Chi non ha coraggio non vada alla guerra – Carlo Collodi
Chi non ha coraggio non vada alla guerra – Carlo Collodi
Leoncino è un ragazzetto entrato appena nei dieci anni.
«Perché questo nome di Leoncino?», domanderete voi.
La storia sarebbe un po’ lunghetta, ma io ve la racconterò in quattro parole.
Bisogna dunque sapere che quando questo bambino fu portato al fonte battesimale, la sua mamma avrebbe gradito volentieri che si fosse chiamato Luigi: ma il suo babbo, incaponitosi a farne col tempo un guerriero (il babbo era comandante dei pompieri e bisogna perdonargli certe debolezze guerresche) volle a tutti i costi che fosse battezzato col nome di Napoleone.
Napoleone!… Come si fa, domando io, a mettere un nomone così grosso sulla testa di un tenero lattante? C’è quasi il pericolo di soffocarlo!
Fatto sta che in famiglia, per vezzeggiativo, cominciarono subito a chiamarlo Napoleoncino: ma poi, avvedutisi che questo vezzeggiativo era troppo lungo, gli tagliarono le due prime sillabe (Na-po), e così, di un Napoleoncino, ne fecero per risparmio di fiato un economico e modesto Leoncino.
Il piccolo guerriero crebbe a occhiate, e a dieci anni era già diventato un bel ragazzo. Correva, ballava, saltava, faceva la ginnastica, e, cosa singolarissima! qualche volta anche studiava.
Di burattini e di altri balocchi non voleva saperne. L’unica sua passione erano le sciabole di latta con l’impugnatura dorata e i fucilini a saltaleone, da caricarsi in tempo di pace coi lupini secchi, e in tempo di vera guerra, coi sassolini di ghiaia o coi nòccioli di ciliegia.
Il suo babbo poi, per contentarlo e per coltivargli sempre più lo spirito marziale, gli aveva fatto fare anche l’uniforme di generale d’armata, con le spalline di bambagia gialla come lo zafferano e con un berretto di panno scuro, ornato di un bel nastro di tela incerata e rilucente, che, veduto da lontano, pareva proprio un gallone d’argento.
Venuto il tempo delle vacanze, Leoncino fu condotto a villeggiare in casa di un suo zio, ricco possidente di campagna.
Questo zio aveva una nidiata di cinque figlioli, tutti bambinetti fra i sette e gli undici anni. Figuratevi la contentezza di Leoncino quando si trovò in mezzo a quegli altri cinque monelli.
Com’è naturale, pensarono subito, tutti d’accordo, di fare i soldati. Arnolfo, il più piccolo dei cugini, nominato trombettiere di reggimento, andava avanti al corpo d’esercito, sonando la tromba con la bocca. Raffaello, il più alto di tutti, faceva da cavalleria, per cui era obbligato a camminare sempre di trotto o di galoppo e qualche volta anche a nitrire e tirare i calci, a uso cavallo: Asdrubale e Gigino rappresentavano il grosso della fanteria. Tonino guidava i carri dell’ambulanza, strascinandosi dietro il carretto dell’ortolano per caricarci su, dopo la battaglia, i morti e i feriti, e Leoncino… Leoncino poi, come potete immaginarvelo, era il comandante generale e marciava sempre alla testa della grande armata.
II.
Tutte le mattine che Dio mandava in terra, i sei ragazzi, dopo aver preso con sé il pane e il companatico per fare il rancio, si mettevano in marcia armati di tutto punto, avviandosi a combattere qualche gran battaglia nel vicino bosco distante forse un chilometro dalla villa.
Arrivati a mezza strada, facevano alto in mezzo a un prato, e lì, sdraiati sull’erba, mangiavano, o, per dir meglio, divoravano il rancio, mentre uno di loro, s’intende bene, rimaneva a far da sentinella avanzata in fondo al prato, per dare il grido d’allarme nel caso che i nemici fossero sbucati fuori all’improvviso.
