo dei due fratelli.
Ma la situazione era disperata. Hansel lo sapeva. Si guardava intorno alla ricerca di una possibile via di fuga; ma invano, la cella era solida, a prova di fuga.
Il trucco che aveva ideato avrebbe funzionato per un po’ di tempo, ma poi? Certamente la strega si sarebbe accorta dell’inganno e… Tremò di paura e fu colto dallo sconforto. Però non si dette per vinto.
Chiamò sua sorella attraverso le sbarre per tracciare un secondo piano d’azione, l’unico possibile.
Ella ascoltò le parole del fratello. Voleva credere in una possibilità di salvezza, per quanto improbabile fosse.
Il giorno seguente, la strega si avvicinò alla cella della bambina e le disse:

– Tira fuori un dito, Gretel, che voglio vedere se sei ingrassata.

Come prevedeva il piano di Hansel, la piccina fece passare attraverso le sbarre, un ossicino di pollo, avanzato la sera prima.

La strega palpando, senza accorgersi dell’inganno,pensò:
<< Gli dovrò dare più cibo, è ancora molto magra.>>
La stessa cosa successe con il bambino.
Il giorno seguente si ripeté la stessa scena e allora Gretel disse alla strega:

– Visto che dovrò rimanere qui per tanto tempo perché non mi fai uscire? Potrei aiutarti nelle faccende domestiche, finché non ti deciderai a mangiarmi.

La vecchia strega rimase pensierosa per alcuni momenti, poi si decise e disse:

– Mi sembra una buona idea, ma bada, se cerchi di fuggire mi mangio subito tuo fratello!

Però nel vedere la bimba girare per casa, la strega,che era molto golosa, decise che se la sarebbe mangiata per cena.
Gretel intuì la cosa e in fretta cercò la chiave della cella, la aprì e liberò Hansel.

– Cosa facciamo adesso?
– Aspetta, bisogna riflettere. – Disse Hansel guardandosi attorno.

Poi vide il corvo appollaiato sul manico del mestolo, sopra al pentolone che bolliva, ed ebbe un’idea.
In quel momento, infatti, la strega si trovava china sul pentolone, tutta intenta nei preparativi dell’ambita cena.
Fu proprio allora che Hansel, ricordando quello che il corvo gli aveva confidato nel bosco in relazione al maleficio di cui era vittima, gridò:

– Corvo, uccidi la strega!

L’uccello, che non aspettava che questa occasione,balzò sulla strega e le diede una tremenda beccata sulla testa, facendola finire nel pentolone.
Poi si rivolse ai due fratelli e disse:

– Fuggite!

Hansel e Gretel, non se lo fecero ripetere, fuggirono a gambe levate e non tornarono mai più in quella parte del bosco

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I musicanti di Brema – Jachob y Wilhelm Grimm

I musicanti di Brema - Jachob y Wilhelm Grimm

I musicanti di Brema – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un vecchio asino che aveva lavorato sodo per tutta la vita. Ormai non era più capace di portare pesi e si stancava facilmente, per questo il suo padrone aveva deciso di relegarlo in un angolo della stalla ad aspettare la morte.
L’asino però non voleva trascorrere così gli ultimi anni della sua vita. Decise di andarsene a Brema, dove sperava di poter vivere facendo il musicista.
Si era incamminato da poco quando incontrò un cane, magro e ansante.
«Come mai hai il fiatone?» gli chiese.
«Sono dovuto scappare in tutta fretta per salvare la pelle» gli rispose il cane. «Il mio padrone voleva uccidermi, perché ora che sono vecchio non gli servo più».
«Purtroppo è vero – continuò – non sono più capace di rincorrere la selvaggina come una volta, e sono così debole che non spavento più nessuno. Ma ora come farò a procurarmi da mangiare?»concluse depresso.
«Vieni a Brema con me» suggerì l’asino. «Laggiù faremo fortuna con la musica: io suonerò il liuto e tu mi darai il ritmo con il tamburo» Il cane accettò la proposta e s’incamminò con il nuovo amico.
Non avevano percorso molta strada che s’imbatterono in un gatto che miagolava disperato.
«Cosa ti è successo per lamentarti in questa maniera?» gli chiese l’asino.

