La festa di Natale – Carlo Collodi

La festa di Natale - Carlo Collodi

La festa di Natale

La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.
 
Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l’Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne’ sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.
 
 La contessa passava molti mesi all’anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de’ suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.
 
Finita l’ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!
 
Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:
 
«Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene».
 
E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d’ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.
 
Alberto, il fratello minore, aveva un’altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.
 
Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.
 
E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:
 
«Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»
 
E Pulcinella non rispondeva.
 
«Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto.
 
E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.
 
«Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»
 
E Pulcinella, duro!
 
«Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po’ stizzito.
 
E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.
 
«Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico «guardami» allora mi guardi; e se ti dico «buon giorno» non mi rispondi?»
 
E Pulcinella, zitto!
 
«Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»
 
E Pulcinella alzava una gamba.
 
«Dammi la mano!»
 
E Pulcinella gli dava la mano.
 
«Ora fammi una bella carezzina!»
 
E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.
 
«Ora spalanca tutta la bocca!»
 
E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.
 
«Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»
 
Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.
 
Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!… e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.
 
«Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone… ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio… e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d’oro e mezza d’argento.»
 
Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l’uso di regalare a’ suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s’intende bene, de’ loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell’Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.
 
Luigino, com’è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.
 
L’Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l’ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.
 
In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.
 
Intanto il Natale s’avvicinava, quand’ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c’era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.
 
«Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l’interno della stanza terrena.
 
Nessuno rispose.
 
In quella stanza terrena c’era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.
 
«Zio Bernardo, ho fame!…», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.
 
«Insomma vuoi finirla?», gridò l’uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c’è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»
 
E nel dir così, quell’uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.
 
Allora Luigino, Alberto e l’Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.
 
Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:
 
«Grazie… ora non ho più fame…».
 
Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.
 
Alberto, per altro, non se l’era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:
 
«Oh come dev’essere cattivo il freddo! Brrr…».
 
E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev’esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.
 
Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l’ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.
 
«Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell’Orco?»
 
«Chi è l’Orco?»
 
«Noi si chiama con questo soprannome quell’uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»
 
«O il suo bambino che fa?»
 
«Povera creatura, che vuol che faccia?… È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo…»
 
«Che dev’essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.
 
«Pur troppo! Meno male che domani parte per l’America… e forse non ritornerà più.»
 
«E il nipotino lo porta con sé?»
 
«Nossignore: quel povero figliuolo l’ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».
 
«Brava Rosa.»
 
«A dir la verità, gli volevo fare un po’ di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo… ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»
 
Alberto stette un po’ soprappensiero, poi disse:
 
«Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»
 
«Non dubiti.»
 
Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de’ tre salvadanai.
 
Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l’Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.
 
«Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest’anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»
 
«La voglia di studiare l’ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»
 
«Speriamo che quest’altr’anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell’uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l’uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé l’Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.
 
Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:
 
«Sor Alberto! sor Alberto!».
 
Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell’andarsene, ripeté più volte:
 
«Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».
 
Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.
 
Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:
 
«Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».
 
Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d’una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.
 
«Non c’è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto… il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»
 
«No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all’Ada.»
 
E l’Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l’ultimo figurino.
 
«Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l’Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.
 
«Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d’una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»
 
«E ora, Alberto, vediamo un po’ come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»
 
«Ecco… io volevo… ossia, avevo pensato di fare… ossia, credevo… ma poi ho creduto meglio… e così oramai l’affare è fatto e non se ne parli più.»
 
«Ma che cosa hai fatto?»
 
«Non ho fatto nulla.»
 
«Sicché avrai sempre in tasca i danari?»
 
«Ce li dovrei avere…»
 
«Li hai forse perduti?»
 
«No.»
 
«E, allora, come li hai tu spesi?»
 
«Non me ne ricordo più.»
 
In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:
 
«È permesso?.»
 
«Avanti.»
 
Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.
 
«È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.
 
«Ora è lo stesso che sia mio, perché l’ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»
 
«E chi è quest’angelo di benefattore?», chiese la Contessa.
 
L’ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:
 
«Eccolo là.»
 
Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:
 
«Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!…».
 
«La scusi: che c’è forse da vergognarsi per aver fatto una bell’opera di carità come la sua?»
 
«Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.
 
La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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La Cervia nel bosco – Carlo Collodi

La Cervia nel bosco - Carlo Collodi

La Cervia nel bosco

C’era una volta un Re e una Regina che stavano fra loro d’accordo come due anime in un nocciolo: si amavano teneramente ed erano adorati dai loro sudditi; ma alla felicità completa degli uni e degli altri mancava una cosa: un erede al trono. La Regina, la quale sapeva che il Re l’avrebbe amata il doppio se avesse avuto un figlio, non lasciava mai in primavera di andare a bere certe acque che si dicevano miracolose per aver figliuoli. A queste acque ci correva la gente in folla da ogni parte; e il numero dei forestieri era così stragrande, che ci si trovavano di tutti i paesi del mondo.
 
 In un gran bosco, dove si andava a beverle, c’erano parecchie fontane: le quali erano di marmo o di porfido, perché tutti gareggiavano a chi le faceva più belle. Un giorno che la Regina stava seduta sull’orlo d’una fontana, ordinò alle sue dame di compagnia di allontanarsi e di lasciarla sola e poi cominciò i suoi soliti piagnistei. «Come sono disgraziata», diceva essa, «di non aver figli! sono ormai cinque anni che chiedo la grazia di averne uno; e ancora non ho potuto averla.
 
Dovrò dunque morire senza provare questa consolazione?» Mentre parlava così, osservò che l’acqua della fontana era tutta mossa; poi venne fuori un grosso gambero e le disse: «O gran Regina! finalmente avrete la grazia desiderata.
 
Dovete sapere che qui vicino c’è un magnifico palazzo fabbricato dalle fate: ma è impossibile trovarlo, perché circondato da nuvole foltissime attraverso alle quali non passa occhio mortale: a ogni modo, siccome io sono vostro servitore umilissimo, eccomi qui pronto a menarvici se volete fidarvi alla guida di un povero gambero».
 
La Regina lo stette a sentire senza interromperlo, perché la cosa di vedere un gambero che discorreva, l’aveva sbalordita dalla meraviglia: quindi gli disse che avrebbe gradita volentieri la sua offerta, ma che non sapeva, come lui, camminare all’indietro. Il gambero sorrise e prese subito l’aspetto di una bella vecchietta.
 
«Ecco fatto, o signora», le disse, «così non cammineremo più all’indietro. Ma vi domando una grazia: tenetemi sempre per una delle vostre amiche, perché io non desidero altro che di esservi utile a qualche cosa.» Uscì dalla fontana senza avere una goccia di acqua addosso: il suo vestito era bianco, foderato di seta cremisi, e i capelli grigi annodati dietro con nastri verdi. Non s’era vista mai vecchietta galante a quel modo! Salutò la Regina, che volle abbracciarla; e senza mettere tempo in mezzo, la fece prendere per una viottola del bosco, con molta meraviglia della Regina stessa: la quale sebbene fosse venuta nel bosco migliaia di volte, non era mai passata per quella viottola lì.
 
E come avrebbe fatto a potervi passare? Quella era la strada delle fate, per andare alla fontana, e per il solito era tutta chiusa da ronchi e da pruneti: ma appena la Regina e la sua guida vi ebbero messo il piede, le rose sbocciarono improvvisamente dai rosai, i gelsomini e gli aranci intrecciarono i loro rami per formare un pergolato coperto di foglie e di fiori, e migliaia di uccelli di varie specie, posati sui rami degli alberi, sfringuellarono allegramente.
 
Non si era ancora riavuta dallo stupore, che la Regina si trovò abbacinati gli occhi dallo splendore abbagliante di un palazzo tutto di diamanti; le mura, i tetti, i soffitti, i pavimenti, i giardini, le finestre e perfino le stesse terrazze erano tutte di diamanti. Nel delirio della sua ammirazione, ella non poté trattenersi dal mandare un urlo di sorpresa, e chiese all’elegante vecchietta, che l’accompagnava, se ciò che aveva dinanzi agli occhi era sogno o verità. «Non c’è nulla di più vero, o signora», ella rispose.
 
E subito le porte del palazzo si aprirono, e uscirono fuori sei fate: e quali fate! Di più belle e di più magnifiche non se n’erano vedute in tutto il loro reame. Vennero tutte a fare una profonda riverenza alla Regina: e ciascuna le presentò un fiore di pietre preziose, per poter formare un mazzo: c’era una rosa, un tulipano, un anemone, un’aquilegia, un garofano e un melagrano.
 
«Signora», le dissero, «noi non possiamo darvi un maggior segno della nostra venerazione, che permettendovi di venirci qui a visitare: noi siamo molto liete di farvi sapere che avrete una bella Principessa, alla quale metterete il nome di Desiderata, perché bisogna pur convenire che è un gran pezzo che la desiderate.
 
Quando verrà alla luce, ricordatevi di chiamarci, perché vogliamo arricchirla di tutte le più belle doti; e per invitarci a venire, non dovete far altro che prendere in mano il mazzo, che ora vi diamo, e nominare a uno a uno tutti i fiori, pensando a noi. State sicura che in un batter d’occhio saremo tutte nella vostra camera.» La Regina, fuori di sé dall’allegrezza, si gettò al collo alle fate; e gli abbracciamenti durarono una mezz’ora buona.
 
Quand’ebbero finito, pregarono la Regina a passare nel loro palazzo, del quale non si possono ridire a parole tutte le meraviglie. Figuratevi che per fabbricarlo avevano preso l’architetto del palazzo del sole, il quale aveva rifatto in piccolo quello che era in grande il palazzo del sole.
 
La Regina, non potendo reggere a così vivo bagliore, era costretta ogni tantino a chiudere gli occhi. La condussero nel loro giardino, e frutta più belle non se n’erano mai sognate! Albicocche più grosse della testa di un ragazzo, e certe ciliegie, che per mangiarne una, bisognava farla in quattro pezzi; e d’un sapore così squisito, che la Regina, dopo che l’ebbe assaggiate, non volle mangiarne d’altra specie in tempo di vita sua.
 
Tra tante meraviglie, c’era anche un boschetto di alberi finti e artificiali, i quali crescevano e mettevano le foglie alla pari di tutti gli altri. Impossibile ridire tutte le esclamazioni di stupore della Regina, i discorsi che fece sulla Principessina Desiderata e i ringraziamenti alle gentili persone che avevano voluto darle una notizia così gradita: basti questo, che non fu dimenticata nessuna parola di gratitudine e nessuna espressione di tenerezza.
 
La fata della fontana n’ebbe la sua parte, come di santa ragione le toccava. La Regina si trattenne nel palazzo fino alla sera: e innamoratissima della musica, le fecero sentire delle voci angeliche. Fu quasi affogata dai regali e dopo aver ringraziato mille volte quelle grandi signore, se ne venne via insieme colla fata della fontana. Tutte le persone della Corte, impensierite, la cercavano di qui e di là: e nessuno poteva immaginarsi dove trovarla.
 
Ci fu perfino chi sospettò che fosse stata rapita da qualche ardito forestiero, tanto più che era ancora giovane e nel fior della bellezza. Quando la videro tornata, com’è da figurarselo fu per tutti una grandissima festa: e perché anch’essa sentiva nel cuore una consolazione immensa per le buone speranze avute, così nel suo conversare c’era non so che di allegro e di gioiale che innamorava. La fata della fontana la lasciò che era quasi vicina a casa; e nell’atto di dirsi addio, raddoppiarono le carezze e i complimenti.
 
La Regina, trattenutasi ancora per una settimana a bevere le acque, non lasciò un giorno senza ritornare al palazzo delle fate colla sua elegante vecchietta, la quale tutte le volte si mostrava da principio in forma di gambero, e finiva poi col prendere la sua figura naturale. La Regina, partita che fu, divenne incinta, e mise alla luce una Principessa, alla quale dette il nome di Desiderata: e preso subito il mazzo, che aveva avuto in regalo, nominò a uno a uno tutti i fiori che lo componevano, ed ecco che sul momento si videro arrivare le fate.
 
Ciascuna di esse aveva un cocchio differente dall’altro: uno era d’ebano, tirato da colombi bianchi; alcuni erano d’avorio, attaccati a piccoli cervi, e altri di cedro, e altri di legno-rosa. Questo era l’equipaggio che solevano usare in segno d’alleanza e di pace; perché, quand’erano in collera, si servivano soltanto di draghi volanti, di serpenti che buttavano fiamme dalla gola e dagli occhi, di leoni, di leopardi e di pantere, in groppa alle quali si facevano portare da un capo all’altro del mondo in meno tempo che non ci voglia a dire buon giorno o buon anno.
 
Ma questa volta esse erano in pace e di buonissimo umore. La Regina le vide entrare nella sua camera, che avevano una cera molto lieta e maestosa: e dietro di loro, le nane e i nani del corteggio, tutti carichi di regali. Dopo abbracciata la Regina e baciata la Principessina, spiegarono il corredino, fatto di una tela così fine e così resistente da bastare cent’anni, senza pericolo che diventasse lisa; le fate la filavano da sé nelle ore d’ozio.
 
Quanto alle trine erano di maggior valore della tela stessa: vi si vedeva in essa raffigurata, o coll’ago o col fuso, tutta la storia del mondo; dopo di questa messero in mostra le fasce e le coperte, ricamate apposta con le loro proprie mani: e in queste erano rappresentati mille di quei giuochetti svariatissimi, che servono per baloccare i ragazzi. Dacché al mondo ci sono ricamatori e ricamatrici, non s’era mai veduta una cosa meravigliosa come quella tela. Ma quando fu messa fuori la culla, allora la Regina non poté frenarsi dal cacciare un grido di stupore, tanto quella culla sorpassava, per magnificenza, tutto il rimanente. Era fatta d’un legno che costava centomila scudi la libbra.
 
La sorreggevano quattro amorini: quattro veri capolavori, dove l’arte aveva vinto la materia, sebbene fossero tutti rubini e diamanti, da non potersi dire quanto valevano. Questi amorini erano stati animati dalle fate; per cui quando la bambina strillava, la cullavano dolcemente e l’addormentavano, e ciò faceva un grandissimo comodo anche alla balia. Le fate presero la Principessina e se la messero sui ginocchi: la fasciarono e la baciarono più di cento volte, perché era di già tanto bella, che bastava vederla, per mangiarla dai baci.
 
Quando si accorsero che aveva bisogno di poppare, batterono la loro bacchetta in terra, e comparve subito una balia, quale ci voleva per una così graziosa lattante. Restava oramai soltanto da dotarla: e le fate si spicciarono a fare anche questo; chi le diede la virtù, chi la grazia; la terza, una bellezza maravigliosa; la quarta, le augurò ogni fortuna; la quinta, buona salute; e l’ultima, la facilità di riuscir bene in tutte quelle cose che avesse preso a fare.
 
La Regina, contentissima, non rifiniva dal ringraziarle di tanti favori prodigati alla Principessina; quand’ecco che videro entrare in camera un gambero così grosso, che passava appena dalla porta. «Oh! ingratissima Regina», disse il gambero, «com’è egli possibile che vi siate dimenticata così presto della fata della fontana e del gran servizio che vi ho reso, menandovi dalle mie sorelle? Come! voi le avete invitate tutte, e me sola avete lasciata da parte? Pur troppo ne aveva un presentimento, e fu per questo che mi trovai obbligata a prendere la figura d’un gambero la prima volta che vi parlai, appunto per farvi notare che la vostra amicizia, invece di progredire, avrebbe camminato all’indietro.»
La Regina, disperata per la smemoraggine commessa, la interruppe e le chiese perdono. Ella disse che aveva creduto di nominare il suo fiore, come quelli di tutte le altre; che era stato il mazzetto di fiori di pietre preziose quello che l’aveva ingannata: e che essa non era capace di dimenticarsi i grandi favori ricevuti; e che, per conseguenza, la pregava e la scongiurava a non privarla della sua amicizia, e segnatamente a mostrarsi benigna verso la Principessina.
 
Tutte le fate, per la paura che volesse dotarla di miseria e di disgrazie, fecero coro alla Regina per vedere di abbonirla. «Cara sorella», le dissero, «Vostra Altezza non si mostri sdegnata contro una Regina, che non ebbe mai in mente di farvi il più piccolo sgarbo; lasciate, di grazia, codesta buccia di gambero e fatevi vedere in tutta la vostra bellezza.» Come è stato detto, la fata della fontana era un po’ civetta, e a sentirsi lodare dalle sorelle si ammansì un poco e diventò più agevole. «Ebbene», disse, «non farò a Desiderata tutto il male che avrei voluto: perché vi giuro che era mia intenzione di rovinarla affatto, e nessuno avrebbe potuto impedirmelo; nondimeno voglio annunziarvi una cosa: se ella vedrà la luce del sole, prima che abbia compiti quindici anni, dovrà pentirsene amaramente e forse ci rimetterà la vita.»
 
Il pianto della Regina e le preghiere delle illustri fate non valsero a smuoverla di un capello dalla sua sentenza. Ella si ritirò camminando all’indietro, perché non aveva voluto lasciare la sua sopravveste di gambero. Quando si fu allontanata dalla camera, la povera Regina chiese alle fate se ci fosse verso di salvare la figlia dalle disgrazie che le erano state minacciate. Esse tennero consiglio fra loro, e dopo aver messi avanti parecchi partiti, finalmente si attennero a questo: che, cioè, bisognava fabbricare un gran palazzo senza porte e senza finestre; con una porta d’ingresso sotterranea, e custodirvi lì dentro la Principessina fino a tanto che non avesse raggiunto l’età fatale, per esser fuori da ogni pericolo.
 