Ma l’uso della sentinella avanzata durò poco, e vi dirò il perché. Una mattina toccò a far da sentinella al trombettiere Arnolfo, un ragazzino che non aveva ancora sett’anni finiti. Arnolfo, ubbidiente ai regolamenti e alla disciplina militare, si rassegnò a fare una mezz’ora di sentinella: ma appena smontato, corse subito in mezzo ai compagni, per farsi dare la sua parte di rancio. E lascio pensare a voi come restò, quando si accorse che i suoi compagni avevano mangiato tutto, diluviato tutto, spolverato tutto: fino i minuzzoli di pane, fin le cortecce del cacio, fin le bucce del salame! Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c’è l’esempio d’un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui.
Da quel giorno in poi, in quel corpo d’armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l’ora del rancio. Di fronte a un atto così grave d’insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto… e tutti pari.
E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano?
Ve lo dico subito. Appena finito il rancio, l’esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a passo di carica dentro il bosco. Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent’anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l’ordine di cominciare il fuoco. Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: «Avanti! Coraggio, marmotte!… Serrate le file!… Alla baionetta!».
Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita.
E la quercia?… La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire:
«Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio!…».
III.
Un giorno, per altro, avvenne un caso orribile e spaventoso; ed ecco come andò.
Il piccolo esercito, secondo il solito, si avanzava a marcia forzata dentro il bosco, in cerca del solito nemico. Quando, tutt’a un tratto, il general Leoncino, che camminava fieramente avanti una ventina di passi, si fermò esterrefatto, e cacciando un grido acutissimo di terrore, si dette a scappare verso casa.
La sua fuga fu così precipitosa e disordinata, che per la strada perse gli sproni di latta e il berretto di generale, col gallone che pareva d’argento.
Che cos’era mai accaduto di strano?…
Quando Leoncino arrivò alla villa, era ansante, boccheggiante e tutto paonazzo in viso come un cocomero troppo maturo.
E per l’appunto la prima persona, in cui s’imbatté, fu lo zio.
Conoscete, per caso, lo zio di Leoncino? Lo dovete conoscere di certo, perché chi lo sa quante volte lo avete incontrato per la strada: ma ora forse non ve lo rammentate più.
Figuratevi, dunque, un omone lungo lungo, grosso grosso, con un faccione largo come la luna, e con un nasone tutto pieno di nasini, da parere un grappolo d’uva.
Di nome si chiama Giandomenico: ma tutti nel paese lo conoscono col soprannome di Nasobello.
Vedendolo la prima volta e giudicandolo dalla fisonomia burbera e accigliata, c’è da scambiarlo per un orco, per un tiranno, per un mangia-bambini, e invece… Invece è una bonissima pasta d’uomo, burlone, allegro, di buon’umore, tutt’amore per i figliuoli e tutto premure e attenzioni per il suo nipotino.
Tant’è vero che appena gli capitò davanti Leoncino scalmanato e impaurito a quel modo, il sangue gli fece un gran rimescolone e gridò subito:
«Che cos’è stato? Perché hai il viso così acceso?… Dove sono rimasti i tuoi cugini?…».
Il ragazzo stintignava a rispondere: pareva quasi che si vergognasse.
«Dunque?…», insisté lo zio, alzando sempre più la voce.
«Ecco… dirò… una bestia così brutta…»
«Quale bestia?…»
«Io…»
«Come? tu sei una bestia?…»
«Io, no: quell’altra… che ho trovata nel bosco…»
«Non capisco nulla: ma spiegati, per carità!… Dov’hai lasciato i tuoi cugini?…»
«Fra poco verranno…»
«Eccoci qui! eccoci qui!», gridarono di fuori cinque voci argentine e squillanti, come tanti campanelli.
E nel tempo stesso entrarono in sala i cinque ragazzi, che si buttavano via dalle matte risate.
Il babbo, che non sapeva il motivo di questo gran buon’umore, disse allora con accento risentito:
«Finitela una volta! Si potrebbe sapere almeno di chi ridete?».
«Si ride di lui!…» E, accennando Leoncino, dettero in una risata più forte.
«Del nostro coraggioso generale!» E qui una risata più lunga.
«Povero generale, che paura che ha avuta! Diamogli subito un bicchier d’acqua!» E qui una risatona così sguaiata, che non finiva più.
E Leoncino?…
IV.