«Sono vecchio e soffro d’artrite, per questo non sono più agile come una volta e devo stare al caldo. Ma vedendomi riposare vicino al caminetto, ieri il mio padrone si è infuriato, mi ha accusato di essere un fannullone, mi ha rimproverato di non saper acciuffare nemmeno un topolino e mi ha cacciato da casa. Senza pietà! Pensare che l’ho servito fedelmente per tutta la vita!… Ora non so proprio dove andare, non so proprio come sbarcare il lunario!» rispose singhiozzando il gatto.

«Allora vieni a fare il musicista con noi a Brema» gli dissero insieme l’asino e il cane.

Il gatto non se lo fece ripetere due volte e pieno di speranza si unì a loro.
Passando davanti ad una fattoria, furono distratti da un gallo che schiamazzava rincorso da una massaia.
«Mi vuole tirare il collo! Vuole me perché non ha un tacchino da cucinare per il pranzo della domenica! Mi vuole tirare il collo!» urlava terrorizzato.
I tre compari gli gridarono: «Vieni con noi! Con la tua bella voce conquisteremo Brema!»

Non ebbero il tempo di aggiungere altro che, appollaiato sulla schiena dell’asino, sentirono il gallo che li incitava:
«Corriamo, corriamo, prima che la padrona mi acchiappi!»
Una corsa disperata fin nel folto del bosco. Lì finalmente ripresero fiato!
Ormai si era fatto buio e, si sa, di notte non è prudente viaggiare. Dovevano cercare qualcosa da mangiare e un posto per dormire almeno per quella notte. Rifocillati e riposati, l’indomani sarebbero ripartiti per Brema.
Fu allora che sentirono dei rumori …
Nascosti tra i cespugli, si guardarono intorno … videro una casa: ecco da dove arrivavano brusio, risate e… un profumo d’arrosto!
Erano così stanchi e così affamati!
Cercando di non fare rumore si avvicinarono alla casa e, con cautela, sempre senza farsi scorgere, guardarono all’interno attraverso la finestra.
Non potevano credere ai loro occhi! In mezzo alla stanza c’era un tavolo colmo di buone cose: un tacchino ripieno, mortadelle invitanti, formaggi di tutti i tipi, pane d’ogni forma, torte stupende, frutta profumata,…
«Potremmo chiedere ospitalità…» non ebbero il tempo di aggiungere altro, che i quattro amici videro avvicinarsi al tavolo quattro ceffi paurosi. Dunque quello era il covo dei briganti!
Se quei tipacci li avessero visti, sarebbe stata la loro fine!
Si sa che la fame aguzza l’ingegno!
Nascosti tra i cespugli, studiarono un piano diabolico, che avrebbe spaventato quei briganti, così da obbligarli a scappare dal loro covo e da lasciare tutto quel ben di dio da mangiare a loro completa disposizione.
Nel buio e nella tranquillità della notte, interrotti solo dalla luce che irradiava dall’interno della casa e dal vociare sguaiato dei briganti, si avvicinarono alla finestra.
In silenzio perfetto l’asino appoggiò le zampe sul davanzale, il cane balzò sul dorso dell’asino, il gatto si arrampicò fin sulla testa del cane e il gallo si appollaiò sulle spalle del gatto.
Quindi ad un cenno dell’asino, diedero inizio al loro primo concerto:
… e fu tutto un ragliare, abbaiare, miagolare e schiamazzare.
Un inferno! Terrorizzati, i quattro briganti cercarono la salvezza fuori dalla casa, ma all’uscita furono investiti da un essere che calciava, graffiava, mordeva, beccava!
Un INFERNO! Scapparono per non tornare mai più in quel luogo maledetto!
I quattro amici non ci pensarono due volte: si precipitarono all’interno della casa, senza esitare si sedettero intorno al tavolo… e …
credo che siano ancora lì che mangiano e ridono, che ridono e mangiano…
Lì era il Paradiso!
 