Tre colpi di bacchetta bastarono per cominciare e finire questo vasto edifizio. All’esterno era tutto di marmo bianco e verde: e i soffitti e gl’impiantiti tutti di diamanti e di smeraldi, che raffiguravano fiori, uccelli e mille altre cose graziose. Le pareti erano tappezzate di velluto di vari colori, ricamato dalle fate colle loro mani: e perché esse sapevano di storia, s’erano prese il gusto di rappresentarvi i fatti storici più belli e più notevoli: c’era dipinto il passato e l’avvenire, e in parecchi arazzi si vedevano effigiate le gesta dei più grandi Re della terra.
 
Le brave fate avevano immaginato questo modo ingegnoso per insegnare più facilmente alla giovine Principessa i vari casi della vita degli eroi e degli altri mortali. Tutta la casa, nell’interno, era rischiarata soltanto a forza di lampade: ma ce n’erano tante e poi tante, che pareva fosse giorno chiaro da un anno all’altro. Vi furono introdotti tutti i maestri, dei quali ella poteva aver bisogno per istruirsi e perfezionarsi; e il suo spirito, la sua svegliatezza e il suo buon senso arrivavano a intendere molte cose, anche prima che le fossero insegnate: ragion per cui i maestri rimanevano strasecolati per le cose bellissime che essa sapeva dire in una età, nella quale gli altri ragazzi sanno appena chiamare babbo e mamma. E questa è una prova che le fate non accordano la loro protezione, per tirar su degli stupidi e degl’ignoranti! Se la vivacità del suo spirito innamorava tutti coloro che l’avvicinavano, la sua bellezza non faceva di meno, e sapeva amicarsi le persone più insensibili e i cuori più duri.
 
La Regina madre non l’avrebbe lasciata un solo minuto, se il suo dovere non l’avesse tenuta presso il Re. Di tanto in tanto le buone fate venivano a vedere la Principessa e le portavano in regalo cose rarissime e vestiti sfarzosi ed eleganti, che parevano fatti per le nozze di qualche Principessa, non meno bella di Desiderata. Ma fra tutte le fate che le volevano bene, quella che le voleva più di tutte era Tulipano, la quale non rifiniva mai di raccomandare alla Regina che non le lasciasse vedere la luce del giorno prima di aver toccato i quindici anni. «La nostra sorella, quella della fontana, è vendicativa», diceva Tulipano, «avremo un bel pigliarci tutte le cure per questa fanciulla; ma se ella può, state certa che le farà del male; e per questa ragione bisogna, o signora, che voi siate vigilante, e di molto.»
 
La Regina dal canto suo prometteva di vegliare continuamente sopra una cosa di tanto rilievo: ma avvicinandosi il tempo nel quale la sua cara figlia doveva uscire dal castello, le fece fare il ritratto, e il ritratto fu portato a mostra nelle più grandi Corti dell’universo. Al solo vederlo, non vi fu Principe che non si mostrasse preso di ammirazione: ma fra gli altri ve ne fu uno che ne rimase talmente invaghito, da non sapersene più distaccare. Lo portò nel suo gabinetto, e si chiuse dentro insieme col ritratto, e parlandogli come se fosse vivo e potesse intenderlo, gli diceva le cose più appassionate di questo mondo. Il Re, non vedendo più il figliuolo, domandò che cosa facesse e come passasse il suo tempo, e perché non fosse più del suo solito buon umore.
 
Qualche cortigiano, di quelli che chiacchierano volentieri, e ve ne sono parecchi con questo vizio, gli fece intendere che c’era il caso che al Principe desse volta il cervello, perché passava le giornate intere chiuso nel suo gabinetto, e lì discorreva da sé solo, come se vi fosse stato qualcuno insieme con lui. Il Re sentì questa cosa con dispiacere: «Com’è egli possibile», diceva ai suoi confidenti, «che mio figlio perda così il giudizio? lui, che ne ha avuto sempre tanto! Voi sapete che finora esso è stato l’ammirazione di tutti, e io non vedo ne’ suoi occhi alcun segno di pazzia o di aberrazione mentale: soltanto mi pare diventato più pensieroso.
 
Bisogna che io lo interroghi da me: forse cosi arriverò a scoprire qual è la fissazione che s’è messa per il capo». Detto fatto, mandò per esso, e quindi ordinò a tutti che uscissero dalla sala. Dopo vari discorsi, ai quali il Principe non stava attento o rispondeva a rovescio, il Re gli domandò il motivo che aveva portato tanto cambiamento nelle sue abitudini e nel suo carattere. Il Principe, parendogli che gli fosse capitata la palla al balzo, si gettò ai suoi piedi, e gli disse: «Voi avete fissato di farmi sposare la Principessa Nera: in questo legame di parentela voi troverete dei vantaggi, che io non posso promettervi con quello della Principessa Desiderata; ma, o signore, io trovo in questa fanciulla tante grazie e tante attrattive, quante l’altra non ne possiede davvero».
 
«E dove le avete vedute?», chiese il Re. «Tanto dell’una che dell’altra, mi sono stati portati i ritratti», rispose il Principe Guerriero (era questo il suo nome, dacché aveva vinto tre grandi battaglie), «e vi confesso che la mia passione per la principessa Desiderata è così forte, che se voi non ritirate la parola data alla Principessa Nera, non mi rimane altro che morire: felice sempre di perdere la vita, una volta perduta la speranza di essere lo sposo di quella che amo.» «È dunque con un ritratto», riprese gravemente il Re, «che passate il vostro tempo a fare certi colloqui, che vi rendono ridicolo agli occhi di tutti i cortigiani?
 
Essi vi credono svanito il cervello, e se sapeste quello che si dice di voi, non avreste faccia di parlare a questo modo di simili ragazzate!» «Io non ho ragione di rimproverarmi una sì bella fiamma», replicò il Principe, «quando avrete veduto il ritratto di questa graziosa Principessa, son sicuro che compatirete la passione che sento per lei.» «Andate a prenderlo subito» esclamò il Re, con tanto risentimento, che dava a dividere la bizza che lo rodeva dentro. Se il Principe non avesse avuta la certezza che nessuna bellezza al mondo poteva stare a fronte di quella di Desiderata, sarebbe rimasto un po’ male.
 
Invece andò subito nel suo gabinetto, e poi tornò al Re. Il Re rimase maravigliato quanto il figlio. «Ah!», diss’egli, «mio caro Guerriero, io approvo la vostra scelta; quando alla mia Corte ci sarà una Principessa così graziosa, mi sentirò anch’io ringiovanito. Fin da questo momento mando subito degli ambasciatori dalla Principessa Nera per isciogliermi della parola data: e quand’anche dovessi tirarmi sulle braccia una guerra a morte, preferisco di farla finita una buona volta per tutte.» Il Principe baciò rispettosamente le mani del padre e gli abbracciò i ginocchi. La sua gioia era tanta, che pareva diventato un altro. Pregò e ripregò il padre a mandare degli ambasciatori non soltanto alla Principessa Nera, ma anche a Desiderata, raccomandandosi che per quest’ultima fosse scelto l’uomo più capace e più ricco del Regno, perché in questa grande occasione era necessario fare una splendida figura, e ottenere ciò che si voleva.
 
Il Re pose gli occhi su Beccafico. Era un gran signore, eloquente quanto Cicerone, e con centomila lire di rendita. Beccafico voleva un gran bene al principe Guerriero, e per andargli a genio, si fece fare il più splendido equipaggio e le più belle livree che si possa immaginare. La sua fretta per allestire i preparativi del viaggio fu grandissima, perché l’amore del Principe cresceva a occhio di giorno in giorno, ed esso era sempre lì a punzecchiarlo perché partisse. «Ricordatevi», gli diceva in tutta confidenza, «che c’è di mezzo la vita mia, e che io perdo il lume della ragione tutte le volte che penso al caso che il padre di questa Principessa potrebbe impegnarsi con qualcun altro, senza aver modo di tornare indietro: e che allora io dovrei perderla per sempre.» Beccafico lo rassicurava, non foss’altro per pigliar tempo; perché dopo le grandi spese alle quali era andato incontro, voleva almeno farsene onore.
Menò seco ottanta carrozze tutte risplendenti d’oro e di brillanti, e dipinte con certe miniature, da fare scomparire le miniature più finite che si sieno vedute mai: c’erano, per di più, altre cinquecento carrozze: ventiquattromila paggi a cavallo, vestiti come tanti principi: e il resto del corteggio non era da sfigurare in mezzo a quella magnificenza. Quando l’ambasciatore ebbe dal Principe l’udienza di congedo, questo l’abbracciò come un suo fratello, e gli disse: «Pensate, mio caro Beccafico, che la mia vita dipende dal matrimonio che andate a combinare: dite tutto quel che più sapete, e conducete con voi la Principessa, che è l’anima dell’anima mia».
 
E gli consegnò mille regali da offrirle, nei quali spiccavano in egual modo l’eleganza e la ricchezza; erano tutte allegorie amorose, incise su gemme e diamanti: orologi incrostati di carbonchi, con sopra le cifre di Desiderata: braccialetti di rubini modellati in forma di cuori: insomma, non c’era cosa alla quale non avesse pensato, per trovare il modo di piacerle. L’ambasciatore portava seco il ritratto del Principe, dipinto con tanta bravura e maestria, che non gli mancava nemmeno la parola, e faceva dei complimenti pieni di grazia e di brio.
 
È vero che non sapeva rispondere a tutto quello che gli si domandava: ma di questo non ce n’era un gran bisogno. Beccafico, per la parte sua, promise al Principe che avrebbe fatto l’impossibile per vederlo contento, e soggiunse che aveva con sé moltissimo denaro: e caso mai gli avessero negata la Principessa, avrebbe trovato il mezzo di comprare qualcuna delle sue cameriere e l’avrebbe rapita. «Ah!», esclamò il Principe, «non lo dite neanche per celia: son sicuro che ella si chiamerebbe offesa da un modo di fare così poco rispettoso!» Beccafico non stette a dir altro, e partì.
 
La gran diceria del suo viaggio arrivò prima di lui: il Re e la Regina ne furono lietissimi, perché stimavano molto il suo sovrano e conoscevano gli atti di valore del Principe Guerriero, e, in particolar modo, il suo merito personale; motivo per cui non avrebbero potuto trovare un partito più degno per la loro figlia, neanche a cercarlo apposta nelle cinque parti del mondo. Fu apprestato un palazzo per alloggiarvi Beccafico, e vennero dati gli ordini perché tutta la Corte si mostrasse in abito di gran gala.
 
Il Re e la Regina avevano pensato di far vedere all’ambasciatore la Principessa Desiderata: ma la fata Tulipano venne a trovare la Regina e le disse: «Guardatevi bene, Regina, da menare Beccafico dalla nostra figliuola», era solita di chiamarla così, «non conviene che egli la veda tanto presto e non bisogna mandarla al Re, che l’ha domandata in sposa, finché non abbia compiti i quindici anni! perché, badate bene a quello che vi dico, se ella esce fuori prima del tempo, si troverà a sentirsi cascare addosso qualche grosso malanno». La Regina abbracciò la buona Tulipano: le promise di darle retta, e senza perder tempo andarono insieme dalla Principessa. Intanto arrivò l’ambasciatore. Il suo seguito durò ventitré ore a passare, perché egli aveva seicentomila muli, colle sonagliere e i ferri d’oro e gualdrappe di velluto e di broccato ricamate in perle.
 
Lungo la strada c’era un pigia-pigia da non farsene idea, e tutti correvano per vederlo. Il Re e la Regina gli andarono incontro, tanto erano contenti della sua venuta. Salteremo a pié pari le cose che egli disse, i complimenti che si scambiarono, perché ci vuol poco a figurarseli: ma quando egli domandò di presentare i suoi omaggi alla Principessa, rimase molto male nel sentirsi negata la grazia. «Signor Beccafico», disse il Re, «se vi ricusiamo una cosa che pare così giusta, credetelo, non è un capriccio: e perché ne siate persuaso, bisogna raccontarvi la strana avventura di nostra figlia. Una fata, dal giorno che nacque, la prese a noia e la minacciò di mille guai, se ella avesse veduto la luce del sole prima di toccare i quindici anni: noi dunque la teniamo chiusa in un palazzo, che ha i suoi quartieri più belli sotto terra.
 
Era nostra idea di menarvici ma la fata Tulipano ci ha comandato di non fare nulla.» «Come mai, Sire!», replicò l’ambasciatore, «e io dunque dovrò avere il dispiacere di tornarmene indietro senza di lei? Voi l’accordaste al Re mio signore per il suo figlio: ella è aspettata con vivissima impazienza: e sarà possibile che voi vi lasciate imporre da certe fanciullaggini, come sono le predizioni delle fate? Ecco qui il ritratto del Principe Guerriero, che ho l’ordine di presentarvi: e il ritratto è così somigliante, che quando lo guardo mi par di vedere le stesso Principe in persona.» E cosi dicendo, lo scoprì. Il ritratto, che era stato ammaestrato soltanto per parlare alla Principessa, disse: «Bella Desiderata, non potete figurarvi con quanto ardore io vi attenda! venite subito alla nostra Corte, e abbellitela con quelle grazie che vi fanno unica al mondo!».
 
Il ritratto non disse altro: e il Re e la Regina rimasero tanto meravigliati, che pregarono Beccafico a darglielo, per portarlo a far vedere alla Principessa. A lui non gli parve vero, e consegnò subito il ritratto nelle loro mani. La Regina non aveva mai fatto cenno alla figlia di ciò che accadeva in Corte; ed anzi aveva proibito alle dame che le stavano intorno di dirle la più piccola cosa sull’arrivo dell’ambasciatore: ma esse non l’avevano ubbidita, e la Principessa sapeva già che si stava combinando un gran matrimonio; peraltro era tanto prudente, da fare in modo che la madre non si avvedesse di nulla. Quando questa le ebbe mostrato il ritratto del Principe, che parlava, e che le fece un complimento non so se più tenero o più grazioso, ella rimase molto sorpresa, perché non aveva mai veduto nulla di simile; e la bella fisonomia del Principe, l’aspetto sveglio e la regolarità delle fattezze non la stupivano meno delle cose che aveva dette il ritratto parlante.
 
«Vi dispiacerebbe», le disse la Regina, «di avere uno sposo che somigliasse a questo Principe?» «Signora», ella rispose, «non tocca a me a scegliere: sarò sempre contenta di colui che vi piacerà destinarmi.» «Ma pure», insisté la Regina, «se la sorte cadesse su lui, non vi stimereste felice?» Ella arrossì, abbassò gli occhi e non rispose nulla. La Regina la prese fra le braccia e la baciò più e più volte, né poté frenarsi dal versare alcune lacrime, pensando che stava sul punto di doverla perdere, perché non le mancavano oramai che tre mesi soli a compiere i quindici anni: e nascondendole il suo dispiacere, la mise al fatto di tutto quanto la riguardava nell’ambasciata di Beccafico: e fra le altre cose, le dette anche i regali che erano stati portati per lei. Essa li ammirò: lodò con finezza di gusto le cose più singolari; ma ogni pochino i suoi occhi si divagavano, per andare a posarsi sul ritratto del Principe, con un diletto fin’allora non provato mai.
 
L’ambasciatore, vedendo che perdeva il suo tempo a insistere perché gli dessero la Principessa, e che si contentavano soltanto di promettergliela, ma in modo solenne da non poterne dubitare, si trattenne pochi giorni presso il Re, e tornò per la posta a render conto al padrone del suo operato. Quando il Principe venne a sapere che la sua Desiderata non poteva averla prima di tre mesi, dette in tali sfoghi di dolore, che rattristarono tutta la Corte: non dormiva più: non mangiava nulla e diventò tristo e pensieroso: perse il suo bel colore: passava le giornate intere sdraiato su un canapè, nel suo gabinetto, a contemplare il ritratto della Principessa: le scriveva ogni cinque minuti e porgeva le lettere al ritratto, come se questo le sapesse leggere.
 
Alla fine le sue forze s’indebolirono a poco a poco, e cadde gravemente malato: né ci fu bisogno di medico o di chirurgo per indovinare la cagione del male. Il Re si disperava; egli amava teneramente suo figlio, e si trovava sul punto di perderlo. Che afflizione per lui! Né vedeva rimedio alcuno che valesse a salvargli il Principe, il quale non domandava altro che la sua Desiderata: senza di essa non gli restava che morire. In faccia alla gravità del caso egli prese la risoluzione di andare a trovare il Re e la Regina, che gli avevano promesso la figlia, affine di scongiurarli a muoversi a compassione dello stato in cui s’era ridotto il Principe, e a non mandare più in lungo le nozze; le quali non si sarebbero fatte più, quand’essi si fossero incaponiti a volere aspettare che la Principessa avesse compito i quindici anni.
 
Questo passo era straordinario per un Re, ma sarebbe stata una cosa anche più straordinaria se egli avesse lasciato morire il figlio, che gli era più caro delle pupille degli occhi. Peraltro s’inciampò in una difficoltà insormontabile: e questa era l’età molto avanzata del Re, la quale non gli acconsentiva se non di viaggiare in portantina: e questa cosa si combinava male coll’impazienza del figlio: per cui egli mandò per la posta il suo fido Beccafico e scrisse delle lettere commoventissime per impegnare il Re e la Regina a contentarlo nei suoi desideri. Intanto Desiderata non provava minor piacere a contemplare il ritratto del Re, che questi non provasse a guardare quello di lei.
 
Ogni tantino ella andava nella stanza dove era stato messo, e sebbene s’ingegnasse di celare i sentimenti del suo cuore, c’era chi sapeva indovinarli; e, fra gli altri, Viola-a-ciocche e Spinalunga, che erano le sue damigelle d’onore, si accorsero di quella specie d’irrequietezza che cominciava a tormentarla. Viola-a-ciocche l’amava di sincero amore e l’era fidatissima; mentre Spinalunga aveva sempre covato una gelosia segreta per le belle virtù e per lo splendido stato della Principessa. La madre di Spinalunga aveva allevata la Principessa, e dopo essere stata sua governante, era divenuta sua dama d’onore.
 