Leoncino aveva perduto la voce. Stava ritto in mezzo alla sala, con la testa bassa, col mento conficcato nello stomaco, e di tanto in tanto dava dell’occhiatacce ai suoi compagni, come dire: «Quando saremo fuori di qui, faremo i conti e me la pagherete!…».
«Dunque, si può sapere che cos’è accaduto?», domandò il babbo.
«Te lo racconterò io», disse Raffaello, quello che faceva da cavalleria.
«No: io!», gridò Gigino, il rappresentante la fanteria.
«Nossignori, tocca a me», strillò Arnolfo, il trombettiere. «Io sono il più piccino di tutti; dunque ho più diritto degli altri.»
«Lasciate parlare Arnolfo», disse il babbo, «e zitti tutti!»
Il piccolo trombettiere, non sapendo lì per lì trovar subito la parola per dar principio al suo racconto, cominciò a fare con la bocca mille versi e a gesticolare con le mani: alla fine poi, trovata la parola, prese a dire come seguitando un racconto:
«Sicché dunque, quando il nostro generale ci disse: «Avanti!» noi tutti si rispose: «Andiamo!».
«Andiamo? Ma dove volevate andare?», domandò il babbo.
«O che non lo sai? S’andava a far la guerra…»
«La guerra contro chi?»
«La guerra contro Cartagine.»
«E chi è questa Cartagine?»
«È una grossa quercia, che rimane a metà del bosco.»
«E perché la chiamate Cartagine?»
«Bella forza! Perché noi siamo i Romani e andiamo sempre a bastonarla.»
«Ora ho capito tutto!», disse il babbo. «Prosegui pure il racconto.»
«Sicché dunque, quando si fu per i campi, sarebbe toccato a me a camminare avanti, ma siccome Leoncino è un prepotente per la ragione che ha la sciabola dorata e la striscia bianca al berretto, allora mi saltò addosso col dire: «Il Generale sono io, e tu devi venire dietro a me». Ma questa l’è una riffa; ne convieni, babbo? Scusa, babbino, te che te ne intendi, quando si fa la guerra, chi è che va avanti, il generale o quello che sona la tromba? Io dico che quello che sona la tromba gli è sempre il primo di tutti… ne convieni?… Se no la guerra sarebbe una bella ingiustizia.»
«Via! via! via!», gridò il babbo. «Non ci perdiamo in tante lungaggini.»
«Mi spiccio in due parole. Sicché dunque, lui, secondo il solito, volle andare avanti, e noi tutti dietro a passo di corsa. Quando tutt’a un tratto, che è che non è, il nostro Generale in capo si ferma… fa due salti indietro, e cacciando un urlo che pareva il fischio del vapore, si mette a scappare. E come scappava!… Se tu avessi visto come scappava!… Ti ricordi, babbo, del gatto del nostro ortolano, quando gli si faceva vedere la frusta? Tale e quale.»
«E la cagione di questo spavento?»
«Figurati! Aveva visto fra l’erba una tartaruga!»
V.
Il signor Giandomenico, udito il racconto, sentiva anch’esso una gran voglia di ridere: ma invece, atteggiandosi a giudice severo e inesorabile, si voltò verso i suoi figliuoli, gridando in tono di comando militare:
«Soldati! In riga di battaglia!».
A questo comando, i ragazzi si posero tutti in fila, rimanendo immobili e col loro fucilino di legno appoggiato sulle spalle.
Allora il signor Giandomenico riprese:
«Visto e considerato che un generale d’armata, il quale si mette a fuggire perché ha paura di una tartaruga, non è degno di comandare uno dei primi eserciti d’Europa (i soldati chinarono il capo in segno di ringraziamento) ordiniamo e vogliamo che il generale Leoncino si dimetta subito dal supremo grado che ha tenuto finora e prenda invece gli scevroni di caporale. Il prode Raffaello, comandante di tutta la cavalleria, è incaricato di farsi consegnare da Leoncino la sua spada d’onore.»
Raffaello, senza mettere tempo in mezzo, andò subito in fondo alla stanza: e movendosi di là e camminando un po’ di trotto e un po’ di galoppo, si presentò dinanzi al povero Generale, e fece l’atto di chiedergli la spada.