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Il lupo e i sette capretti – Jachob y Wilhelm Grimm

Il lupo e i sette capretti - Jachob y Wilhelm Grimm

Il lupo e i sette capretti – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta una capra che allevava da sola i suoi sette piccoli capretti. Essa li amava teneramente, ma le davano molte preoccupazioni, perché erano spesso disubbidienti e sbadati. Inoltre temeva sempre per la loro vita, perché questi piccoli imprudenti pensavano solo a giocare, sgambettando senza tregua ai margini della foresta, là dove si aggirava il loro nemico di sempre ed il più sanguinario: il grande lupo. Un giorno prima di andare nel bosco a cercare freschi germogli d’arboscelli per il pasto della sera, la capra radunò i suoi piccoli per metterli di nuovo in guardia.
 
– Devo assentarmi per alcune ore, non lasciate entrare nessuno dentro casa. Siate diffidenti perché il lupo è astuto, può falsare la sua voce e mascherare il suo aspetto. Ma voi potrete riconoscerlo a colpo sicuro dalle zampe che sono nere.
– Saremo saggi e prudenti – promisero i capretti – non apriremo la porta a nessuno se non mostrerà le zampe bianche.
La capra se ne partì abbastanza tranquilla. Qualche minuto dopo alcuni colpi furono battuti alla porta.
 
– Aprite, aprite miei cari piccoli, è vostra madre che ha dimenticato il suo scialle e le sue cesoie.
– Uuh! Uuh! – dissero scherzosamente i sette capretti – abbiamo riconosciuto la tua brutta voce, brutto diavolo di un lupo e non ti apriremo la porta.
 
Il lupo se ne andò via umiliato, ma lungo il cammino comperò un pezzetto di zucchero filato che succhio per addolcire la sua voce rauca. Ritornò di soppiatto e da dietro la porta disse con una voce melliflua: – Aprite miei cari figli, è la vostra mamma che porta dolciumi per voi.
Purtroppo per lui, il lupo, sbadato, aveva posato le sue zampe nere sull’orlo della finestra e fu quindi subito riconosciuto. I capretti gridarono scherzosamente:
 
– Uuh! Uuh! Signor lupo zampe nere, ti sei tradito!
Contrariato e affamato il lupo concepì un nuovo inganno. Corse zoppicando dal fornaio e gli disse:
– Mi sono ferito, mettetemi un impiastro di pasta cosparso di farina, mi allevierà il dolore.
A quei tempi era un rimedio abituale, pertanto il fornaio non sospettò i neri disegni del lupo che ripartì con la zampa destra imbiancata come desiderava. Ingannati dalla voce mielosa e dalla zampa bianca i poveri capretti alla fine aprirono la porta. Apparve il lupo, terribile, con la schiuma alla bocca, tutto nero, con fuori una grande e avida lingua rossa.
 
– Aiuto! Soccorso! – belarono i poveri piccoli, saltando sotto la tavola, nel letto, nell’armadio o nella vasca da bagno, nella speranza di sfuggire all’orribile bestia.
Ma il lupo, eccitato e morto di fame, li trovò tutti e l’inghiottì in un boccone uno dopo l’altro, con il pelo e gli zoccoli. Uno solo di loro scampò alla carneficina, perché si era nascosto nell’orologio a pendolo, rannicchiato sotto il pesante bilanciere di rame.
 