Ella dunque avrebbe dovuto amarla, come la cosa più cara di questo mondo: ma idolatrando essa la propria figlia, e vedendo l’odio di questa per la bella Principessa, non poteva, neanch’essa, volerle bene. L’ambasciatore, che era stato spedito alla Corte della Principessa Nera, non vi trovò lieta accoglienza, subito che si venne a sapere la bella parte che doveva fare. Questa negra era la creatura più vendicativa che possa immaginarsi; e le parve di non essere trattata troppo cavallerescamente a sentirsi dire sul viso, dopo le promesse e gl’impegni presi, che essa rimaneva ringraziata e messa in libertà.
 
Ella aveva veduto il ritratto del Principe, e s’era fitta in capo di voler lui a ogni costo: perché le donne nere, quando si ragiona d’amore, diventano le donne più ostinate del mondo. «Come, signor ambasciatore», ella disse, «forse il vostro Re non mi crede abbastanza ricca o abbastanza bella? Girate per i miei Stati e difficilmente ne troverete de’ più vasti; entrate nel mio tesoro reale e vedrete tant’oro, quanto non se n’è mai cavato da tutte le miniere del Perù; date finalmente un’occhiata al color morato del mio viso, alle mie labbra tumide, al mio naso schiacciato, eppoi ditemi se una donna, per esser bella, non bisogna che sia fatta così!» «Signora», rispose l’ambasciatore, il quale aveva una gran paura d’essere bastonato, peggio che in Turchia, «io biasimo il procedere del mio Sovrano, per quanto è lecito di farlo a un suddito: e se il cielo mi avesse dato il più bel trono dell’universo, saprei ben io la persona alla quale offrirlo!» «Queste parole vi salvano la vita», ella disse, «avevo fissato di cominciare da voi la mia vendetta; ma mi sarebbe parsa un’ingiustizia, perché in fin de’ conti non siete voi la cagione dello sleale procedere del vostro Principe: andate, e ditegli da parte mia che mi fa un vero regalo a sciogliersi con me, perché io non me la sono mai detta con le persone poco di buono.»
 
L’ambasciatore, che non vedeva l’ora di essere congedato, prese queste parole a volo; e via a gambe. Ma la Negra era troppo stizzita contro il Principe Guerriero, per potergli perdonare. Salì sopra un cocchio d’avorio tirato da sei struzzi, i quali facevano dieci miglia l’ora. Andò al palazzo della fata della fontana, che era la sua comare e la migliore amica che avesse: e dopo averle raccontata la sua avventura, la pregò colle braccia in croce perché l’aiutasse a pigliarsi una vendetta.
 
La fata si lasciò commuovere dal dolore della figlioccia; guardò nel libro, dove si dice tutto, e così venne subito a sapere che il Principe Guerriero lasciava la Principessa Nera per motivo di Desiderata, che egli amava perdutamente, e che era stato perfino malato dalla gran passione di non poterla vedere. Bastò questa cosa per riaccendere nel cuore alla fata quella collera, che oramai era quasi spenta; tanto che si poteva sperare, che non avendo più veduto la Principessa dal giorno che nacque, non avrebbe più pensato a farle del male, senza gl’incitamenti di quella brutta moraccia. «Come!», gridò la fata, «dunque questa sciaguratissima Desiderata s’è messa in capo di farmi sempre dei dispetti? No, no, vezzosa Principessa: no, carina mia; non soffrirò mai che ti si faccia un affronto. Il cielo e tutti gli elementi piglieranno parte in questa cosa.
 
Torna pure a casa e fidati alla parola della tua buona comare.» La Principessa la ringraziò e le fece dei doni di frutte e di fiori, che furono moltissimo graditi. Intanto l’ambasciatore Beccafico si avanzava a spron battuto verso la città, dove stava il padre di Desiderata: e appena giunto andò a gettarsi ai piedi del Re e della Regina; versò un torrente di lacrime e disse con un linguaggio da intenerire i sassi, che il Principe Guerriero sarebbe morto, se gl’indugiavano il piacere di vedere la Principessa: che oramai non mancavano più che tre soli mesi per compire i quindici anni; che non c’era pericolo che in un tempo così corto potesse accadere qualche disgrazia: che si prendeva la libertà di rammentare che questa eccessiva credulità per certe fandonie faceva torto alla maestà reale: in una parola, tanto seppe dire e tanto seppe fare, che finì col persuaderli tutti e due. Prova ne sia che anche essi s’intenerirono e piansero, ripensando al pietoso stato in cui s’era ridotto il Principe: e finirono col dire che pigliavano qualche giorno di tempo prima di dargli una risposta di benestare.
 
Esso allora replicò che non poteva concedere che poche ore, perché il suo padrone era oramai ridotto al lumicino, e s’era fitto in capo che la Principessa non lo potesse soffrire e fosse essa medesima che studiasse tutti gli ammennicoli per rimandare la partenza dall’oggi al domani. Allora gli fu detto che nella serata avrebbe saputo quello che si poteva fare. La Regina corse subito al palazzo della sua cara figlia, e le raccontò ogni cosa. Desiderata sentì un gran dolore: ebbe una stretta al cuore e svenne. Così la Regina poté conoscere tutta la passione del suo amore per il Principe. «Non ti dar tanto alla disperazione, bambina mia», ella le disse, «tu hai la virtù di poterlo guarire: la sola cosa che mi tenga in pensiero, sono le minacce fatte dalla fata della fontana al momento della tua nascita.» «Voglio sperare, o signora», ella riprese, «che ci debba essere qualche ripiego, per ingannare questa fata malandrina.
 
Non potrei, per dirne una, partire in una carrozza tutta chiusa, dove non potessi vedere la luce del giorno? questa carrozza l’aprirebbero soltanto la notte, per darci da mangiare, e così arriverei felicemente a casa del Principe Guerriero.» Il ripiego piacque molto alla Regina: ne parlò al Re, il quale lo approvò: e così mandarono a chiamare Beccafico, perché andasse subito a Corte, dove gli dettero per cosa sicura che la Principessa sarebbe partita prestissimo; e gli dissero di recarsi intanto a dare la buona novella al suo padrone, aggiungendo che per amor di far presto, avrebbero tralasciato di farle il corredo e i ricchissimi vestiti, quali si addicevano al suo grado di Principessa.
 
L’ambasciatore, che non capiva nella pelle dalla contentezza, si gettò di nuovo ai piedi delle loro Maestà per ringraziarle, e partì subito senza aver veduto la Principessa. Non c’è dubbio che ella avrebbe sentito un gran dolore nello staccarsi dal padre e dalla madre, se fosse stata meno viva in lei la prevenzione a favore del Principe: ma si danno nella vita certi sentimenti così prepotenti, che fanno tacere tutti gli altri. Le prepararono una carrozza foderata al di fuori di velluto, ornato di grandi borchie d’oro; e al di dentro di broccato ricamato d’argento e color di rosa.
 
Non vi erano cristalli; la carrozza era molto grande, tutta chiusa come una scatola; e uno dei primi signori del Regno teneva in custodia le chiavi, che aprivano la serratura degli sportelli. E perché un seguito troppo numeroso poteva essere d’impiccio, furono scelti pochi ufficiali per accompagnarla: e dopo averle date le più belle gemme del mondo e alcuni ricchissimi vestiti, e dopo gli addii, che fecero quasi soffocare dai pianti e dai singhiozzi il Re, la Regina e tutta la Corte, la chiusero nella carrozza, insieme alle sue dame d’onore Viola-a-ciocche e Spinalunga.
 
Bisogna ricordarsi che Spinalunga non voleva punto bene a Desiderata; ma invece ne voleva moltissimo al Principe Guerriero, del quale aveva veduto il ritratto parlante. Il dardo che l’aveva ferita era così acuto, che, nel partire, disse a sua madre che morirebbe di dolore, se accadesse il matrimonio della Principessa, e che se voleva salvarla dalla sua tristissima sorte, bisognava trovasse il verso di mandare all’aria ogni cosa. Sua madre, che era dama d’onore, le disse di darsi pace, che avrebbe cercato il modo di consolarla e di farla felice.
 
Quando la Regina fu sul punto di staccarsi dalla sua figlia, che partiva, la raccomandò, non si può dir quanto, a questa femmina trista. «Questo prezioso deposito», diss’ella, «lo confido alle vostre mani. Mi è più caro della vita! abbiate cura della salute di mia figlia, e soprattutto guardate bene che non vegga mai la luce del giorno. Sarebbe finita per lei! Voi sapete da quali sciagure è minacciata, e però ho fissato coll’ambasciatore del Principe Guerriero che, fino a tanto che non abbia quindici anni compiti, la terranno in un castello, dove non possa vedere altra luce che quella dei lampadari.»
La Regina affogò di regali questa dama, per impegnarla a stare attaccata fedelmente alle sue istruzioni, ed ella dal canto suo promise di vegliare alla conservazione della Principessa, e di renderle minutissimo conto di tutto, appena fossero arrivate. A questo modo il Re e la Regina, fidandosi di averla raccomandata bene, non ebbero alcun pensiero per la loro cara figlia, e così sentirono meno il dolore del distacco; ma Spinalunga, che dagli ufficiali incaricati di aprire tutte le sere la carrozza per servire la cena alla Principessa, aveva saputo che si avvicinavano alla città dov’erano aspettate, cominciò a metter su la madre perché compisse il suo tristo disegno, prima che il Re e il Principe venissero loro incontro e mancasse il tempo di fare il gran colpo. Cosicché, quando fu circa l’ora del mezzogiorno e quando i raggi del sole saettavano con maggior forza, ella tagliò di netto con un gran coltello fatto apposta, che aveva portato seco, l’imperiale della carrozza dove stavano rinserrate.
 
Fu quella la prima volta che la Principessa Desiderata vide la luce del giorno. Appena l’ebbe vista, mandò un sospiro e si precipitò fuori della carrozza, trasmutata in una Cervia bianca: e a quel modo si messe a correre fino alla vicina foresta, dove si nascose in un luogo folto e oscuro, per potervi piangere, senza essere vista da alcuno, le grazie, i bei lineamenti e la elegante figura, che aveva perduta.
 
La fata della fontana, che dirigeva questa strana avventura, vedendo che tutti quelli che accompagnavano la Principessa si davano un gran moto, gli uni per seguirla, gli altri per correre alla città e fare avvertito il Principe Guerriero della disgrazia accaduta, messe sottosopra cielo e terra: talché i lampi e i tuoni impaurirono anche i più coraggiosi: e in grazia del suo portentoso sapere, riuscì a trasportare quelle persone molto lontano di lì, togliendole in questo modo da un luogo, dove la loro presenza non le faceva punto piacere.
 
Le sole che restassero, furono la dama d’onore, Spinalunga e Viola-a-ciocche. Quest’ultima corse dietro alla sua padrona, facendo risuonare il bosco del nome di lei e de’ suoi acuti lamenti. Le altre due, contentissime di vedersi libere, non persero un minuto per fare quanto avevano già fissato. Spinalunga s’infilò i vestiti di Desiderata. Il manto reale, che doveva servire per le nozze, era d’una ricchezza da non potersi dire, e la corona aveva dei diamanti grossi due o tre volte il pugno della mano. Il suo scettro era d’un rubino d’un sol pezzo: e il globo che teneva nell’altra mano, una perla grossa quanto il capo d’un bambino.
 
Tutte cose bellissime a vedersi e pesantissime a portarsi addosso: ma bisognava non lasciare indietro nessuno degli ornamenti reali, una volta che Spinalunga voleva farsi credere la Principessa. In quest’abbigliamento, Spinalunga, seguita dalla madre che le reggeva lo strascico, si avviò verso la città. La falsa Principessa camminava con passo maestoso. Ella era sicura che sarebbe venuta gente a incontrarla; difatti, non avevano ancora fatta molta strada, che scorsero un drappello di cavalleria, e in mezzo due portantine luccicanti di oro e di gemme, portate da piccoli muli, ornati di lunghi pennacchi verdi (perché il verde era il colore favorito della Principessa).
 
Il Re che stava in una portantina, e il Principe malato nell’altra, non sapevano che cosa pensare di queste dame, che venivano incontro a loro. I più curiosi galopparono innanzi, e dalla ricchezza dei vestiti giudicarono che dovessero essere due signore di gran riguardo. Scesero da cavallo e le salutarono con molto rispetto. «Fatemi la grazia» disse loro Spinalunga «di sapermi dire chi c’è dentro quelle portantine.» «Signora», essi risposero, «c’è il Re e il Principe suo figlio, che vanno incontro alla Principessa Desiderata.» «Allora vi prego», continuò ella, «di andare a dir loro che la Principessa è qui. Una fata, che è nemica della mia felicità, ha sparpagliato e disperso tutti coloro che mi accompagnavano a furia di tuoni, di lampi e di prodigi paurosi: ma ecco qui la mia dama d’onore, la quale è incaricata di presentare le lettere del Re mio padre e di tenere in custodia le mie gioie.» I cavalieri, a queste parole, baciarono subito il lembo della sua veste e andarono di corsa a dire al Re che la Principessa si avvicinava. «Come!», egli esclamò, «ella se ne viene a piedi e di pieno giorno?»
 
Essi gli raccontarono ciò che ella aveva detto loro. Il Principe, che smaniava d’impazienza, li chiamò, dicendo loro con gran premura: «Non è un prodigio di bellezza? un vero miracolo? una Principessa senza confronti?». Nessuno rispose: per cui il Principe ne rimase stupito. «Si vede proprio», egli riprese, «che dovendo dirne troppo bene, preferite piuttosto non dir nulla.» «Signore, voi la vedrete da voi», disse il più ardito di essi, «sarà che lo strapazzo del viaggio l’abbia un po’ trasfigurita.» Il Principe rimase di stucco: se fosse stato più in forze, si sarebbe buttato giù dalla portantina per correre ad appagare la sua impazienza e la sua curiosità.
 
Il Re scese a piedi, e avanzandosi con tutto il corteggio raggiunse la falsa Principessa. Vederla, gettare un grido e tirarsi indietro di qualche passo, fu un punto solo. «Chi vedo mai?», egli disse, «ma questa è una vera perfidia.» «Sire», disse la dama d’onore avanzandosi a faccia fresca, «ecco qui la Principessa Desiderata con le lettere del Re e della Regina. Io rimetto pure nelle vostre mani la cassetta delle gioie, che mi fu consegnata sul punto di partire.» Il Re serbò un silenzio sinistro e cupo; e il Principe, appoggiandosi al braccio di Beccafico, si avvicinò a Spinalunga.
 
Dio degli Dei! come dové egli restare, vedendo una fanciulla di una statura così sperticata da far paura? Essa era così lunga, che gli abiti della Principessa le toccavano appena il ginocchio; secca come un uscio; col naso che somigliava al becco ricurvo di un pappagallo, e rosso e lustro in cima come un peperone. Denti più neri e più disuniti di quelli, non se n’è visti mai: in una parola, ell’era tanto brutta, quanto Desiderata era bella. Il Principe, che aveva sempre dinanzi agli occhi l’immagine della sua cara Principessa, al vedere questa brutta befana rimase imbietolito: non aveva fiato né per muoversi né per dire una mezza parola. Soltanto, dopo averla guardata un poco cogli occhi fuor della testa, si volse al Re ed esclamò: «Io sono tradito! Il maraviglioso ritratto sul quale ho vincolata la mia libertà non ha che veder nulla con la persona che ci è stata inviata. Hanno preteso ingannarmi? ci sono riusciti: ma a me mi costerà la vita».
 
«Che cosa intendete dire, o signore?», disse Spinalunga. «Chi è che ha cercato di ingannarvi? sappiate, o signore, che sposando me, non vi hanno ingannato davvero.» Tanta sfacciataggine e tanta arroganza non aveva esempio. Per parte sua, anche la dama d’onore rincarava la dose: «Oh! mia bella Principessa», esclamava, «dove siamo mai capitate? È forse in questo modo, che si accoglie una Principessa par vostro?
 
Quale incostanza! e che razza di procedere!…Il Re vostro padre saprà farsene render ragione». «Tocca a noi farsi rendere ragione», ribatté il Re, «egli ci aveva promesso una bella Principessa e ci manda invece un sacco d’ossi, una mummia da fare scappare dallo spavento: ora non mi fa più specie che egli abbia tenuto nascosto questo bel tesoro per quindici anni di seguito: aspettava che capitasse il merlotto: e la disgrazia è capitata su noi: ma staremo a vedere come finirà.» «Ma quale insolenza!», esclamò la falsa Principessa.
 
«Quanto sono sventurata di esser venuta qui, sulla parola di questa razza di gente! Guardate un po’ il gran delitto di essersi fatta ritrattare un po’ più bella del vero! Non sono forse cose che accadono tutti i giorni? Se per queste piccole marachelle i Principi rimandassero indietro le loro fidanzate, poche ma poche bene se ne mariterebbero.» Il Re e il Principe, colla bizza fino alla punta dei capelli, non si degnarono risponderle: salirono ciascuno nella loro portantina, mentre una guardia del corpo, senza tanti complimenti, messe in groppa al cavallo, dietro di sé, la Principessa: la dama d’onore ebbe lo stesso trattamento: e così furono menate in città, dove per ordine del Re furono chiuse nel Castello delle Tre Punte.
 
Il Principe Guerriero restò così sbalordito da questo colpo, che tutta la pena gli si rinserrò in fondo al cuore. Quand’ebbe fiato per parlare, che cosa mai non disse del suo tristo destino? Egli era sempre innamorato come prima, ma non gli restava per oggetto della sua passione che un bugiardo ritratto.
 