Leoncino non disse una mezza parola: ma seguitava a tentennare il capo, come fanno i chinesi di gesso. Alla fine, visto che non c’era scampo, cominciò adagio adagio a sfibbiarsi la spada dalla cintola: e sfibbiata che l’ebbe, figurò di consegnarla in mano a Raffaello, ossia al comandante della cavalleria.
Ma invece di consegnargliela, gliela batté sulle dita. E pare che gliela battesse piuttosto forte, perché l’altro si risentì tutto inviperito, e ne nacque un combattimento a corpo a corpo fra la cavalleria e il generale. E chi lo sa come questo combattimento sarebbe finito, se il signor Giandomenico non ci fosse entrato di mezzo con le buone maniere, dando, cioè, un bellissimo scappellotto al generale e pigliando per un orecchio la cavalleria. E così persuase i due guerreggianti a sospendere le ostilità e a firmare lì su due piedi un trattato di pace.
E la pace fu firmata.
Ma il povero Leoncino non sapeva rassegnarsi a quest’atto d’umiliazione; e giorno e notte si lambiccava sempre il cervello per trovare il modo di dare qualche splendida prova di coraggio, tanto da riguadagnarsi il grado e la spada di generale. Cerca oggi, cerca domani, finalmente gli parve di vedersi balenare dinanzi agli occhi una bell’idea.
Quella sera andò a letto tutto contento: e prima di addormentarsi diceva dentro di sé: «Domani o doman l’altro sarò generale daccapo… e allora, guai a Raffaello… Per vendicarmi di lui, ordinerò subito che la Cavalleria debba camminare sempre a piedi!…».
Eppure è così: i ragazzi vendicativi spesse volte sono anche ridicoli nelle loro vendette!
VI.
Indovinate un po’, ragazzi, quale fu la bellissima idea (dico bellissima, per modo di dire) che balenò alla mente di Leoncino, per dare una gran prova del suo coraggio e per riguadagnarsi il grado di generale?
Fu quella di sfidare i suoi cugini a chi avesse fatto il salto più alto e più pericoloso. Figuratevi che bel giudizio!
«Io», disse subito Arnolfo, «scommetto di saltare gli ultimi cinque scalini della scala di casa.»
«Bella bravura davvero!», replicò Leoncino, con una spallucciata di disprezzo. «Quello è un salto che lo farebbe anche una pulce.»
«E io scommetto di saltare dalla finestra del fienile», disse Raffaello.
«E noi, se vuoi scommettere, facciamo con te a chi salta meglio la gora del mulino», dissero Gigino e Asdrubale, i due soldati di fanteria.
«Io poi scommetto di saltare una buccia di fico», disse ridendo Tonino, capitano d’ambulanza e nel tempo stesso ragazzino pacifico e tranquillo, che faceva tutte le sue cose con flemma, senza riscaldarsi mai di nulla; prova ne sia che non s’era nemmeno accorto di quella memorabile scena, in cui il suo Generale in capo, dopo essere stato degradato, aveva dovuto consegnare la sciabola in presenza a tutta la soldatesca.
Quando ognuno dei ragazzi ebbe detta la sua, Leoncino si fece avanti e domandò con aria baldanzosa di sfida:
«Chi di voi si sente il coraggio di saltare giù nell’orto dalla terrazza del primo piano?».
«Io no davvero: c’è da rompersi una gamba», rispose uno dei ragazzi.
«Nemmen’io; c’è da spaccarsi la testa», rispose un altro.
«Della testa me ne importerebbe poco», soggiunse Arnolfo ma il male gli è che ci sarebbe da strapparsi i calzoni, e per l’appunto oggi ho i calzoncini nuovi!»
Leoncino sorrise allora d’un risolino maligno e canzonatore e dopo aver dato un’occhiata di compassione a’ suoi cugini, disse con aria di smargiasso:
«Dunque voialtri quel salto non avete il coraggio di farlo? Eppure io lo farò, e quando l’avrò fatto, vedremo se continuerete a mettermi in ridicolo… e poi, perché? perché l’altro giorno all’improvviso ebbi paura di una tartaruga. Dicerto, gua’, se avessi saputo che era una tartaruga, non sarei scappato.»