Dopo poco tempo mamma capra bussò alla porta e trovando la sua casa devastata, scoppiò in singhiozzi. Nessun belato rispondeva alla sua chiamata. Comprese allora che il lupo l’aveva preceduta.
Ad un tratto la poveretta drizzò le orecchie: dalla cassa dell’orologio proveniva un debole rumore e infine, sotto la pressione dei piccoli zoccoli, la sua porticina si aprì e ne uscì un capretto in lacrime che si precipitò ad abbracciare la madre raccontandole le astuzie del lupo e la triste fine dei suoi fratelli. La capra disse tra sé:
 
– Non deve essere andato molto lontano dopo una tale scorpacciata. Ingordo com’è, può darsi ci sia una speranza di ritrovare vivi i tuoi fratelli.
 
Afferrata la sua borsa per il cucito, si diresse di corsa verso la foresta. La capra non dovette andar lontano. Sazia, sdraiata ai piedi di un albero, la cattiva bestia si muoveva curiosamente. Con molta abilità la capra gli tagliò la pancia con un gran colpo di forbici.
Il lupo dormiva così bene che si mosse appena e non si accorse di niente.
 
Con grande gioia della loro madre i capretti uscirono sani e salvi, uno dopo l’altro, dallo stomaco del lupo. Per ordine della capra essi portarono sei grosse pietre che furono poste nella pancia del lupo che fu ricucito alla perfezione. Corsero poi tutti insieme ad appostarsi sul parapetto di un ponte.
 
Quando il lupo si svegliò, fu preso da una gran sete. Appesantito, corse verso la riva del fiume e per bere si sporse, ma trascinato dal peso delle pietre, colò a picco e s’annegò.
I capretti e la loro mamma ne furono molto felici.
 
fJachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il pentolino magico – Jachob y Wilhelm Grimm

Il pentolino magico - Jachob y Wilhelm Grimm

Il pentolino magico – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un contadino che aveva una figliola. Egli andava a giornata; la figliola filava stoppa o tesseva tela per conto delle vicine: così si guadagnavano la vita.
Avvenne una gran siccità: nei campi non nacque un filo d’erba, e non ci fu più da lavorare per nessuno dei due. Avevano un gruzzoletto, messo prudentemente da parte nel buon tempo, e per parecchi mesi poterono tirare innanzi, vivendo quasi a pane e acqua. Il padre sospirava pensando all’avvenire; ma la ragazza, gioviale anche con la miseria, canticchiava da mattina a sera,come quand’era al telaio e con la rocca al fianco e lo stomaco pieno. Il padre brontolava: – Con che cuore canti? Ci rimane da mangiare appena per altri due giorni!
 
– Quando sarò morta, non canterò più.
– Mentre parlavano comparve sulla soglia una donna scarna, allampanata, che pareva il ritratto della fame.
– Fate la carità, buona gente!
– Siamo più miseri di voi, – rispose il padre. – Rivolgetevi altrove.
 
La ragazza invece prese la pagnottella che doveva essere il suo desinare di quel giorno e la porse alla vecchia:
– Mangiatela voi per me.
– Grazie, figliola.
Intascata la pagnottella, la vecchina cavò di sotto lo scialle unto e stracciato una padellina nuova di rame:
– Tieni, figliola; non ho altro; forse ti servirà.
 
E andò via. La ragazza si rimise a canterellare, picchiando con le nocche delle dita sulla padellina, che dava un bel suono; poi, per gioco, la posò sul focolare spento e, ridendo, disse al padre:
– Che volete? Una costoletta? Una frittata? E non aveva ancora finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto.
– Oh, che miracolo, figliola mia! Siamo ricchi!
 
Nella padellina fumavano due costolette da bastare anche per quattro persone; e quando furono cotte, il fuoco si spense da sé. Metà ne mangiarono padre e figlia, metà ne spartirono tra le vicine più povere di loro. L’odore si sentiva per tutta la via.
D’allora in poi, a ogni mezzogiorno, la ragazza metteva la padellina sul focolare spento e domandava al padre:
– Che volete? Una costoletta? Una frittata?
– Una frittata.
 