Tutte le sue speranze andate in fumo: tutte le sue illusioni intorno alla Principessa Desiderata, svanite! Non c’era disperazione da potersi agguagliare alla sua. La Corte gli era divenuta un soggiorno insoffribile, e pensò, appena ristabilitosi un po’ in salute, di fuggirsene di nascosto in un luogo solitario e passarvi tutto il resto della sua misera vita. Confidò questa sua idea soltanto al fido Beccafico, nella certezza che questi lo seguirebbe dappertutto: e lo scelse apposta per avere una persona colla quale potersi sfogare più liberamente che con chiunque altro, del brutto tiro che aveva dovuto patire.
 
Appena si sentì un po’ meglio, partì dalla Corte, lasciando sulla tavola del suo gabinetto una lunga lettera pel Re, colla quale lo avvertiva che sarebbe tornato appena avesse ritrovato un po’ di quiete di spirito: ma intanto lo scongiurava di pensare alla vendetta di tutti e due, e di tener sempre in prigione quello spauracchio di Principessa. È facile immaginarsi il dolore del Re nel ricevere questa lettera. Credette morir di dolore per la lontananza di un figlio, così adorato.
 
Mentre tutti s’ingegnavano di consolarlo, il Principe e Beccafico facevano strada: finché in capo a tre giorni si trovarono in una gran foresta, così oscura per la spessezza delle piante e così seducente per la freschezza dell’erbe e per i ruscelletti e i fili d’acqua, che scorrevano in tutti i versi, che il Principe, rifinito dal lungo cammino, non essendosi ancora rimesso perbene in forze smontò da cavallo e si sdraiò malinconicamente per terra, reggendosi il capo con la mano, e per la debolezza avendo appena fiato di parlare. «Signore», gli disse Beccafico, «mentre vi riposate un poco, io anderò in cerca di qualche frutto perché possiate rinfrescarvi: e intanto darò un’occhiata per farmi un’idea del luogo dove ci troviamo.»
 
Il Principe non rispose, ma gli fece segno col capo, come per dirgli: «Sta bene». Egli è ormai un bel pezzo che abbiamo lasciata la Cervia nel bosco, voglio dire l’incomparabile Principessa. Ella pianse, come può piangere una cervia all’ultima disperazione, quando si accorse delle sue nuove forme, specchiandosi nell’acqua di una fontana. «Come! e son io, proprio io?», essa diceva, «ed è per l’appunto oggi, che mi trovo ridotta a subire la più trista avventura che possa mai toccare a un’innocente Principessa come me, per capriccio e colpa delle fate? E quanto dovrà durare questa metamorfosi?
 
E dove nascondermi, perché i leoni, gli orsi e i lupi non mi divorino? Come potrò io cibarmi d’erba?» E via di questo passo, faceva a se stessa mille domande, e provava il più acerbo dolore che mai si possa. Se qualche cosa poteva consolarla, era il vedere che essa era una bella cervia, nello stesso modo che era stata una bella Principessa. Spinta dalla fame, Desiderata si messe a mangiar l’erba con molto appetito: e non sapeva intendere come questa cosa potesse stare.
 
Quindi si accoccolò sul muschio: intanto si fece notte, senza addarsene: ed essa la passò in mezzo a spaventi così terribili, da non poterseli figurare. Sentiva le bestie feroci a pochi passi di distanza; e scordandosi di esser Cervia, provava ad arrampicarsi su per gli alberi. I primi chiarori del giorno la rassicurarono un poco: ammirò la levata del sole: e il sole gli pareva così maraviglioso, che non finiva mai di guardarlo. Tutte le grandi cose, che ne aveva sentite dire, le sembravano molto inferiori a quel che vedeva. Era questo l’unico svago che avesse in quel luogo deserto.
 
Per parecchi giorni vi restò sola sola. La fata Tulipano, che aveva sempre voluto bene a questa Principessa, si appassionava di cuore per la sua disgrazia; ma d’altra parte, essa era molto indispettita che tanto la Regina come la figlia avessero fatto così poco conto de’ suoi consigli: perché, se vi ricordate, la buona fata aveva ripetuto loro più volte che se la Principessa fosse partita prima de’ quindici anni compiti, sarebbe andata incontro a qualche malanno. A ogni modo non volle lasciarla in balìa alle ire della fata della fontana, e fu essa stessa che guidò i passi di Viola-a-ciocche verso la foresta, perché questa fida confidente potesse consolarla nella sua terribile sventura.
 
La bella Cervia se ne andava, un passo dietro l’altro, lungo un fiumiciattolo, quando Viola-a-ciocche, non avendo più gambe per camminare, si coricò per pigliare un po’ di riposo. Tutta afflitta, stava almanaccando colla testa da qual parte volgersi per potersi imbattere nella sua cara Principessa. Appena la Cervia l’ebbe vista, fece tutto un salto, e passata dall’altra parte del fiume, che era abbastanza largo e profondo, venne a gettarsi addosso a Viola-a-ciocche e le fece un’infinità di carezze. Ella rimase stupita, non sapendo se le bestie di quel luogo avessero una simpatia particolare per gli uomini tanto da diventare umane, o se la Cervia la conoscesse; perché a dirla tale e quale, non accade tutti i giorni di vedere una Cervia che faccia con tanto garbo e con tanta cortesia gli onori della foresta.
 
Dopo averla guardata attentamente, si accorse con molta maraviglia che da’ suoi occhi sgorgavano alcuni grossi lacrimoni; per cui non ebbe più l’ombra del dubbio che quella fosse la sua cara Principessa. Le prese le zampe e gliele baciò collo stesso rispetto e colla medesima tenerezza, come le avrebbe baciato le mani. Provò a parlare e s’avvide che la Cervia la intendeva benissimo: ma non poteva risponderle; e allora le lacrime e i sospiri raddoppiarono da una parte e dall’altra. Viola-a-ciocche promise alla sua padrona che non l’avrebbe abbandonata mai: la Cervia le fece mille piccoli segni col capo e cogli occhi, per farle intendere che ne sarebbe contentissima, e che questa cosa la consolerebbe in parte delle sue pene. Erano state insieme tutta la giornata, quando la Cervietta ebbe paura che la sua fida Viola-a-ciocche potesse aver bisogno di mangiare, e la menò in un certo punto della foresta, dove aveva veduto alcune frutta selvatiche ma saporite.
 
Viola-a-ciocche ne mangiò moltissime, perché si sentiva morire dalla fame; ma quand’ebbe finita la sua cena, fu presa da una grande inquietudine, perché non sapeva dove si sarebbero ricoverate per dormire. Restare in mezzo alla foresta, esposte a tutti i pericoli, non era nemmeno da pensarci. «Non avete paura, graziosa Cervia», ella disse, «a passare la nottata qui?» La Cervia alzò gli occhi al cielo e sospirò. «Ma pure», continuò Viola-a-ciocche, «voi avete già percorso una parte di questa vasta solitudine: non vi son, per caso, punte capanne, un carbonaio, un taglialegna, un eremitaggio?»
 
La Cervia fece col capo di no. «Oh Dei!», esclamò Viola-a-ciocche, «domani non sarò più viva: quand’anche avessi la sorte di scansare le tigri e gli orsi, son sicura che basterebbe la paura per uccidermi. E non crediate, mia cara Principessa, che mi dispiaccia per me di perdere la vita: me ne dispiace per voi. Povera me! Lasciarvi in questi luoghi, senza un’anima che vi consoli! Si può immaginare più trista cosa?» La Cervietta si mise a piangere: ella singhiozzava come potrebbe fare una persona. Le sue lacrime toccarono il cuore alla fata Tulipano, che in fondo l’amava teneramente e che, nonostante la sua disobbedienza, aveva sempre vegliato alla conservazione di lei: per cui, apparendole tutt’a un tratto, le disse: «Non ho nessuna voglia di farvi dei rimproveri: lo stato in cui vi trovate mi fa troppa pena».
 
Cervietta e Viola-a-ciocche la interruppero, gettandosi ai suoi ginocchi: la prima le baciava le mani e le faceva le carezze più graziose di questo mondo: mentre l’altra la scongiurava a muoversi a pietà della Principessa, rendendole le sue sembianze naturali. «Ciò non dipende da me», disse Tulipano; «colei che le fece tanto male ha molto potere; ma io abbrevierò il tempo della sua penitenza: e per addolcirla un poco, appena si farà notte ella lascerà le spoglie di Cervia; ma ai primi chiarori dell’alba, bisognerà che le riprenda daccapo e corra per la pianura e per la foresta, come le altre Cervie.»
 
Cessare di essere Cervia durante la notte, era già qualcosa, anzi molto: e la Principessa dette a dividere la sua allegrezza a furia di salti e di capriole, che messero di buon umore la fata. «Pigliate», diss’ella, «per questa viottola, e troverete una capanna abbastanza decente per questi luoghi campestri.»
 
Ciò detto, sparì. Viola-a-ciocche obbedì, e insieme con la Cervia entrò nella viottola, che era lì a pochi passi, e trovarono una vecchia seduta sulla soglia della porta, che stava ultimando un canestro di giunchi. Viola-a-ciocche la salutò: «Vorreste voi, mia buona nonna», le disse, «darmi un po’ d’ospitalità insieme a questa Cervia?». «Ma sì, figlia mia, che ti ospiterò volentieri: entra pure colla tua Cervia.» E detto fatto, le menò subito in una graziosa camerina, che aveva le pareti e l’impiantito di tavole di ciliegio: ci erano due letti di tela bianca: biancheria finissima, e ogni altra cosa così semplice e linda, che la Principessa ha raccontato dopo di non aver mai trovato nulla che fosse più di suo gusto.
 
Quando fu notte buia Desiderata cessò di essere cervia: abbracciò più di cento volte la sua cara Viola-a-ciocche; la ringraziò per l’affezione che l’aveva impegnata a seguire la sua fortuna, e le promise di farla felice, appena la sua penitenza fosse finita. La vecchia venne a bussare con molto garbino alla porta e, senza entrare, dette a Viola-a-ciocche dei frutti squisiti, de’ quali ne mangiò anche Desiderata, e con un grande appetito: quindi andarono a letto, ma appena giorno, Desiderata essendo ritornata Cervia, cominciò a grattare coi piedi la porta, perché Viola-a-ciocche le aprisse.
 
All’atto di separarsi, tutte e due si scambiarono i segni di un vivo dispiacere, sebbene il distacco fosse di poche ore: e la Cervia, lanciatasi nel fitto del bosco, cominciò a correre, secondo il suo solito. Mi par di aver detto che il Principe Guerriero si era fermato nella foresta, e che Beccafico girava in qua e in là, in cerca di frutti. Era già molto tardi, quand’esso capitò alla casina della buona donna, di cui si è già parlato. Esso si presentò con modi molto cortesi e le chiese quelle cose che gli abbisognavano per il suo padrone.
 
La vecchina fece in un lampo a empirgli un corbello di frutta, e glielo dette dicendogli: «Ho paura che se passate la notte qui, a cielo scoperto, vi capiterà qualche disgrazia: io non posso offrirvi che una povera stanzuccia: se non altro, sarete al sicuro dai leoni». Beccafico la ringraziò, e le disse che era in compagnia di un amico, e che andava a proporgli di andare a casa di lei: difatti seppe pigliare il Principe così per il suo verso, che questi si lasciò menare alla casa della buona donna. La trovarono, che era ancora sulla porta: ed essa, in punta di piedi, li menò in una camera, compagna a quella della Principessa, e tutte e due così accosto l’una all’altra, che erano separate da un semplice tramezzo.
 
Il Principe passò la notte inquietissimo, secondo il solito: ma appena il sole gli batté nell’imposte della finestra, si alzò, e per isvagarsi dall’uggia che aveva addosso andò nella foresta, dicendo a Beccafico di non seguirlo. Camminò una mezza giornata, senza neanche sapere dove andasse; finché capitò in un praticello, abbastanza grande, tutto coperto d’alberi e d’erba di muschio. In quel punto sbucò fuori una Cervia, ed egli non poté resistere alla voglia d’inseguirla, perché la caccia era la sua passione prediletta: sebbene ora non fosse più come una volta, dacché aveva nel cuore quest’altra spina.
Pur nondimeno si messe dietro alla Cervia, e di tanto in tanto le tirava coll’arco dei dardi, che la gelavano dalla paura, quantunque non le facessero il più piccolo male: perché bisogna sapere che la sua amica Tulipano vegliava in sua difesa: e non ci voleva di meno della mano soccorritrice di una fata per salvarla dalla morte, sotto una pioggia di colpi così bene assestati. Non è possibile essere stracchi, come lo era la Principessa delle Cervie, così poco avvezza a questo nuovo esercizio. Alla fine ebbe la fortuna di svoltare a secco per una viottola, dove il pericoloso cacciatore, avendola persa di vista e sentendosi anch’esso stanco morto, non si ostinò a darle dietro.
 
Passata in questo modo la giornata, la povera Cervia vide con gioia avvicinarsi l’ora di tornare a casa: difatti s’incamminò verso la capanna dove Viola-a-ciocche l’aspettava con impazienza. Entrata in camera, si buttò sul letto, rifinita e grondante di sudore. Viola-a-ciocche le faceva un monte di carezze e si struggeva di sapere che cosa le fosse accaduto. Essendo venuto il momento di perdere la sua buccia di Cervia, la bella Principessa riprese la sua vera sembianza e gettando le braccia al collo della sua amica del cuore: «Povera me!», disse ella, «io credeva di dover temere soltanto la fata della fontana e le bestie feroci della foresta: ma oggi sono stata insegnita da un giovine cacciatore: l’ho appena veduto, tanto io fuggivo a gambe: mille dardi mi minacciavano una morte inevitabile, e mi son salvata, non so neppur io come».
 
«Non vi conviene più andar fuori, mia bella Principessa»; disse Viola-a-ciocche, «date retta a me: passate in questa camera il tempo fatale della vostra penitenza, io anderò qui alla città più vicina a comprarvi dei libri perché abbiate uno svago: leggeremo i nuovi racconti che hanno scritto sulle fate, e faremo dei versi e delle canzonette.» «Taci, mia cara figlia», riprese la Principessa, «mi basta la cara immagine del Principe Guerriero, per farmi passare piacevolmente le giornate intere; ma quella stessa potenza che mi condanna durante il giorno alla trista condizione di Cervia, mi forza, malgrado mio, a fare quello che fanno le cervie: io corro, salto e mangio l’erba com’esse, e in quel tempo lì, una camera sarebbe per me una prigione insoffribile.» Era così affaticata dalla caccia che chiese da mangiare: e dopo, i suoi begli occhi si chiusero fino allo spuntar dell’alba.
 
Appena si accorse che faceva giorno, accadde la solita metamorfosi ed ella riprese la via della foresta. Il Principe dal canto suo era tornato sulla sera a raggiungere il suo grande amico. «Ho passato la giornata», gli disse, «a dar dietro alla più bella Cervia che abbia mai veduto: più di cento volte essa mi ha fatto cilecca con una sveltezza straordinaria: e sì che ho tirato giusto, né so capire com’abbia fatto a scansare i miei colpi.
 
Domani a giorno vo’ tornare a cercarla, e questa volta non mi scappa.» Infatti il giovane Principe che faceva di tutto per divagarsi da un’idea che oramai credeva un sogno, vedendo che la caccia per lui era una gran distrazione, andò di buonissim’ora nello stesso punto dove aveva trovato la Cervia; ma essa aveva pensato bene di non andarvi, per paura si rinnovasse il brutto caso del giorno innanzi. Il Principe guardava di qua e di là, e seguitava a camminare; finché, essendo un po’ accaldato, non gli parve vero di trovare delle mele, che al colore erano bellissime; ne colse, ne mangiò e di lì a poco si addormentò come un ghiro, sdraiato sull’erbetta fresca e all’ombra di alcuni alberi, sui quali molti uccelletti pareva che si fossero dati il punto di ritrovo.
 
Mentre dormiva, la nostra timida Cervia, sempre in cerca di luoghi solitari, passò da quella parte. Se l’avesse veduto subito, forse sarebbe scappata: ma trovandosi, senza addarsene, a passare rasente a lui, non poté stare dal guardarlo: e il suo sonno gli parve così profondo, che si sentì tanto sicura da fermarsi con tutto il comodo a contemplarne i bei lineamenti. Oh Dei! Come restò quando l’ebbe riconosciuto! Quella diletta immagine era scolpita troppo nel suo cuore, perché potesse averla dimenticata in sì poco tempo. Amore, amore, che pretendi da lei? Vuoi tu che Cervietta si esponga a perdere la vita per mano del Principe? Non dubitare, lo farà; essa non ha più testa per pensare alla propria sicurezza.
 
Si accovacciò a pochi passi distante da lui, e i suoi occhi, innamorati a guardarlo, non sapevano staccarsi un minuto solo: sospirava e mandava dei piccoli gemiti; finché, fattasi un po’ di coraggio, si avvicinò tanto, che quasi lo toccava: quand’egli si svegliò a un tratto. La sua meraviglia fu grande. Riconobbe la Cervia che gli aveva dato tanto da fare, e che aveva cercato per tutta la foresta: e trovarsela ora così vicina, gli parve quasi un miracolo. Essa non aspettò che egli tentasse di prenderla, ma fuggì con quanto ne avea nelle gambe; ed egli, dietro alla gran carriera.
 
Di tanto in tanto si fermavano per ripigliar fiato, perché la bella Cervia era stanca del giorno innanzi, e lo stesso era del Principe. Ma ciò che faceva rallentare di più la corsa della Cervia, era… ohimè, debbo dirlo? era il gran dispiacere di allontanarsi da colui, che l’aveva ferita più coi suoi pregi che colle sue frecce. Egli la vedeva ogni pochino voltarsi col capo verso di lui, come per chiedergli se voleva che ella perisse per i suoi colpi: e quando egli era a tocco e non tocco per raggiungerla, ella ripigliava nuova forza per scappare. «Oh! se tu potessi intendermi, Cervietta mia», gridava il Principe, «tu non mi fuggiresti a questo modo! Io ti amo; io ti voglio dar da mangiare.
 