«O per chi l’avevi presa?», domandò Arnolfo ridendo. «L’avevi forse presa per un elefante?…»
«Non dico un elefante… però, quella brutta bestia, a vederla lì fra l’erba, mi fece una certa impressione… un certo non so che… Ma questo, siamo giusti, non vuol dire che in quel momento non avessi coraggio…»
«Tutt’altro» replicò Arnolfo col solito risolino «vuol dire solamente che avesti paura!…»
«Paura io? per tua regola, a coraggio, vi rivendo quanti siete.»
«Canta, canta, canarino!»
«Arnolfo, non offendere!»
«Io non t’ho offeso.»
«Mi hai detto canarino.»
«Canarino non è un’offesa: canarino gli è un uccellino con le penne gialle.»
«Ma io le penne gialle non ce l’ho!», gridò Leoncino, iscaldandosi.
«Se non le hai, le potresti avere.»
A quest’ultima uscita di Arnolfo, tutti i suoi fratelli dettero in un solennissimo scoppio di risa.
VII.
Allora Leoncino, lasciandosi vincere dalla bizza, fece l’atto di volersi avventare contro il suo piccolo avversario: ma Raffaello, svelto come uno scoiattolo, lo abbracciò subito a mezza vita, e tenendolo fermo, cominciò a dirgli con una certa cantilena burlesca:
«La si calmi, sor Generale, via, la si calmi! La sia bonino!».
E tutti gli altri ragazzi a ripetere in coro con la medesima cantilena:
«La si calmi, sor Generale, la si calmi! La sia bonino!…».
E lì tanto dissero e tanto fecero che Leoncino, dimenticandosi tutta la bizza che aveva addosso, cominciò a ridere anche lui.
Poi, voltandosi verso Arnolfo, gli domandò:
«Mi dici perché te la prendi sempre con me?».
«Io me la prendo con te? Neanche per sogno. Eppoi, anche se me la prendessi con te, credilo, ci sarebbe la sua brava ragione.»
«Perché?»
«Perché, volere o volare, fosti tu che mi mangiasti la colazione quella mattina che feci da sentinella avanzata. E me ne ricorderò sempre!… ma oramai t’ho bell’e perdonato e non ci penso più. Però tutte le volte che quella colazione mi torna in mente, sento sempre una certa vogliolina… o come chi dicesse, una tentazione di ricattarmi… ma oramai ti ho bell’e perdonato e non ci penso più! E per l’appunto, che fame avevo quel giorno! Una fame da lupi!… Abbi pazienza, Leoncino, se te lo dico: ma quella celia fu una gran brutta celia e me la rammenterò sempre fin che campo… Meno male che oramai t’ho bell’e perdonato e non ci penso più!…»
«Basta, basta!» interruppe Raffaello, che cominciava ad annoiarsi. «Andiamo piuttosto a vedere questo gran salto dalla terrazza?»
«Sì, sì, vogliamo il salto, vogliamo il salto!» gridarono tutti.
Leoncino, a dir la verità, se ne sarebbe tirato indietro volentieri; ma dopo essersi vantato tanto, non poteva più scansare la prova. Il suo amor proprio non gliel’avrebbe permesso!!! Perché bisogna sapere che c’è un amor proprio anche per i ragazzi: molte volte è un amor proprio falso, un amor proprio grullo e malinteso (come nel caso di Leoncino che, per amor proprio, si metteva al rischio di rompersi il collo); ma i ragazzi hanno avuto sempre il brutto vizio di voler ragionare su tutte le cose a modo loro, e questa è stata sempre una gran disgrazia per loro e per le loro famiglie.
VIII.
Leoncino esitò un minuto… due minuti… poi, fatto un animo risoluto, si mosse per andare sulla terrazza: non era per altro entrato nell’uscio di casa, che si trovò davanti lo zio Giandomenico, il quale domandò a lui e a quell’altre birbe:
«Dove andate con tanta fretta?».
«Si va su in terrazza.»
«In terrazza? A far che cosa?»
«A… a… a prendere una boccata d’aria.»