E poco dopo la frittata era bell’e cotta da poter bastare fino per otto persone.
Parte ne mangiavano padre e figlia, parte ne dividevano tra le vicine più povere di loro. L’odore si sentiva per tutta la via. La cosa fece scalpore. Le stesse vicine che ricevevano la carità cominciarono a ciarlare: come mai padre e figlia, con quella miseria, senza guadagno alcuno, se la scialavano a quel modo?
 
Le ciarle giunsero fino all’orecchio del Re. Giusto in quei giorni la Regina s’era ammalata con un’inappetenza che non le permetteva di prendere nessun cibo, e i medici non sapevano come rimediarvi. La Regina avrebbe voluto qualcosa da ristorarla col solo odore, e il cuoco si stillava il cervello per accontentarla. Ma davanti alle pietanze più squisite, la Regina torceva il capo nauseata:
 
– Portatele via; mi si rivolta lo stomaco.
Il Re, che aveva sentito parlare del buon odore delle pietanze di quei contadini, disse ai medici:
– Proviamo a far preparare il pranzo della Regina da costoro. Forse, per la stranezza, lo gradirà.
 
E mandò a chiamare la ragazza.
– Vuoi essere la cuoca della Regina?
– Come piace a Vostra Maestà.
– Vieni ad abitare nel palazzo reale.
– A un patto, Maestà. In cucina, con me, dovrà stare soltanto mio padre.
– Soltanto tuo padre.
 
Giunta l’ora del desinare, la ragazza si presentò alla Regina:
– Maestà, che volete? Una costoletta? Una frittata?
– Una costoletta.
 
La ragazza mandò via di cucina tutte le persone ch’erano a servizio del Re, dal cuoco allo sguattero, si chiuse a chiave dentro insieme col padre, e mise la padellina sul focolare spento:
– Padellina, una costoletta!
La Regina, all’odore della costoletta fumante nel piatto, si sentì ristorare:
– Benedette le tue mani, ragazza mia!
Mangiò con grand’appetito, come da più settimane non faceva, e in segno della sua gratitudine regalò alla ragazza una collana di brillanti.
– Maestà, questa è una collana da regina, non da contadina mia pari.
– Sei regina anche tu, regina di tutte le cuoche.
 
E gliela mise al collo con le proprie mani.
Ogni giorno, a ogni pranzo era un nuovo regalo; ora una spilla con un magnifico smeraldo, ora boccole di perle grosse come uova, ora un braccialetto finemente cesellato e tempestato di rubini.
– Maestà, è ornamento da regina, non da contadina mia pari.
– Sei regina anche tu, regina di tutte le cuoche.
 
In corte non si ragionava che di quei mirabili pranzi; e i medici erano stupiti che il grave male della Regina fosse già guarito col semplice rimedio o d’una costoletta o d’una frittata, giacchè la padellina non dava altro.
Un giorno il Reuccio entrò in camera della Regina che ella aveva appena terminato di mangiare l’ultimo boccone.
 
– Che buon odore, Maestà!
– Odor di costoletta, Reuccio.
Un altro giorno:
– Che buon odore, Maestà!
– Odor di frittata, Reuccio.
– Sempre le stesse cose, Maestà?
– Sempre; ma ogni volta hanno un sapore diverso.
– E come fa la vostra cuoca?
– Lo sa lei.
 
Il Reuccio entrò in grande curiosità, e volle andare in cucina per vederla lavorare.
– In cucina dobbiamo starei soltanto mio padre e io.
– Io sono il Reuccio!
– Reuccio o non Reuccio, ho la parola di Sua Maestà; in cucina dobbiamo starei soltanto mio padre e io.
 
Il Reuccio, indispettito, afferrò la padellina ch’era lì tutta affumicata e gliela strofinò sulla faccia, annerendogliela come quella d’una mora e se ne andò chiudendo la ragazza e il padre nella casa come prigionieri.
Quel giorno, per caso, avevano da mangiare.
 
Il giorno dopo però cominciarono a provar fame.
Erano come murati in casa e non potevano nemmeno gridare al soccorso!
– Ah, poveri noi! Morremo di fame.
 