Tu sei carina, e io voglio aver cura di te.» Ma il vento portava via le parole, per cui non arrivavano fino agli orecchi di Cervia. Alla fine, dopo aver fatto il giro della foresta, ella, non avendo più fiato da correre, rallentò il passo: il Principe invece raddoppiò il suo e la raggiunse con una gioia, della quale non si credeva più capace. Vide subito che ella aveva finite le sue forze: era tutta sdraiata per terra, come una povera bestiola, mezza morta, non aspettando altro che finire la vita per le mani del suo vincitore.
 
Ma esso, invece di mostrarsi crudele, cominciò a carezzarla. «Bella Cervia», le disse, «non aver paura: vo’ condurti meco, e devi star sempre con me.» Tagliò apposta alcuni rami d’albero: li piegò con garbo, li ricuoprì di muschi e vi sparse su delle rose, colte da una macchia che era tutta fiorita. Prese quindi la Cervia fra le sue braccia, le fece appoggiare il capo sul collo e andò a posarla amorosamente sul lettino erboso, fatto da lui.
 
Poi si sedette accanto cercando qua e là dei fili d’erba, che le presentava alla bocca, e che ella mangiava nella sua mano. Sebbene non sperasse punto di essere inteso, il Principe continuava a parlare: ed ella, per quanto grande fosse il piacere che provava nel vederlo, s’inquietava per l’avvicinarsi della notte. «Che sarà mai», diceva fra sé e sé, «caso mi vedesse tutt’a un tratto cambiar di sembianza? O fuggirà spaventato, o, se non fugge, che avverrà di me, trovandomi sola sola in mezzo a questa foresta?»
 
Ella si lambiccava il cervello per trovare il modo di mettersi in salvo, quand’egli stesso le agevolò la strada: perché, nel timore che la Cervia patisse la sete, se ne andò a cercare un qualche ruscello, per menarvela; ma in quel mentre che stava cercando, ella se la dette a gambe e giunse alla capanna, dove Viola-a-ciocche l’aspettava. Si gettò di nuovo sul letto; sopravvenne la notte, la sua metamorfosi cessò e prese a raccontare la sua avventura. «Lo crederai, mia cara?», ella disse all’amica, «il mio Principe Guerriero è qui, proprio qui in questa foresta; è lui che da due giorni mi dà la caccia, e che, dopo avermi presa, mi ha fatto mille carezze. Oh! com’è poco somigliante il ritratto che me ne fecero ! Egli è cento volte più bello; quello stesso disordine, che sogliono avere i cacciatori negli abiti e nella persona, non toglie nulla alla sua fisonomia geniale: anzi, gli dona un certo non so che, da non potersi ridire a parole.
 
Non son io forse una gran disgraziata a dover fuggire questo Principe? egli che mi fu destinato da’ miei genitori? egli che mi ama ed è riamato. Non ci mancava altro che una fata, che mi pigliasse a noia fin dalla mia nascita, per avvelenarmi tutti i giorni della mia vita!…» E dette in un gran pianto. Viola-a-ciocche la consolò e le fece sperare che quanto prima le sue pene si cambierebbero in tante allegrezze. Il Principe, appena ebbe trovato una fonte, tornò subito dalla sua cara Cervia: ma la Cervia non era più dove l’aveva lasciata. La cercò dappertutto, ma inutilmente, e se la prese con lei, come se l’avesse creduta capace di ragionare. «Com’è mai possibile», egli esclamò, «che io debba aver sempre dei motivi di lagnarmi di questo sesso volubile e ingannatore?» E tornò dalla buona vecchia col cuore amareggiato: raccontò al suo fido amico l’avventura, e tacciò la Cervia d’ingratitudine.
 
Beccafico non poté far di meno di ridere della bizza del Principe, e gli consigliò di punire la Cervia, la prima volta che gli capitasse sotto. «Rimango qui apposta,» rispose il Principe «dopo ripartiremo per altri paesi più lontani.» Si fece daccapo giorno, e col giorno la Principessa riprese la figura di Cervia bianca. Ella non sapeva a qual partito appigliarsi: o andare negli stessi luoghi, dove il Principe era solito cacciare; o tenere una strada diversa, per non incontrarlo.
 
Scelse quest’ultimo partito, e si allontanò dimolto, ma dimolto assai: ma il giovane Principe, furbo quanto lei, indovinò che essa avrebbe usata questa piccola astuzia; ed ecco che te la coglie calda calda nel più fitto della foresta, dove essa credeva di essere sicura da ogni pericolo. Appena essa lo vede, schizza in piedi, scavalca le macchie, e impaurita anche di più per il caso del giorno avanti, fugge via come il vento, ma in quella che sta per traversare una viottola, il Principe la mira così giusto, che le pianta una freccia nella gamba.
 
Ella sentì un gran male, e non avendo più forza per correre, si lasciò cadere per terra. Questa trista catastrofe non poteva scansarsi, perché la fata della fontana l’aveva decretata avanti, come lo scioglimento della strana avventura. Il Principe si avvicinò e fu preso da un vivo dolore nel vedere la Cervia che grondava sangue; strappò alcune erbe, le accomodò sulla ferita, per diminuirne lo spasimo, e preparò un nuovo letto di rami e di foglie. Egli teneva la testa di Cervietta sulle ginocchia: «E non sei tu, cervellino volubile», le disse, «la cagione della disgrazia che ti è toccata? Che ti aveva io fatto di male, ieri, da abbandonarmi a quel modo? Ma oggi non mi scappi, perché ti porterò con me».
 
La Cervia non rispose nulla: e che cosa poteva dire? Aveva torto e non poteva parlare; sebbene non sia sempre vero che quelli che hanno torto, stiano zitti. Il Principe la finiva dalle carezze. «Come mi dispiace di averti ferita», le diceva, «tu mi odierai e io voglio invece che tu mi ami.» A sentirlo, pareva che una voce segreta gl’ispirasse quelle cose che egli diceva a Cervietta. Intanto si fece l’ora di tornare dalla buona vecchia.
 
Egli prese la sua preda, e non fu per lui piccola fatica quella di portarla addosso, o di condurla a mano, o di strascinarsela dietro. Essa non voleva in nessun modo andar con lui. «Che sarà di me?», diceva, «come! e dovrò trovarmi sola con questo Principe? No: piuttosto la morte.» Ella faceva la morta e gli spiombava le spalle col peso: il Principe era in un lago di sudore e colla lingua fuori dalla fatica: e sebbene la capanna non fosse molto distante, sentiva che non ci sarebbe potuto arrivare, senza qualcuno che gli avesse dato una mano.
 
Pensò di chiamare il suo fido Beccafico: ma prima di abbandonare la preda, la legò ben bene con alcuni nastri a pié d’un albero, per paura che non gli scappasse. Ohimè! Chi poteva mai figurarsi che la più bella Principessa del mondo sarebbe un giorno trattata in questo modo da un Principe che l’adorava? Essa si provò inutilmente a strappare i nastri; ma i suoi sforzi non facevano che stringerli di più, e stava sul punto di strozzarsi con un nodo scorsoio, che le stringeva la gola, quando volle il caso che Viola-a-ciocche, stanca di starsene chiusa in camera, uscì per prendere una boccata d’aria e passò sul luogo, dov’era la Cervia bianca che si dibatteva.
 
Come rimase a vedere la sua cara Principessa in quello stato! Non poté scioglierla tanto presto, come avrebbe voluto, perché i nastri erano fermati con molti nodi: e mentre stava per menarla via, ritornò il Principe insieme con Beccafico. «Per quanto grande sia il rispetto che posso aver per voi, o signora», le disse il Principe, «permettetemi di oppormi al furto che volete farmi. Questa Cervia l’ho ferita io, è mia; io le voglio bene e vi supplico di lasciarmela.» «Signore», rispose con bella maniera Viola-a-ciocche, che era compitissima e graziosa quanto mai, «questa Cervia apparteneva a me prima che fosse vostra: rinunzierei piuttosto alla vita, che a lei; e se volete vedere come ella mi conosce, non dovete far altro che lasciarla un po’ in libertà. Animo, mia bella Bianchina, abbracciami», diss’ella: e Cervietta le si gettò colle zampe al collo. «Baciami qui, su questa gota!», ed essa ubbidì. «Toccami dalla parte del cuore», ed essa ci portò la zampina. «Fai un sospiro» ed essa sospirò. Il Principe non poté dubitare di quanto affermava Viola-a-ciocche. «Io ve la rendo», diss’egli garbatamente, «ma vi confesso che lo faccio a malincuore.» Ella se n’andò via subito colla sua Cervia.
 
Tanto l’una che l’altra non sapevano che il Principe albergasse sotto lo stesso tetto: egli le pedinava a una certa distanza, e restò maravigliato vedendole entrare dalla buona vecchia, che stava appunto aspettandole. Dopo pochi minuti vi giunse anch’esso: e spinto da un moto di curiosità, di cui era cagione la Cervia bianca, domandò alla vecchia chi fosse la giovane signora: e questa disse che non la conosceva né punto né poco, che l’aveva presa in casa colla sua Cervia, che pagava bene, e che viveva ritiratissima. Beccafico volle bracare, e domandò dov’era la camera di quella signora: e gli fu risposto che era vicina alla sua e separata soltanto da un semplice intavolato.
 
Quando il Principe fu nella sua stanza, Beccafico gli disse, o che egli s’ingannava all’ingrosso, o quella fanciulla doveva essere stata colla Principessa Desiderata: e che si ricordava di averla veduta a Corte, quando vi andò ambasciatore. «Perché mi richiamate alla mente questi tristi ricordi?», disse il Principe, «per quale stranissimo caso volete voi che ella si trovi qui?» «Ecco ciò che non vi so dire, signor mio», soggiunse Beccafico, «ma mi struggo di vederla un’altra volta: e poiché siamo divisi da un tramezzo di legno, voglio farci un buco.» «Mi pare una curiosità inutile», disse il Principe mestamente, perché le parole di Beccafico gli avevano rinnuovato tutti i suoi dolori: e aperta la finestra, che guardava nel bosco, diventò pensieroso.
 
Intanto Beccafico lavorava, e in pochi minuti fece un buco abbastanza grande da poter vedere la graziosa Principessa, la quale era vestita di un abito di broccato d’argento, sparso di fiori color rosa, ricamati in oro e smeraldi: i suoi capelli cadevano giù in grandi riccioli, sul più bel collo, che si possa vedere; il suo carnato brillava de’ più vivi colori e gli occhi innamoravano a guardarli. Viola-a-ciocche stava in ginocchio davanti a lei, e con alcune strisce di tela fasciava il braccio della Principessa, dal quale il sangue colava in grande abbondanza: e tutte e due parevano in gran pensiero per questa ferita. «Lasciami morire», diceva la Principessa, «meglio la morte, che questa vita disgraziata, che mi tocca a fare.
 
Che si canzona! esser Cervia tutto il giorno: veder colui, al quale sono destinata, senza potergli parlare, senza fargli conoscere la mia fatale sciagura. Ahimè! se tu sapessi le cose appassionate che mi ha detto, sotto la mia figura di Cervia; se tu sentissi la sua voce, se tu vedessi i suoi modi nobili e seducenti, tu mi compiangeresti anche più che tu non faccia, per essere in tale stato da non potergli spiegare il mio crudele destino.» Immaginatevi lo stupore di Beccafico a vedere e sentire di queste cose. Corse dal Principe, e tirandolo via dalla finestra, con un trasporto di gioia indicibile: «Oh signore», esclamò, «spiccatevi a metter l’occhio al buco di quest’intavolato, e vedrete il vero originale del ritratto, che ha formato per tanto tempo la vostra delizia».
 
Il Principe guardò e riconobbe subito la sua Principessa; e forse sarebbe morto di gioia, se non gli fosse venuto il sospetto di esser vittima di qualche incantesimo; difatti, come mettere d’accordo un incontro così maraviglioso col fatto di Spinalunga e sua madre chiuse nel castello delle Tre Punte, una col nome di Desiderata e l’altra con quello di sua dama d’onore? Ma la passione lo lusingava, senza contare che abbiamo tutti un grandissimo garbo a credere ciò che si desidera. Fatto sta che nel caso suo, non c’era da uscirne: o morir d’impazienza o accertarsi della verità.
 
Senza mettere tempo in mezzo, egli andò a bussare con molta manierina alla porta della camera, dov’era la Principessa. Viola-a-ciocche, non sospettando che potesse esser altri che la buona vecchia, e avendo anzi bisogno del suo aiuto per fasciare il braccio della sua padrona, corse subito ad aprire, e figuratevi come restò nel trovarsi a faccia a faccia col Principe, il quale andò a gettarsi ai piedi di Desiderata. Era tale e tanta la commozione del suo animo, che non poté fare un discorso filato e ammodo: per cui, sebbene mi sia ingegnato di sapere che cosa balbettasse in quei primi momenti, non c’è stato nessuno che me l’abbia saputo dire.
 
La Principessa non fu meno arruffata di lui nelle sue risposte: ma l’amore, che spesso e volentieri fa da interprete fra i mutoli, c’entrò di mezzo e li persuase tutti e due che avevano detto le cose più spiritose e più appassionate di questo mondo. Lacrime, sospiri, giuramenti, e perfino alcuni graziosi sorrisi: insomma, ci fu un po’ di tutto. La nottata passò così: si fece giorno, senza che Desiderata se n’accorgesse nemmeno, ed essa non divenne più Cervia.
 
Non c’è da potersi immaginare la sua allegrezza, appena se ne avvide: ed essa voleva troppo bene al Principe, per indugiare a dirgliene il motivo: e così cominciò a raccontare la sua storia, e lo fece con tanta grazia e con tanta eloquenza naturale, da mettere in soggezione i primi avvocati del mondo. «Come!», esclamò il Principe, «siete dunque voi, mia graziosissima Principessa, quella che io ho ferito sotto la sembianza di una Cervia bianca? Che cosa debbo fare per espiare un tal delitto? Vi basta che io muoia di dolore, qui sotto i vostri occhi?»
 
Egli era così mortificato, che il dispiacere gli si vedeva dipinto sul viso. Desiderata ci pativa e sentiva più dolore di questa cosa che della sua ferita; e voleva persuaderlo che si trattava di una sgraffiatura da non darsene l’ombra del pensiero e che, in fin dei conti, ella non poteva dolersi di un male che era stato cagione per lei di tanta felicità. Il modo col quale egli parlava era così affettuoso, che non si poteva dubitare della verità delle sue parole.
 
E perché anch’essa, alla sua volta, potesse essere istruita di ogni cosa, il Principe le raccontò la trappoleria usata da Spinalunga e da sua madre, aggiungendo che bisognava mandar subito a dire al Re suo padre la fortuna che egli aveva avuto di poterla finalmente trovare, perché il Re si preparava appunto a muovere una guerra micidiale, per ottenere soddisfazione del grand’affronto che credeva di aver ricevuto. Desiderata lo pregò di scrivergli una lettera e di mandargliela per Beccafico, e la cosa stava per essere fatta, quand’ecco che la foresta tutt’a un tratto risuonò di una fanfara squillante di trombe, cornette, timballi e tamburi. E parve di sentir passare gran gente lì vicino alla capanna.
 
Il Principe si affacciò alla finestra e riconobbe molti ufficiali, le sue bandiere e i suoi alfieri; ai quali ordinò di far alto e aspettarlo. Fu per quei soldati una sorpresa graditissima: perché tutti credevano che il loro Principe si sarebbe messo alla testa, per andare a vendicarsi del padre di Desiderata. Il padre del Principe, sebbene carico d’anni, li comandava in persona. Egli si faceva portare in una lettiga di velluto ricamato in oro: e dietro a lui, un carro scoperto, dov’erano Spinalunga e sua madre.
 
Appena veduta la lettiga, il Principe corse subito là, e il Re, stendendogli le braccia, l’abbracciò con una tenerezza veramente paterna. «E di dove venite, mio caro figlio?», domandò il vecchio, «come mai avete potuto lasciarmi nella grande afflizione, cagionatami dalla vostra lontananza?» «Signore», disse il Principe, «degnatevi di ascoltarmi.» Il Re scese subito dalla sua portantina, e ritiratosi in un luogo appartato, il Principe gli raccontò il fortunato incontro che aveva fatto e le furberie di Spinalunga.
 
Il Re, tutto contento di questa bella avventura, alzò le braccia e gli occhi al cielo in atto di rendimento di grazie: e vide in questo frattempo farsi avanti la Principessa Desiderata, più bella e più risplendente di tutti gli astri riuniti insieme. Ella montava un superbo cavallo, che caracollava continuamente: cento piume di diversi colori le ornavano il capo e i più grossi diamanti del mondo erano sparsi sul suo abito, vestita com’era da cacciatrice.
 
Viola-a-ciocche, che la seguiva, non stava meno bene di lei: e questo era tutto effetto della protezione di Tulipano, la quale aveva condotto ogni cosa con molta accuratezza e buon successo. Era essa che aveva fabbricata la graziosa capanna di legno per favorire la Principessa, e sotto le sembianze di vecchia, l’aveva poi regalata per parecchi giorni. Dopo che il Principe ebbe riconosciuti i suoi soldati, e mentre andava a trovare il Re suo padre, la fata entrò nella camera di Desiderata: le soffiò sul braccio per guarirla della ferita: e le diede gli splendidi vestiti, coi quali ella si mostrò agli occhi del Re, che ne rimase tanto meravigliato, da stentare a credere che fosse una persona mortale.
 