«Non è vero, sai, babbo!», disse subito Arnolfo, «non si va a prendere una boccata d’aria: ma si va in terrazza, perché Leoncino, per far vedere che ha più coraggio di noi, ha scommesso di montare sul parapetto della terrazza e di saltare giù nell’orto.»
«È proprio vero che hai fatto questa scommessa?» disse allora lo zio, rivolgendosi al nipote. «Tu dunque credi che il coraggio, il vero coraggio, consista nell’affrontare senza alcun bisogno, i più grandi pericoli? nel saltare per semplice passatempo dai primi piani? nel montar ritti sulla soglia delle finestre? nel camminare in cima ai tetti? nel correre all’impazzata sulle spallette dei fiumi? nell’arrampicarsi in vetta agli alberi? nell’andare a bagnarsi dove l’acqua è più alta, senza saper nuotare?… No, carino mio, no: queste non son prove di coraggio: queste sono temerità imperdonabili, queste sono bravure da matti, che provano solamente la grande spensieratezza e il pochissimo giudizio di voialtri ragazzi!»
A questa parlantina fatta co’ fiocchi, il povero Leoncino restò così confuso, che non trovava il verso né di rispondere, né di guardare in faccia lo zio.
Intanto, tutto afflitto e mortificato, andava pensando dentro di sé:
«E io che speravo di aver trovato il modo di riguadagnarmi il grado di comandante!… mentre è proprio un miracolo se oggi non ho perduto anche gli scevroni di caporale!…».
Ma non si dette per vinto! Anzi, il giorno dopo, ricominciò a stillarsi il cervello per trovare qualche nuovo ammennicolo, che valesse a dare una prova di quel coraggio, che egli non aveva, ma che avrebbe voluto avere.
Ora bisogna sapere che, dall’oggi al domani, era capitata appunto nei dintorni di quella campagna una grossa volpe.
Questa famelica bestia, spavento e flagello di tutti i pollai, non solo mangiava i galli, le chiocce, le pollastre e le galline vecchie, ma, occorrendo, divorava allegramente anche i pulcini e i galletti di primo canto, senza nessun riguardo alla loro tenera età.
IX.
Sentendo parlar tanto di quella volpe, Leoncino domandò al guardaboschi dello zio:
«Dimmi, Tonio, come sono grosse le volpi?».
«Le volpi» rispose il guardaboschi «somigliano molto ai cani; con questa differenza, che hanno la coda assai più grossa, un codone che pare una spazzola. Non le ha mai vedute, lei, le volpi?»
«Mai.»
«Vuol vederne una?»
«Una volpe viva?…»
«No, morta. La trovai cinque anni fa nel bosco, l’ammazzai con una schioppettata, e poi la volli impagliare… ossia, riempire da me: ma non lo dico per vantazione, l’è impagliata così bene, che c’è da scambiarla per una volpe viva. Se lei vuol vederla, venga a casa mia e potrà levarsi questa curiosità.»
«Quando posso venire?»
«Anche domattina.»
«A che ora?»
«Di prima levata, avanti che io vada al bosco.»
Leoncino non intese a sordo. La mattina dopo si alzò di bonissim’ora e senza dir nulla ai suoi cugini, che erano sempre a letto, andò difilato a casa del guardaboschi.
Quando fu là, l’amico Tonio lo condusse in una stanzuccia terrena che serviva per le legna: e in un angolo di questo bugigattolo c’era una bella volpe accovacciata con la testa alta e minacciosa, con gli occhi di vetro, che parevano vivi e veri, e con la bocca aperta in atto di ringhiare e di mostrare rabbiosamente i denti.
Alla vista di quella volpe, Leoncino ebbe, come chi dicesse, una specie d’ispirazione improvvisa… e voltandosi al guardaboschi, gli disse:
«Come è bella! Me la vuoi vendere?».
«Vendere? Che le pare! Piuttosto gliela regalo.»
«Davvero?»
«E gliela regalo volentieri: tanto più che starà meglio in casa di lor signori, che in questa stanzuccia umida e senza luce, dove c’è il caso che, una volta o l’altra, me la mangino i topi.»
«Dunque la posso prendere?»
«La prenda pure: ma che la vuole portare da sé alla villa?»