La padellina stava appesa a un chiodo, pulita e luccicante qual era rimasta dal momento che il Reuccio l’aveva strofinata sulla faccia della ragazza.
La ragazza la guardava in cagnesco, con gli occhi pieni di lacrime, e si sentiva gorgogliare in gola: «Maledetta la padellina e chi me la dette!».
La vide smuoversi e la sentì risonare come quando la prima volta vi aveva picchiato su con le nocche delle dita.
La staccò dal chiodo, la posò sul focolare spento, e disse al padre:
 
– Che volete? Una costoletta? Una frittata?
Non aveva finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto.
Padre e figlia, a una voce, esclamarono:
– Benedetta la padellina e chi ce la dette!
 
Corsero alla porta, ma il paletto non si poteva muovere; corsero alla finestra, ma il lucchetto era più duro del paletto.
Intanto il buon odore delle pietanze si sentiva nella via.
Il Re, saputa la cosa, mandò subito a prendere la ragazza.
– Aprite, vi vuole Sua Maestà.
– Non possiamo aprire; aprite voi.
 
Il Re manda i fabbri per forzare la serratura o sfondare la porta; i fabbri tentano, ritentano, ma inutilmente.
Manda allora i muratori per fare un gran buco nel muro; ma i picconi si spuntano, il muro par fatto di bronzo.
La Regina agonizzava.
Il Re avrebbe dato metà del suo regno pur di vederla risanare con le costolette e le frittate della padellina miracolosa.
Che fare con quella serratura, con quella porta e con quel muro che resistevano a tutto?
Un giorno finalmente la Regina chiude gli occhi e rimane immobile: la credono morta, e si leva un gran pianto per tutto il palazzo reale.
 
Il Re, dalla disperazione e dal dolore, si strappava i capelli.
A un tratto la Regina riapre gli occhi e dice:
– Ho fatto un sogno. Mi pareva d’essere stata portata dietro la porta di quella casa, e che il solo odore delle pietanze m’avesse risanata. Maestà, voglio provare se il sogno è veritiero.
I servitori presero il letto come una barella e portarono la Regina dietro la porta che non poteva aprirsi.
– Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l’odore delle tue pietanze, regina!
 
Non rispose nessuno, e non si sentì odore di sorta.
– Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l’odore delle tue pietanze, regina!
Non rispose nessuno, e non si sentì alcun odore.
Il Re, quasi piangendo, gridò:
 
– Regina delle cuoche, se fai sentire l’odore delle tue pietanze, sarai Regina per davvero.
– Maestà, – disse un ministro, – che cosa vi e scappato di bocca! Parola di Re non va indietro.
– E non andrà! Partano cento corrieri e vadano in cerca del Reuccio.
– E se il Reuccio non vorrà sposarla?
 
– L’adotterò per figliola, e sarà Reginotta.
Si sentì subito un odore delizioso che si sparse per tutta la via.
La Regina annusava e rinasceva da morte a vita.
Annusavano il Re, i ministri, il seguito di corte, la folla pigiata nella via attorno al letto della Regina, e tutti si sentivano riempire lo stomaco, quasi avessero pranzato lautamente.
 
Per parecchie settimane, nessuno pensò a fare spesa e ad accendere un fornello.
Aspettavano che la Regina fosse portata col letto dietro la porta di quella casa, e appena l’odore delle pietanze cominciava a spandersi, si vedevano mille e mille nasi per aria annusare avidamente, e da lì a poco scoppiavano dei grand’Ah! di soddisfazione, come dopo un pranzo copioso.
 
I corrieri reali eran partiti subito alla ricerca del Reuccio, ma le settimane passavano, nessuno di essi tornava, e l’odore intanto veniva meno di giorno in giorno, con gran terrore del Re e della Regina che non era ancora ristabilita in salute.
 