Egli le disse tutto quello che si può immaginare di più grazioso e gentile in un caso simile, e la scongiurò a non differire più a lungo ai suoi sudditi il piacere di averla per Regina. «Perché», egli continuò a dire, «io sono determinato a cedere il mio regno al Principe Guerriero, per renderlo in questo modo più degno di voi.» Desiderata gli rispose con tutta quella gentilezza, che c’è da aspettarsi da una persona squisitamente educata: quindi, gettando gli occhi sulle due prigioniere che erano nel carro e che si nascondevano il viso colle mani, ell’ebbe la generosità di chiedere la loro grazia, e che lo stesso carro servisse a condurle dove avessero voluto andare.
 
Il Re acconsentì al suo desiderio; ma dové ammirare il bel cuore di Desiderata e ne fece i più grandi elogi del mondo. Fu dato ordine all’armata di tornare indietro. Il Principe montò a cavallo per accompagnare la sua bella Principessa: e giunti alla capitale furono ricevuti con mille gridi di gioia. Si allestirono i preparativi per il giorno delle nozze: giorno che fu una vera solennità, per la presenza delle sei fate amiche e propizie alla Principessa. Esse le fecero i più ricchi regali, che mai si possano immaginare e fra gli altri, il magnifico palazzo nel quale la Regina era stata a visitarle, apparve a un tratto per aria, portato da cinquantamila Amorini, i quali lo posarono in una bella pianura, sulla riva del fiume. Dopo un tal dono, era impossibile farne altri di maggior valore.
 
Il fido Beccafico pregò il suo signore di mettere per lui una buona parola con Viola-a-ciocche, e di unirlo con essa, quand’egli avesse sposato la Principessa: ed egli lo fece volentieri. E così a questa cara fanciulla non parve vero di trovare un’occasione coi fiocchi, arrivata appena in un paese straniero. La fata Tulipano, che aveva le mani bucate anche più delle sue sorelle, le regalò quattro miniere d’oro nelle Indie, perché non s’avesse a dire che il suo marito era più ricco di lei. Le nozze del Principe durarono parecchi mesi: ogni giorno c’era qualche festa di nuovo, e per tutto non si faceva altro che cantare le avventure di Cervia bianca.
 
Se tutti i racconti delle fate dovessero aver per forza una morale, questo racconto qui non saprebbe proprio dove andare a pescarla. Salvo sempre il caso che Cervia bianca, colla storia pietosa delle sue disgrazie, non abbia preteso di far vedere alle giovinette i grandi pericoli che ci sono, a volere uscire prima del tempo fuori dell’ombra delle pareti domestiche, per entrare nella luce abbagliante del gran mondo.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Chi non ha coraggio non vada alla guerra – Carlo Collodi

Chi non ha coraggio non vada alla guerra - Carlo Collodi

Chi non ha coraggio non vada alla guerra – Carlo Collodi

Leoncino è un ragazzetto entrato appena nei dieci anni.

«Perché questo nome di Leoncino?», domanderete voi.

La storia sarebbe un po’ lunghetta, ma io ve la racconterò in quattro parole.

Bisogna dunque sapere che quando questo bambino fu portato al fonte battesimale, la sua mamma avrebbe gradito volentieri che si fosse chiamato Luigi: ma il suo babbo, incaponitosi a farne col tempo un guerriero (il babbo era comandante dei pompieri e bisogna perdonargli certe debolezze guerresche) volle a tutti i costi che fosse battezzato col nome di Napoleone.

Napoleone!… Come si fa, domando io, a mettere un nomone così grosso sulla testa di un tenero lattante? C’è quasi il pericolo di soffocarlo!

Fatto sta che in famiglia, per vezzeggiativo, cominciarono subito a chiamarlo Napoleoncino: ma poi, avvedutisi che questo vezzeggiativo era troppo lungo, gli tagliarono le due prime sillabe (Na-po), e così, di un Napoleoncino, ne fecero per risparmio di fiato un economico e modesto Leoncino.

Il piccolo guerriero crebbe a occhiate, e a dieci anni era già diventato un bel ragazzo. Correva, ballava, saltava, faceva la ginnastica, e, cosa singolarissima! qualche volta anche studiava.

Di burattini e di altri balocchi non voleva saperne. L’unica sua passione erano le sciabole di latta con l’impugnatura dorata e i fucilini a saltaleone, da caricarsi in tempo di pace coi lupini secchi, e in tempo di vera guerra, coi sassolini di ghiaia o coi nòccioli di ciliegia.

Il suo babbo poi, per contentarlo e per coltivargli sempre più lo spirito marziale, gli aveva fatto fare anche l’uniforme di generale d’armata, con le spalline di bambagia gialla come lo zafferano e con un berretto di panno scuro, ornato di un bel nastro di tela incerata e rilucente, che, veduto da lontano, pareva proprio un gallone d’argento.

Venuto il tempo delle vacanze, Leoncino fu condotto a villeggiare in casa di un suo zio, ricco possidente di campagna.

Questo zio aveva una nidiata di cinque figlioli, tutti bambinetti fra i sette e gli undici anni. Figuratevi la contentezza di Leoncino quando si trovò in mezzo a quegli altri cinque monelli.

Com’è naturale, pensarono subito, tutti d’accordo, di fare i soldati. Arnolfo, il più piccolo dei cugini, nominato trombettiere di reggimento, andava avanti al corpo d’esercito, sonando la tromba con la bocca. Raffaello, il più alto di tutti, faceva da cavalleria, per cui era obbligato a camminare sempre di trotto o di galoppo e qualche volta anche a nitrire e tirare i calci, a uso cavallo: Asdrubale e Gigino rappresentavano il grosso della fanteria. Tonino guidava i carri dell’ambulanza, strascinandosi dietro il carretto dell’ortolano per caricarci su, dopo la battaglia, i morti e i feriti, e Leoncino… Leoncino poi, come potete immaginarvelo, era il comandante generale e marciava sempre alla testa della grande armata.

II.

Tutte le mattine che Dio mandava in terra, i sei ragazzi, dopo aver preso con sé il pane e il companatico per fare il rancio, si mettevano in marcia armati di tutto punto, avviandosi a combattere qualche gran battaglia nel vicino bosco distante forse un chilometro dalla villa.

Arrivati a mezza strada, facevano alto in mezzo a un prato, e lì, sdraiati sull’erba, mangiavano, o, per dir meglio, divoravano il rancio, mentre uno di loro, s’intende bene, rimaneva a far da sentinella avanzata in fondo al prato, per dare il grido d’allarme nel caso che i nemici fossero sbucati fuori all’improvviso.

Ma l’uso della sentinella avanzata durò poco, e vi dirò il perché. Una mattina toccò a far da sentinella al trombettiere Arnolfo, un ragazzino che non aveva ancora sett’anni finiti. Arnolfo, ubbidiente ai regolamenti e alla disciplina militare, si rassegnò a fare una mezz’ora di sentinella: ma appena smontato, corse subito in mezzo ai compagni, per farsi dare la sua parte di rancio. E lascio pensare a voi come restò, quando si accorse che i suoi compagni avevano mangiato tutto, diluviato tutto, spolverato tutto: fino i minuzzoli di pane, fin le cortecce del cacio, fin le bucce del salame! Il povero figliolo, che aveva una fame che la vedeva proprio cogli occhi, trovandosi così barbaramente burlato, cominciò a piangere e strillare; e il suo strillare fu così acuto e ostinato, che in tutta la storia militare, dalla presa di Gerico fino a noi, non c’è l’esempio d’un altro trombettiere che abbia strillato tanto, quanto lui.

Da quel giorno in poi, in quel corpo d’armata composto di sei ragazzi, non si trovò più un soldato che volesse fare da sentinella avanzata durante l’ora del rancio. Di fronte a un atto così grave d’insubordinazione, la disciplina militare ci scapitò assai: ma lo stomaco dei soldati ci guadagnò dimolto… e tutti pari.

E le battaglie combattute da questi piccoli eroi, contro chi erano?

Ve lo dico subito. Appena finito il rancio, l’esercito col suo comandante alla testa si rimetteva in marcia, inoltrandosi a passo di carica dentro il bosco. Giunti dinanzi a una grossa quercia, che aveva più di cent’anni, il generale Leoncino schierava le sue truppe in riga di battaglia, e dopo aver caracollato dinanzi a loro, figurando di essere a cavallo, dopo avere colle parole e coi gesti incoraggiati i soldati alla pugna, dava l’ordine di cominciare il fuoco. Allora tutti i soldati, compreso il trombettiere, armati di grossi bastoni principiavano a bastonare furiosamente il tronco della quercia: e nel bollor della mischia si sentiva sempre la voce del generale, che gridava: «Avanti! Coraggio, marmotte!… Serrate le file!… Alla baionetta!».

Quando i soldati, stanchi trafelati, non ne potevano proprio più, allora buttavano via i bastoni e la battaglia era finita.

E la quercia?… La povera quercia si lasciava tutti i giorni bastonare, senza mai rivoltarsi, senza mai mandar fuori una mezza parola di lamento: solo di tanto in tanto scoteva malinconicamente i suoi rami coperti di foglie, quasi volesse dire:

«Poveri ragazzi! Lasciamoli fare! Hanno così poco giudizio!…».

III.

Un giorno, per altro, avvenne un caso orribile e spaventoso; ed ecco come andò.

Il piccolo esercito, secondo il solito, si avanzava a marcia forzata dentro il bosco, in cerca del solito nemico. Quando, tutt’a un tratto, il general Leoncino, che camminava fieramente avanti una ventina di passi, si fermò esterrefatto, e cacciando un grido acutissimo di terrore, si dette a scappare verso casa.

La sua fuga fu così precipitosa e disordinata, che per la strada perse gli sproni di latta e il berretto di generale, col gallone che pareva d’argento.

Che cos’era mai accaduto di strano?…

Quando Leoncino arrivò alla villa, era ansante, boccheggiante e tutto paonazzo in viso come un cocomero troppo maturo.

E per l’appunto la prima persona, in cui s’imbatté, fu lo zio.

Conoscete, per caso, lo zio di Leoncino? Lo dovete conoscere di certo, perché chi lo sa quante volte lo avete incontrato per la strada: ma ora forse non ve lo rammentate più.

Figuratevi, dunque, un omone lungo lungo, grosso grosso, con un faccione largo come la luna, e con un nasone tutto pieno di nasini, da parere un grappolo d’uva.

Di nome si chiama Giandomenico: ma tutti nel paese lo conoscono col soprannome di Nasobello.

Vedendolo la prima volta e giudicandolo dalla fisonomia burbera e accigliata, c’è da scambiarlo per un orco, per un tiranno, per un mangia-bambini, e invece… Invece è una bonissima pasta d’uomo, burlone, allegro, di buon’umore, tutt’amore per i figliuoli e tutto premure e attenzioni per il suo nipotino.

Tant’è vero che appena gli capitò davanti Leoncino scalmanato e impaurito a quel modo, il sangue gli fece un gran rimescolone e gridò subito:

«Che cos’è stato? Perché hai il viso così acceso?… Dove sono rimasti i tuoi cugini?…».

Il ragazzo stintignava a rispondere: pareva quasi che si vergognasse.

«Dunque?…», insisté lo zio, alzando sempre più la voce.

«Ecco… dirò… una bestia così brutta…»

«Quale bestia?…»

«Io…»

«Come? tu sei una bestia?…»

«Io, no: quell’altra… che ho trovata nel bosco…»

«Non capisco nulla: ma spiegati, per carità!… Dov’hai lasciato i tuoi cugini?…»

«Fra poco verranno…»

«Eccoci qui! eccoci qui!», gridarono di fuori cinque voci argentine e squillanti, come tanti campanelli.

E nel tempo stesso entrarono in sala i cinque ragazzi, che si buttavano via dalle matte risate.

Il babbo, che non sapeva il motivo di questo gran buon’umore, disse allora con accento risentito:

«Finitela una volta! Si potrebbe sapere almeno di chi ridete?».

«Si ride di lui!…» E, accennando Leoncino, dettero in una risata più forte.

«Del nostro coraggioso generale!» E qui una risata più lunga.

«Povero generale, che paura che ha avuta! Diamogli subito un bicchier d’acqua!» E qui una risatona così sguaiata, che non finiva più.

E Leoncino?…

IV.

Leoncino aveva perduto la voce. Stava ritto in mezzo alla sala, con la testa bassa, col mento conficcato nello stomaco, e di tanto in tanto dava dell’occhiatacce ai suoi compagni, come dire: «Quando saremo fuori di qui, faremo i conti e me la pagherete!…».

«Dunque, si può sapere che cos’è accaduto?», domandò il babbo.

«Te lo racconterò io», disse Raffaello, quello che faceva da cavalleria.

«No: io!», gridò Gigino, il rappresentante la fanteria.

«Nossignori, tocca a me», strillò Arnolfo, il trombettiere. «Io sono il più piccino di tutti; dunque ho più diritto degli altri.»

«Lasciate parlare Arnolfo», disse il babbo, «e zitti tutti!»

Il piccolo trombettiere, non sapendo lì per lì trovar subito la parola per dar principio al suo racconto, cominciò a fare con la bocca mille versi e a gesticolare con le mani: alla fine poi, trovata la parola, prese a dire come seguitando un racconto:

«Sicché dunque, quando il nostro generale ci disse: «Avanti!» noi tutti si rispose: «Andiamo!».

«Andiamo? Ma dove volevate andare?», domandò il babbo.

«O che non lo sai? S’andava a far la guerra…»

«La guerra contro chi?»

«La guerra contro Cartagine.»

«E chi è questa Cartagine?»

«È una grossa quercia, che rimane a metà del bosco.»

«E perché la chiamate Cartagine?»

«Bella forza! Perché noi siamo i Romani e andiamo sempre a bastonarla.»

«Ora ho capito tutto!», disse il babbo. «Prosegui pure il racconto.»

«Sicché dunque, quando si fu per i campi, sarebbe toccato a me a camminare avanti, ma siccome Leoncino è un prepotente per la ragione che ha la sciabola dorata e la striscia bianca al berretto, allora mi saltò addosso col dire: «Il Generale sono io, e tu devi venire dietro a me». Ma questa l’è una riffa; ne convieni, babbo? Scusa, babbino, te che te ne intendi, quando si fa la guerra, chi è che va avanti, il generale o quello che sona la tromba? Io dico che quello che sona la tromba gli è sempre il primo di tutti… ne convieni?… Se no la guerra sarebbe una bella ingiustizia.»

«Via! via! via!», gridò il babbo. «Non ci perdiamo in tante lungaggini.»

«Mi spiccio in due parole. Sicché dunque, lui, secondo il solito, volle andare avanti, e noi tutti dietro a passo di corsa. Quando tutt’a un tratto, che è che non è, il nostro Generale in capo si ferma… fa due salti indietro, e cacciando un urlo che pareva il fischio del vapore, si mette a scappare. E come scappava!… Se tu avessi visto come scappava!… Ti ricordi, babbo, del gatto del nostro ortolano, quando gli si faceva vedere la frusta? Tale e quale.»

«E la cagione di questo spavento?»

«Figurati! Aveva visto fra l’erba una tartaruga!»

V.

Il signor Giandomenico, udito il racconto, sentiva anch’esso una gran voglia di ridere: ma invece, atteggiandosi a giudice severo e inesorabile, si voltò verso i suoi figliuoli, gridando in tono di comando militare:

«Soldati! In riga di battaglia!».

A questo comando, i ragazzi si posero tutti in fila, rimanendo immobili e col loro fucilino di legno appoggiato sulle spalle.

Allora il signor Giandomenico riprese:

«Visto e considerato che un generale d’armata, il quale si mette a fuggire perché ha paura di una tartaruga, non è degno di comandare uno dei primi eserciti d’Europa (i soldati chinarono il capo in segno di ringraziamento) ordiniamo e vogliamo che il generale Leoncino si dimetta subito dal supremo grado che ha tenuto finora e prenda invece gli scevroni di caporale. Il prode Raffaello, comandante di tutta la cavalleria, è incaricato di farsi consegnare da Leoncino la sua spada d’onore.»

Raffaello, senza mettere tempo in mezzo, andò subito in fondo alla stanza: e movendosi di là e camminando un po’ di trotto e un po’ di galoppo, si presentò dinanzi al povero Generale, e fece l’atto di chiedergli la spada.

Leoncino non disse una mezza parola: ma seguitava a tentennare il capo, come fanno i chinesi di gesso. Alla fine, visto che non c’era scampo, cominciò adagio adagio a sfibbiarsi la spada dalla cintola: e sfibbiata che l’ebbe, figurò di consegnarla in mano a Raffaello, ossia al comandante della cavalleria.

Ma invece di consegnargliela, gliela batté sulle dita. E pare che gliela battesse piuttosto forte, perché l’altro si risentì tutto inviperito, e ne nacque un combattimento a corpo a corpo fra la cavalleria e il generale. E chi lo sa come questo combattimento sarebbe finito, se il signor Giandomenico non ci fosse entrato di mezzo con le buone maniere, dando, cioè, un bellissimo scappellotto al generale e pigliando per un orecchio la cavalleria. E così persuase i due guerreggianti a sospendere le ostilità e a firmare lì su due piedi un trattato di pace.

E la pace fu firmata.

Ma il povero Leoncino non sapeva rassegnarsi a quest’atto d’umiliazione; e giorno e notte si lambiccava sempre il cervello per trovare il modo di dare qualche splendida prova di coraggio, tanto da riguadagnarsi il grado e la spada di generale. Cerca oggi, cerca domani, finalmente gli parve di vedersi balenare dinanzi agli occhi una bell’idea.

Quella sera andò a letto tutto contento: e prima di addormentarsi diceva dentro di sé: «Domani o doman l’altro sarò generale daccapo… e allora, guai a Raffaello… Per vendicarmi di lui, ordinerò subito che la Cavalleria debba camminare sempre a piedi!…».

Eppure è così: i ragazzi vendicativi spesse volte sono anche ridicoli nelle loro vendette!