«Sicuro che la voglio portare da me. La villa dello zio è così vicina!»
«Guà: faccia lei.»
Leoncino, con l’aiuto del guardaboschi, si caricò sulle spalle la volpe, ripeté i suoi ringraziamenti, e se ne andò.
X.
Intanto i cinque cugini, appena alzati da letto, domandarono subito di Leoncino: ma Leoncino non c’era.
Aspettarono un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora, e Leoncino non tornava: e già cominciavano a mettersi in pensiero, quand’ecco che finalmente Leoncino tornò.
«Dove sei stato finora?», gli domandarono tutti insieme.
«Sono andato a fare un giro per questi dintorni; e sapete perché? Per vedere se avevo la fortuna d’incontrare la volpe.»
«La volpe non c’è più: è sparita da un pezzo», disse Raffaello.
«Come lo sai?»
«Sono cinque giorni che non s’è fatta più rivedere, e tutte le galline hanno già ripreso a dormire i loro sonni tranquilli.»
«E se la incontravi davvero?», disse Arnolfo.
«Se la incontravo? Tanto peggio per lei. Che avete paura, voialtri, della volpe?»
«Noi, sì: dopo che abbiamo visto quelle povere galline sbranate e poi lasciate per i campi…»
«A me poi», disse Leoncino, «la volpe non mi fa paura.»
«Guarda un po’ quanto coraggio hai messo fuori tutt’a un tratto: o chi te l’ha prestato?», disse Arnolfo ridendo.
«Arnolfo, non ricominciare!… se no, ci guastiamo davvero. Dunque si va o non si va?»
«Dove?»
«A far la nostra passeggiata militare e il solito rancio.»
«Eccoci pronti!»
«Però, come vostro caporale, voglio che oggi il rancio si debba fare lì, al principio del bosco, dov’è quella foltissima macchia, che si chiama… aiutatemi a dirlo.»
«La macchia di Tentennino», urlarono i cinque ragazzi.
«Bravi! la macchia di Tentennino. Dunque sacco in spalla, e via!»
Dopo venti minuti di marcia forzata, erano già arrivati in vicinanza della macchia: quando, tutt’a un tratto, il caporal Leoncino, fermandosi e voltandosi ai soldati, gridò loro con voce sommessa:
«Alto! e fermi tutti!…»
«Che cos’è stato?…»
«Guardate là, fra le frasche della macchia! non lo vedete quel brutto muso, che sbuca fuori?»
«Altro se lo vediamo! Quella è una volpe!…»
«È una volpe davvero!…»
«Per me, torno subito indietro», disse Arnolfo impaurito.
«Anche noi, anche noi!», dissero gli altri fratelli.
«Dunque avete paura?…», gridò Leoncino. «Marmotte! tornate pure indietro, ma io vado avanti!»
«Leoncino, da’ retta a noi, torna indietro anche tu», dicevano i ragazzi, raccomandandosi e allontanandosi a passo di carica.
XI.
Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato.
Questa lotta disperata durò un buon quarto d’ora. Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli:
«Dunque? Come è andata a finire?».
«Bene.»
«Ti ha graffiato? ti ha morso?»
«Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo.»
«L’hai ammazzata?»
«Mi è fuggita sul più bello… ma è fuggita in uno stato da far pietà… se campa fino a domani è un miracolo.»
A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio.
Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone.
Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll’impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d’argento.
Quand’ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c’era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino.
«Fatelo passar qui» disse lo zio Giandomenico.
E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato.
«Che cosa vuoi, Michele?», domandò lo zio.
«Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l’ha presa col dire che l’avrebbe portata alla villa… ma viceversa poi, l’ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino…»
«Dove?», gridarono i ragazzi a una voce. «Nella macchia di Tentennino?…»
E nel dir così, si scambiarono fra loro un’occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: «Ora abbiamo capito tutto!…».
Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate.
«E guardi, padron lustrissimo», continuò il guardaboschi, «come me l’hanno conciata questa povera bestia!… Se sapessi chi s’è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover’a lui!…»
Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera.
Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma. Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso.
Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po’ monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio:
«Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: «Chi non ha coraggio, non vada alla guerra»».
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)
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