La gente, preso gusto a quel genere di pranzo così buono e che non costava niente, malediva quegli stupidi corrieri incapaci di trovare il Reuccio.
Una mattina, inaspettatamente, ecco uno dei corrieri e poi un altro e poi un altro, scalmanati, sfiniti.
– Avete trovato il Reuccio?
– Non l’abbiamo trovato.
Due giorni dopo, ecco l’ultimo più scalmanato e più sfinito degli altri.
– Hai trovato il Reuccio?
– No, ma ho trovato chi sa dov’è. È un pastore che guarda le pecore laggiù, laggiù. Disse: «Indovinami prima quest’indovinello e poi saprai dov’è il Reuccio». Non l’ho indovinato e non me l’ha detto.
– Che indovinello?
Non ero nato per fare il pastore,
Eppur dovevo mungere e tosare.
– Bestia! È lui! – gridò il ministro, che di mungere e tosare se n’intendeva assai. – Conducimi dov’egli si trova.
E partì insieme col corriere.
Infatti era proprio lui.
Ne aveva viste e patite tante, fino a essersi ridotto a fare il guardiano di pecore, che non gli pareva vero tornare Reuccio, anche a patto di sposare la regina delle cuoche.
 
Appena arrivato, andò a picchiare alla porta che non si poteva aprire.
– Sono il Reuccio.
Invece della porta si aprì la finestra, e comparve la ragazza con la faccia nera e la padellina in mano; la padellina era affumicata.
– Questa è la mia dote!?
 
Chi mi vuole per mogliera
Deve farsi la faccia nera.
E se nera non la fa,
D’onde viene se n’andrà.
 
Il Reuccio esitava; non gli andava doversi impiastricciare di fumo al cospetto di tanta gente radunatasi alla notizia del suo arrivo.
Poi si strinse nelle spalle, prese la padellina e, chiusi gli occhi, se la strofinò sulla faccia, tingendosi peggio di un moro.
E mentre la sua anneriva, quella della ragazza ridiventava bianca come la cera.
 
– Ora potete entrare.
Infatti la porta si spalancò da sé, e il Reuccio trovò sulla soglia la ragazza vestita come una regina, con la collana, lo spillone, gli orecchini e i braccialetti regalatile quando faceva la cuoca; sembrava una regina nata, tanto era bella e dignitosa.
Il popolo applaudiva:
 
– Viva la Reginotta! Viva il Reuccio!
E nello stesso tempo rideva, vedendo costui tutto impiastricciato a quel modo; ma rise per poco.
La ragazza prese il grembiule, lo passò sulla faccia del Reuccio, e in men che non si dica gliela ripulì.
Prima che si sposassero, la Regina era già bell’e guarita.
Le feste delle nozze durarono un mese intero.
 
– E della padellina che ne faremo? – disse il Reuccio.
– Si faccia un bando: «Chi ha una padellina, venga a sfregarla con questa; friggerà da sé egualmente».
Figuriamoci che cuccagna! Pareva tutti i giorni un festino.
La gente si dava bel tempo, e all’ora del pranzo mettevano le padelline sui fornelli spenti:
– Padellina, una costoletta! Padellina, una frittata!
E tutte le padelline friggevano; la gente mangiava a ufo.
Frittate e costolette avevano ogni volta un sapore diverso.
Ma, purtroppo, chi non lavora non è mai contento!!? Cominciarono a brontolare:
– Sempre costolette! Sempre frittate!
 
La Fata che aveva regalato la padellina portentosa alla ragazza, in premio della carità da lei fatta, si sdegnò di quell’ingratitudine, e un bel giorno, anzi, un brutto giorno, prese di nuovo le sembianze di vecchina e si presentò alla Reginotta.
 
– Sono quella della padellina. Brontolano: «Sempre costolette! Sempre frittate!». Ecco qui un’altra padellina che frigge diversamente.
Strofinino le loro con questa e vedranno il miracolo.
 
Corsero tutti, strofinarono, e si trovarono canzonati.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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