VI.

Indovinate un po’, ragazzi, quale fu la bellissima idea (dico bellissima, per modo di dire) che balenò alla mente di Leoncino, per dare una gran prova del suo coraggio e per riguadagnarsi il grado di generale?

Fu quella di sfidare i suoi cugini a chi avesse fatto il salto più alto e più pericoloso. Figuratevi che bel giudizio!

«Io», disse subito Arnolfo, «scommetto di saltare gli ultimi cinque scalini della scala di casa.»

«Bella bravura davvero!», replicò Leoncino, con una spallucciata di disprezzo. «Quello è un salto che lo farebbe anche una pulce.»

«E io scommetto di saltare dalla finestra del fienile», disse Raffaello.

«E noi, se vuoi scommettere, facciamo con te a chi salta meglio la gora del mulino», dissero Gigino e Asdrubale, i due soldati di fanteria.

«Io poi scommetto di saltare una buccia di fico», disse ridendo Tonino, capitano d’ambulanza e nel tempo stesso ragazzino pacifico e tranquillo, che faceva tutte le sue cose con flemma, senza riscaldarsi mai di nulla; prova ne sia che non s’era nemmeno accorto di quella memorabile scena, in cui il suo Generale in capo, dopo essere stato degradato, aveva dovuto consegnare la sciabola in presenza a tutta la soldatesca.

Quando ognuno dei ragazzi ebbe detta la sua, Leoncino si fece avanti e domandò con aria baldanzosa di sfida:

«Chi di voi si sente il coraggio di saltare giù nell’orto dalla terrazza del primo piano?».

«Io no davvero: c’è da rompersi una gamba», rispose uno dei ragazzi.

«Nemmen’io; c’è da spaccarsi la testa», rispose un altro.

«Della testa me ne importerebbe poco», soggiunse Arnolfo ma il male gli è che ci sarebbe da strapparsi i calzoni, e per l’appunto oggi ho i calzoncini nuovi!»

Leoncino sorrise allora d’un risolino maligno e canzonatore e dopo aver dato un’occhiata di compassione a’ suoi cugini, disse con aria di smargiasso:

«Dunque voialtri quel salto non avete il coraggio di farlo? Eppure io lo farò, e quando l’avrò fatto, vedremo se continuerete a mettermi in ridicolo… e poi, perché? perché l’altro giorno all’improvviso ebbi paura di una tartaruga. Dicerto, gua’, se avessi saputo che era una tartaruga, non sarei scappato.»

«O per chi l’avevi presa?», domandò Arnolfo ridendo. «L’avevi forse presa per un elefante?…»

«Non dico un elefante… però, quella brutta bestia, a vederla lì fra l’erba, mi fece una certa impressione… un certo non so che… Ma questo, siamo giusti, non vuol dire che in quel momento non avessi coraggio…»

«Tutt’altro» replicò Arnolfo col solito risolino «vuol dire solamente che avesti paura!…»

«Paura io? per tua regola, a coraggio, vi rivendo quanti siete.»

«Canta, canta, canarino!»

«Arnolfo, non offendere!»

«Io non t’ho offeso.»

«Mi hai detto canarino.»

«Canarino non è un’offesa: canarino gli è un uccellino con le penne gialle.»

«Ma io le penne gialle non ce l’ho!», gridò Leoncino, iscaldandosi.

«Se non le hai, le potresti avere.»

A quest’ultima uscita di Arnolfo, tutti i suoi fratelli dettero in un solennissimo scoppio di risa.

VII.

Allora Leoncino, lasciandosi vincere dalla bizza, fece l’atto di volersi avventare contro il suo piccolo avversario: ma Raffaello, svelto come uno scoiattolo, lo abbracciò subito a mezza vita, e tenendolo fermo, cominciò a dirgli con una certa cantilena burlesca:

«La si calmi, sor Generale, via, la si calmi! La sia bonino!».

E tutti gli altri ragazzi a ripetere in coro con la medesima cantilena:

«La si calmi, sor Generale, la si calmi! La sia bonino!…».

E lì tanto dissero e tanto fecero che Leoncino, dimenticandosi tutta la bizza che aveva addosso, cominciò a ridere anche lui.

Poi, voltandosi verso Arnolfo, gli domandò:

«Mi dici perché te la prendi sempre con me?».

«Io me la prendo con te? Neanche per sogno. Eppoi, anche se me la prendessi con te, credilo, ci sarebbe la sua brava ragione.»

«Perché?»

«Perché, volere o volare, fosti tu che mi mangiasti la colazione quella mattina che feci da sentinella avanzata. E me ne ricorderò sempre!… ma oramai t’ho bell’e perdonato e non ci penso più. Però tutte le volte che quella colazione mi torna in mente, sento sempre una certa vogliolina… o come chi dicesse, una tentazione di ricattarmi… ma oramai ti ho bell’e perdonato e non ci penso più! E per l’appunto, che fame avevo quel giorno! Una fame da lupi!… Abbi pazienza, Leoncino, se te lo dico: ma quella celia fu una gran brutta celia e me la rammenterò sempre fin che campo… Meno male che oramai t’ho bell’e perdonato e non ci penso più!…»

«Basta, basta!» interruppe Raffaello, che cominciava ad annoiarsi. «Andiamo piuttosto a vedere questo gran salto dalla terrazza?»

«Sì, sì, vogliamo il salto, vogliamo il salto!» gridarono tutti.

Leoncino, a dir la verità, se ne sarebbe tirato indietro volentieri; ma dopo essersi vantato tanto, non poteva più scansare la prova. Il suo amor proprio non gliel’avrebbe permesso!!! Perché bisogna sapere che c’è un amor proprio anche per i ragazzi: molte volte è un amor proprio falso, un amor proprio grullo e malinteso (come nel caso di Leoncino che, per amor proprio, si metteva al rischio di rompersi il collo); ma i ragazzi hanno avuto sempre il brutto vizio di voler ragionare su tutte le cose a modo loro, e questa è stata sempre una gran disgrazia per loro e per le loro famiglie.

VIII.

Leoncino esitò un minuto… due minuti… poi, fatto un animo risoluto, si mosse per andare sulla terrazza: non era per altro entrato nell’uscio di casa, che si trovò davanti lo zio Giandomenico, il quale domandò a lui e a quell’altre birbe:

«Dove andate con tanta fretta?».

«Si va su in terrazza.»

«In terrazza? A far che cosa?»

«A… a… a prendere una boccata d’aria.»

«Non è vero, sai, babbo!», disse subito Arnolfo, «non si va a prendere una boccata d’aria: ma si va in terrazza, perché Leoncino, per far vedere che ha più coraggio di noi, ha scommesso di montare sul parapetto della terrazza e di saltare giù nell’orto.»

«È proprio vero che hai fatto questa scommessa?» disse allora lo zio, rivolgendosi al nipote. «Tu dunque credi che il coraggio, il vero coraggio, consista nell’affrontare senza alcun bisogno, i più grandi pericoli? nel saltare per semplice passatempo dai primi piani? nel montar ritti sulla soglia delle finestre? nel camminare in cima ai tetti? nel correre all’impazzata sulle spallette dei fiumi? nell’arrampicarsi in vetta agli alberi? nell’andare a bagnarsi dove l’acqua è più alta, senza saper nuotare?… No, carino mio, no: queste non son prove di coraggio: queste sono temerità imperdonabili, queste sono bravure da matti, che provano solamente la grande spensieratezza e il pochissimo giudizio di voialtri ragazzi!»

A questa parlantina fatta co’ fiocchi, il povero Leoncino restò così confuso, che non trovava il verso né di rispondere, né di guardare in faccia lo zio.

Intanto, tutto afflitto e mortificato, andava pensando dentro di sé:

«E io che speravo di aver trovato il modo di riguadagnarmi il grado di comandante!… mentre è proprio un miracolo se oggi non ho perduto anche gli scevroni di caporale!…».

Ma non si dette per vinto! Anzi, il giorno dopo, ricominciò a stillarsi il cervello per trovare qualche nuovo ammennicolo, che valesse a dare una prova di quel coraggio, che egli non aveva, ma che avrebbe voluto avere.

Ora bisogna sapere che, dall’oggi al domani, era capitata appunto nei dintorni di quella campagna una grossa volpe.

Questa famelica bestia, spavento e flagello di tutti i pollai, non solo mangiava i galli, le chiocce, le pollastre e le galline vecchie, ma, occorrendo, divorava allegramente anche i pulcini e i galletti di primo canto, senza nessun riguardo alla loro tenera età.

IX.

Sentendo parlar tanto di quella volpe, Leoncino domandò al guardaboschi dello zio:

«Dimmi, Tonio, come sono grosse le volpi?».

«Le volpi» rispose il guardaboschi «somigliano molto ai cani; con questa differenza, che hanno la coda assai più grossa, un codone che pare una spazzola. Non le ha mai vedute, lei, le volpi?»

«Mai.»

«Vuol vederne una?»

«Una volpe viva?…»

«No, morta. La trovai cinque anni fa nel bosco, l’ammazzai con una schioppettata, e poi la volli impagliare… ossia, riempire da me: ma non lo dico per vantazione, l’è impagliata così bene, che c’è da scambiarla per una volpe viva. Se lei vuol vederla, venga a casa mia e potrà levarsi questa curiosità.»

«Quando posso venire?»

«Anche domattina.»

«A che ora?»

«Di prima levata, avanti che io vada al bosco.»

Leoncino non intese a sordo. La mattina dopo si alzò di bonissim’ora e senza dir nulla ai suoi cugini, che erano sempre a letto, andò difilato a casa del guardaboschi.

Quando fu là, l’amico Tonio lo condusse in una stanzuccia terrena che serviva per le legna: e in un angolo di questo bugigattolo c’era una bella volpe accovacciata con la testa alta e minacciosa, con gli occhi di vetro, che parevano vivi e veri, e con la bocca aperta in atto di ringhiare e di mostrare rabbiosamente i denti.

Alla vista di quella volpe, Leoncino ebbe, come chi dicesse, una specie d’ispirazione improvvisa… e voltandosi al guardaboschi, gli disse:

«Come è bella! Me la vuoi vendere?».

«Vendere? Che le pare! Piuttosto gliela regalo.»

«Davvero?»

«E gliela regalo volentieri: tanto più che starà meglio in casa di lor signori, che in questa stanzuccia umida e senza luce, dove c’è il caso che, una volta o l’altra, me la mangino i topi.»

«Dunque la posso prendere?»

«La prenda pure: ma che la vuole portare da sé alla villa?»

«Sicuro che la voglio portare da me. La villa dello zio è così vicina!»

«Guà: faccia lei.»

Leoncino, con l’aiuto del guardaboschi, si caricò sulle spalle la volpe, ripeté i suoi ringraziamenti, e se ne andò.

X.

Intanto i cinque cugini, appena alzati da letto, domandarono subito di Leoncino: ma Leoncino non c’era.

Aspettarono un quarto d’ora, mezz’ora, un’ora, e Leoncino non tornava: e già cominciavano a mettersi in pensiero, quand’ecco che finalmente Leoncino tornò.

«Dove sei stato finora?», gli domandarono tutti insieme.

«Sono andato a fare un giro per questi dintorni; e sapete perché? Per vedere se avevo la fortuna d’incontrare la volpe.»

«La volpe non c’è più: è sparita da un pezzo», disse Raffaello.

«Come lo sai?»

«Sono cinque giorni che non s’è fatta più rivedere, e tutte le galline hanno già ripreso a dormire i loro sonni tranquilli.»

«E se la incontravi davvero?», disse Arnolfo.

«Se la incontravo? Tanto peggio per lei. Che avete paura, voialtri, della volpe?»

«Noi, sì: dopo che abbiamo visto quelle povere galline sbranate e poi lasciate per i campi…»

«A me poi», disse Leoncino, «la volpe non mi fa paura.»

«Guarda un po’ quanto coraggio hai messo fuori tutt’a un tratto: o chi te l’ha prestato?», disse Arnolfo ridendo.

«Arnolfo, non ricominciare!… se no, ci guastiamo davvero. Dunque si va o non si va?»

«Dove?»

«A far la nostra passeggiata militare e il solito rancio.»

«Eccoci pronti!»

«Però, come vostro caporale, voglio che oggi il rancio si debba fare lì, al principio del bosco, dov’è quella foltissima macchia, che si chiama… aiutatemi a dirlo.»

«La macchia di Tentennino», urlarono i cinque ragazzi.

«Bravi! la macchia di Tentennino. Dunque sacco in spalla, e via!»

Dopo venti minuti di marcia forzata, erano già arrivati in vicinanza della macchia: quando, tutt’a un tratto, il caporal Leoncino, fermandosi e voltandosi ai soldati, gridò loro con voce sommessa:

«Alto! e fermi tutti!…»

«Che cos’è stato?…»

«Guardate là, fra le frasche della macchia! non lo vedete quel brutto muso, che sbuca fuori?»

«Altro se lo vediamo! Quella è una volpe!…»

«È una volpe davvero!…»

«Per me, torno subito indietro», disse Arnolfo impaurito.

«Anche noi, anche noi!», dissero gli altri fratelli.

«Dunque avete paura?…», gridò Leoncino. «Marmotte! tornate pure indietro, ma io vado avanti!»

«Leoncino, da’ retta a noi, torna indietro anche tu», dicevano i ragazzi, raccomandandosi e allontanandosi a passo di carica.

XI.

Quando furono alla distanza di quattrocento metri si voltarono a guardare, e videro Leoncino, presso la macchia, che tirava bastonate a destra e sinistra, urlando come un tacchino spaventato.

Questa lotta disperata durò un buon quarto d’ora. Alla fine il valoroso caporale, appoggiatosi il bastone sulla spalla a uso fucile, tutto glorioso e trionfante tornò indietro a raggiungere i suoi compagni, i quali gli si affollarono subito dintorno, ansiosi di domandargli:

«Dunque? Come è andata a finire?».

«Bene.»

«Ti ha graffiato? ti ha morso?»

«Si è provata due volte a prendermi il bastone coi denti per inghiottirlo.»

«L’hai ammazzata?»

«Mi è fuggita sul più bello… ma è fuggita in uno stato da far pietà… se campa fino a domani è un miracolo.»

A questo racconto, i cinque ragazzi si erano tanto riscaldati, che non potendo più frenare il loro entusiasmo, saltarono al collo del cugino, lo abbracciarono, gli strinsero la mano, gli fecero mille carezze, Arnolfo volle dargli perfino un gran bacio.

Arrivati a casa, come è facile immaginarselo, andarono di corsa dal babbo per raccontargli la gran prova di coraggio che aveva dato Leoncino, combattendo a corpo a corpo con una terribile volpe che pareva un leone.

Leoncino, sentendo tutte queste lodi, non capiva più nella pelle dalla consolazione: e già si figurava di aver riconquistato il titolo di generale, la sciabola coll’impugnatura dorata, le spalline color dello zafferano e il berretto con quella striscia bianca, che luccicava come un gallone d’argento.

Quand’ecco che sul più bello entrò in sala la serva, annunziando che c’era Tonio, il guardaboschi, il quale desiderava di vedere il signor Leoncino.

«Fatelo passar qui» disse lo zio Giandomenico.

E di fatti il guardaboschi si presentò, tenendo il suo cappello in mano e portando sulla spalla una volpe impagliata, piena di ammaccature e ridotta in cattivissimo stato.

«Che cosa vuoi, Michele?», domandò lo zio.

«Dirò, padrone lustrissimo: stamani ho regalato questa volpe al sor Leoncino, che l’ha presa col dire che l’avrebbe portata alla villa… ma viceversa poi, l’ho ritrovata per caso nascosta nella macchia di Tentennino…»

«Dove?», gridarono i ragazzi a una voce. «Nella macchia di Tentennino?…»

E nel dir così, si scambiarono fra loro un’occhiata sbarazzina e maligna, che tradotta in lingua parlata voleva dire: «Ora abbiamo capito tutto!…».

Il povero caporal Leoncino, vedendosi oramai scoperto, diventò di tutti i colori, come i segnali delle strade ferrate.

«E guardi, padron lustrissimo», continuò il guardaboschi, «come me l’hanno conciata questa povera bestia!… Se sapessi chi s’è preso il divertimento di bastonarla a questo modo, pover’a lui!…»

Leoncino, che aveva le lacrime in pelle in pelle, uscì di corsa dalla stanza e andò a rinchiudersi in camera.

Venuta la sera, disse allo zio che voleva tornarsene subito a casa sua, dal suo babbo e dalla sua mamma. Lo zio Giandomenico si provò a sconsigliarlo e a farlo restare ancora per qualche giorno: ma non ci fu verso.

Mentre era sul punto di salire in tranvai, i suoi cugini (sempre un po’ monelli), lo baciarono e gli dissero addio: ma intanto gli bisbigliarono in un orecchio:

«Continua a combattere con le volpi impagliate: ma ricordati qualche volta il proverbio che dice: «Chi non ha coraggio, non vada alla guerra»».
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Quand’ero ragazzo! – Carlo Collodi

Quand’ero ragazzo! - Carlo Collodi

Quand’ero ragazzo! – Carlo Collodi

Mille anni fa, anch’io ero un ragazzetto, come voi, miei cari e piccoli lettori: anch’io avevo, su per giù, la medesima vostra età, vale a dire fra gli undici e i dodici anni. E com’è naturale, dovevo ancor’io andare tutti i giorni alla scuola, salvo il giovedì e la domenica. Ma i giovedì, nel corso dell’anno, erano così pochi!… Appena uno per settimana! E le domeniche?… Le domeniche era grazia di Dio, se ritornavano una volta ogni otto giorni.
 
 Anch’io andavo a scuola: ma non saprei dirvi se la mia scuola fosse elementare, o ginnasiale, o liceale, perché mille anni fa, ossia a’ miei tempi, la scuola si chiamava semplicemente scuola, e quando noi altri ragazzi si diceva scuola, s’intendeva parlare di una stanza piuttosto grande e quasi pulita, nella quale eravamo costretti a passare circa sei ore della giornata, e dove qualche volta s’imparava anche a leggere, a scrivere e a far di conto.
 
La scuola, alla quale andavo io, era una bella sala di forma bislunga, rischiarata da due finestre laterali, e con un gran finestrone nella parete di fondo, il quale stava sempre chiuso, rimanendo nascosto dietro una grossa tenda di colore verdone-cupo.
 
Presso le due pareti, a destra e a sinistra della cattedra del maestro, ricorrevano due lunghissimi banchi per gli scolari.
 
Gli scolari seduti a destra si chiamavano Romani, e quelli a sinistra, avevano il soprannome giocoso di Cartaginesi.
 
Tanto gli uni che gli altri erano capitanati da un imperatore: e per la dignità d’Imperatore si capisce bene che venivano scelti i due scolari, che nel corso del mese avevano ottenuto un maggior numero di meriti, sia per buoni portamenti, sia per lodevole prova fatta nelle lezioni giornaliere.
 
Una volta, me lo rammento sempre, il posto d’Imperatore dei Romani, toccò anche a me: ma fu una gloria passeggera. Dopo due ore appena di regno, per una delle mie solite birichinate, il maestro mi fece scendere dal seggio imperiale, e fui riconfinato in fondo alla panca. Eppure, sia detto per la verità, ebbi tanta forza da sopravvivere a quella sciagura, e in pochi minuti seppi darmene quasi pace. Si vede proprio che, fin da ragazzo, io non ero nato per far l’imperatore.
 
E ora indovinate un po’, in tutta la scuola, chi fosse lo scolaro più svogliato, più irrequieto e più impertinente?
 
Se non lo sapete, ve lo dirò io in un orecchio: ma fatemi il piacere di non starlo a ridire ai vostri babbi e alle vostre mamme.
 
Lo scolaro più irrequieto e impertinente ero io. Non passava giorno che non si sentisse qualche voce gridare:
 
«Signor maestro, che fa smettere Collodi?».
 
«Che cosa fa Collodi?»
 
«Mangia le ciliegie, e poi mi mette tutti i nòccioli nelle tasche del vestito.»
 
Allora il maestro scendeva dal suo seggio: mi faceva sentire il sapore acerbo delle sue mani secche e durissime, come se fossero di bossolo, e mi ordinava di cambiar posto.
 
Dopo un’ora che avevo cambiato posto, ecco un’altra voce che gridava:
 
«Signor maestro, che fa smettere Collodi?».
 
«Che cosa ti fa Collodi?»
 
«Acchiappa le mosche e poi me le fa volare dentro gli orecchi.»
 
Allora il maestro, dopo avermi dato un altro saggio della magrezza e della durezza delle sue mani, mi faceva mutar posto daccapo.
 
Fatto sta che a furia di mutar posto tutti i giorni, sulla panca dei Romani non c’era più un romano che volesse accettarmi per suo vicino.
 
Fui mandato, per ultimo ripiego, fra i Cartaginesi: e mi trovai accanto al più buon figliolo di questo mondo, un certo Silvano, grasso come un cappone sotto le feste di Natale, il quale studiava poco, questo è vero, ma dormiva moltissimo, confessando da se stesso che dormiva più volentieri sulle panche di scuola che sulle materasse del letto.
 
Un giorno Silvano venne a scuola con un paio di calzoni nuovi di tela bianca. Appena me ne accorsi, la prima idea che mi balenò alla mente fu quella di dipingergli sui calzoni un bellissimo quadretto, a tocco in penna. Tant’è vero che quando l’amico, secondo il suo solito, si fu appisolato coi gomiti appoggiati al banco e con la testa fra le mani, io, senza mettere tempo in mezzo, inzuppai ben bene la penna nel calamaio, e sul gambale davanti gli disegnai un bel cavallo, col suo bravo cavaliere sopra. E il cavallo lo feci con la bocca aperta in atto di mangiare dei grossi pesci, perché così si potesse capire che questo capolavoro era stato fatto di venerdì, giorno in cui generalmente tutti mangiano di magro.
 
Confesso la verità: ero contento di me. Più guardavo quel mio bozzetto, e più mi pareva di aver fatto una gran bella cosa.
 
Così, però, non parve al mio amico Silvano: il quale, svegliandosi dal suo pisolino e trovandosi sui calzoni bianchi dipinto con l’inchiostro un soldato e un cavallo che mangiava i pesci, cominciò a piangere e a strillare con urli così acuti, da far credere che qualcuno gli avesse strappato una ciocca di capelli.
 
«Che cosa ti hanno fatto?» gridò il maestro, rizzandosi in piedi e aggiustandosi gli occhiali sul naso.
 
«Ih!… ih!… ih!… Quel cattivaccio di Collodi mi ha dipinto tutti i calzoni bianchi!…» E dicendo così, alzò in aria la gamba, mostrando il disegno fatto da me con tanta pazienza e, oserei dire, con tanta bravura.
 
Tutti risero, ma il maestro disgraziatamente non rise. Anzi, invece di ridere, scese giù dal suo banco, tutto infuriato come una folata di vento; e senza perdersi in rimproveri e parlantine inutili… Basta! per un certo sentimento di pudor naturale, rinunzio a descrivervi i diversi argomenti maneschi, che egli pose in opera per farmi guarire dalla strana passione di dipingere i calzoni de’ miei compagni.
 
Peraltro, finita la scuola, il povero Silvano non voleva a nessun costo tornare a casa, vergognandosi a farsi vedere in mezzo alla strada con quella pittura, a tocco in penna, sulla gamba sinistra. Allora che cosa immaginai? Tanto per abbonirlo, gli appuntai sul davanti un foglio di carta bianca: il qual foglio, scendendogli giù fino al ginocchio, a guisa di grembiule, nascondeva agli sguardi indiscreti del pubblico e dei ragazzacci di strada il mio bellissimo capolavoro.
 
Il giorno dopo fu per me una giornata nera, indimenticabile.
 
Appena entrato nella scuola, il maestro, con un cipiglio da far paura, mi disse, accennandomi un banco solitario in fondo alla scuola:
 
«Prendi i tuoi libri e i tuoi quaderni, e va’ a sederti laggiù! Così ti troverai sempre solo e isolato da tutti… e così pagherai caro il bruttissimo vizio di molestare i compagni, che hanno la disgrazia di starti vicini».
 
Mogio, mogio, come un pulcino bagnato, chinai il capo e ubbidii.
 
Per il primo e il secondo giorno tollerai con rassegnazione la mia solitudine: ma il terzo giorno non ne potevo più: proprio non ne potevo più. I compagni mi guardavano e ridevano: mi pareva di essere in berlina.
 
Dietro le mie spalle, come sapete, rimaneva un gran finestrone sempre chiuso e sempre coperto da una tenda di grossissima tela verdone-cupo. In un momento di gran noia e mentre cercavo qualche passatempo per divagarmi, ecco che mi venne fatto di accorgermi che in quella tenda e precisamente all’altezza del mio capo, c’era un piccolissimo bucolino. Appena visto quel bucolino, il mio primo pensiero fu quello di allargarlo un poco per giorno, e di allargarlo fino al punto, da poterci passar dentro con tutta la testa.
 
Questo lavoro durò quasi una settimana, perché la tela della tenda era molto ruvida e resistente.
 
Alla fine, quando il bucolino diventò una buca, feci subito segno ai miei compagni di scuola di stare attenti, perché avrebbero visto un magnifico spettacolo. Detto fatto, approfittando di quel momento che il maestro stava rileggendo i nostri componimenti, entrai dietro la tenda e cominciai a lavorare col capo. La buca era grande: ma il mio capo era più grande, e non ci voleva entrare: io, però, pigiai tanto e poi tanto, che finalmente il capo c’entrò.
 
Figuratevi la risata sonora che scoppiò in tutta la scuola, quando la mia testa fu vista campeggiare in mezzo a quella tenda verdona, come se qualcuno ce l’avesse attaccata con quattro spilli. Ma il maestro, al solito, non volle ridere: e invece, movendosi dal suo banco, venne verso di me in atto minaccioso. Io, come è naturale, mi provai subito a levare il capo dalla tenda: ma il capo, che c’era entrato forzatamente, non voleva più uscire.
 
La mia paura in quel punto fu tale e tanta, che cominciai a piangere come un bambino.
 
Allora il maestro si voltò agli scolari, e in tono canzonatorio disse loro:
 
«Lo vedete là, il vostro amico Collodi, tanto buono, tanto studioso, tanto garbato co’ suoi compagni di scuola? Non vedete, poverino, come piange? Movetevi dunque a compassione di lui: alzatevi dalle vostre panche e andate a rasciugargli le lacrime!».
 
Vi lascio immaginare se quelle birbe se lo fecero dire due volte! Ridendo e schiamazzando, si schierarono in fila a uso processione: e passando a due per due dinanzi a me, mi strofinarono tutti il loro fazzoletto sul viso! E pensare che fra quei fazzoletti da naso, ve n’erano parecchi che non avevano mai visto in faccia né la lavandaia né la stiratora. Meno male che, a quell’età, tutti i nasi son fratelli fra loro!
 
La lezione fu acerba, ma salutare. Da quel giorno in poi mi persuasi che a fare i molesti e gl’impertinenti, si finisce nelle scuole per perdere la benevolenza del maestro e la simpatia dei nostri compagni. Diventai un buon figliuolo anch’io: rispettavo gli altri, e gli altri rispettavano me: e dopo un mese di lodevoli portamenti, fui nominato daccapo Imperatore dei Romani. I romani, però della mia scuola, invece di darmi il titolo di Maestà, continuarono sempre a chiamarmi col modestissimo nome di Collodi.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Pinocchio (parte 1) – Carlo Collodi

Pinocchio (parte 1) - Carlo Collodi

Pinocchio (parte 1) – Carlo Collodi

C’era una volta… 
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
 
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
 
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
 
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
 
 Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
 
– Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.
 
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi:
 
– Non mi picchiar tanto forte!
 
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
 
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?…
 
– Ho capito; – disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, – si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare.
 
E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
 
– Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina.
 
Questa volta maestro Ciliegia resta di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana. Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:
 
– Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io!
 
E cosi dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
 
Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
 
– Ho capito, – disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare.
 
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
 
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, senti la solita vocina che gli disse ridendo:
 
– Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!
 
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
 
Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.
 
Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali.
 
In quel punto fu bussato alla porta.
 
– Passate pure, – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
 
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla che somigliava moltissimo alla polendina di granturco.
 
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia e non c’era più verso di tenerlo.
 
– Buon giorno, mastr’Antonio, – disse Geppetto. – Che cosa fate costì per terra?
 
– Insegno l’abbaco alle formicole.
 
– Buon pro vi faccia!
 
– Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
 
– Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.
 
– Eccomi qui, pronto a servirvi, – replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi.
 
– Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea.
 
– Sentiamola.
 
– Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino; che ve ne pare?
 
– Bravo Polendina! – gridò la solita vocina, che non si capiva di dove uscisse.
 
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito:
 
– Perché mi offendete?
 
– Chi vi offende?
 
– Mi avete detto Polendina!…
 
– Non sono stato io.
 
– Sta un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
 
– No!
 
– Si!
 
– No!
 
– Si!
 
E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono.
 
Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname.
 
– Rendimi la mia parrucca! – gridò mastr’Antonio.
 
– E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace.
 
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
 
– Dunque, compar Geppetto, – disse il falegname in segno di pace fatta, – qual è il piacere che volete da me?
 
– Vorrei un po’ di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date?
 
Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando fu lì per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dette uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, ando a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.
 
– Ah! gli è con questo bel garbo, mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba? M’avete quasi azzoppito!…
 
– Vi giuro che non sono stato io!
 
– Allora sarò stato io!…
 
– La colpa è tutta di questo legno…
 
– Lo so che è del legno: ma siete voi che me l’avete tirato nelle gambe!
 
– Io non ve l’ho tirato!
 
– Bugiardo!
 
– Geppetto, non mi offendete; se no vi chiamo Polendina!…
 
– Asino!
 
– Polendina!
 
– Somaro!
 
– Polendina!
 
– Brutto scimmiotto!
 
– Polendina!
 
A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume degli occhi, si avvento sul falegname; e lì se ne dettero un sacco e una sporta.
 
A battaglia finita, mastr’Antonio si trovo due graffi di piu sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
 
Intanto Geppetto prese con se il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
 
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. prime monellerie del burattino.
 
La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.
 
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.
 
– Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.
 
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.
 
Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso.
 
Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito:
 
– Occhiacci di legno, perché mi guardate?
 
Nessuno rispose.
 
Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai.
 
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo.
 
Dopo il naso, gli fece la bocca.
 
La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo.
 
– Smetti di ridere! – disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro.
 
– Smetti di ridere, ti ripeto! – urlò con voce minacciosa.
 
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
 
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare.
 
Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
 
Appena finite le mani, Geppetto senti portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.
 
– Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!
 
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato.
 
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua, e voltandosi verso Pinocchio, gli disse:
 
– Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!
 
E si rasciugò una lacrima.
 
Restavano sempre da fare le gambe e i piedi.
 
Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
 
– Me lo merito! – disse allora fra sé. – Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!
 
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare.
 
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro.
 
Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.
 
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini.
 
– Piglialo! piglialo! – urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare.
 
Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e di impedire il caso di maggiori disgrazie.
 
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, frammezzo alle gambe, e invece fece fiasco.
 
Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli.
 
Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:
 
– Andiamo a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti!
 
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello.
 
Chi ne diceva una, chi un’altra.
 
– Povero burattino! – dicevano alcuni, – ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!…
 
E gli altri soggiungevano malignamente:
 
– Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!…
 
Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando:
 
– Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…
 
Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.
 
La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noia di sentirsi correggere da chi ne sa più di loro.
 
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giù attraverso ai campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori. Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
 
Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece:
 
– Crì -crì -crì !
 
– Chi è che mi chiama? – disse Pinocchio tutto impaurito.
 
– Sono io!
 
Pinocchio si voltò e vide un grosso Grillo che saliva lentamente su su per il muro.
 
– Dimmi, Grillo: e tu chi sei?
 
– Io sono il Grillo-parlante, ed abito in questa stanza da più di cent’anni.
 
– Oggi però questa stanza è mia, – disse il burattino, – e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.
 
– Io non me ne anderò di qui, – rispose il Grillo, – se prima non ti avrò detto una gran verità.
 
– Dimmela e spicciati.
 
– Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna! Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
 
– Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola e per amore o per forza mi toccherà studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.
 
– Povero grullerello! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te?
 
– Chetati. Grillaccio del mal’augurio! – gridò Pinocchio. Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:
 
– E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
 
– Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. – Fra tutti i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo, che veramente mi vada a genio.
– E questo mestiere sarebbe?…
 
– Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
 
– Per tua regola, – disse il Grillo-parlante con la sua solita calma, – tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione.
 
– Bada, Grillaccio del mal’augurio!… se mi monta la bizza, guai a te!
 
– Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…
 
– Perché ti faccio compassione?
 
– Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno.
 
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso sul banco un martello di legno lo scagliò contro il Grillo-parlante. Forse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì -crì -crì , e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
 
Pinocchio ha fame, e cerca un uovo per farsi una frittata; ma sul più bello, la frittata gli vola via dalla finestra.
 
Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, senti un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.
 
Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si converti in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello.
 
Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita.
 
Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.
 
E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli cosi lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via.
 
Allora piangendo e disperandosi, diceva:
 
– Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo e a fuggire di casa… Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame!
 
Quand’ecco gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.
 
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
 
– E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata?… No, è meglio cuocerlo nel piatto!… O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? No, la più lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo! Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!;.. spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
 
Ma invece della chiara e del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale, facendo una bella riverenza, disse:
 
– Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa!
 
Ciò detto distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio.
 
Il povero burattino rimase lì, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci delI’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra, per la disperazione, e piangendo diceva:
 
– Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame! Oh! che brutta malattia che è la fame!…
 
E perché il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole che gli avesse fatto l’elemosina di un po’ di pane.
 
Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati
 
Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna. Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.
 
Ma trova tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse; e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.
 
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a suonare a distesa, dicendo dentro di sé:
 
– Qualcuno si affaccierà.
 
Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito:
 
– Che cosa volete a quest’ora?
 
– Che mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane?
 
– Aspettami costì che torno subito, – rispose il vecchino, credendo di aver da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicollo che si divertono di notte a suonare i campanelli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente.
 
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:
 
– Fatti sotto e para il cappello.
 
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.
 
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame e perché non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.
 
E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.
 
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.
 
– Chi è? – domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
 
– Sono io, – rispose una voce.
 
Quella voce era la voce di Geppetto.
 
Geppetto torna a casa, rifà i piedi al burattino e gli dà la colazione che il pover’uomo aveva portata con sé
 
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi, che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.
 
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli. cascato da un quinto piano.
 
– Aprimi! – intanto gridava Geppetto dalla strada.
 
– Babbo mio, non posso, – rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
 
– Perché non puoi?
 
– Perché mi hanno mangiato i piedi.
 
– E chi te li ha mangiati?
 
– Il gatto, – disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
 
– Aprimi, ti dico! – ripetè Geppetto, – se no quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
 
– Non posso star ritto, credetelo. O povero me! povero me che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita!…
 
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
 
Da principio voleva dire e voleva fare: ma poi quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo, si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando:
 
– Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
 
– Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene; sei stato cattivo, e te lo meriti», e io gli dissi: «Bada, Grillo!…», e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un martello di legno, e lui morì ma la colpa fu sua, perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella… e tanti saluti a casa» e la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perché il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! Ih!… ih!… ih!… ih!…
 
E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano.
 
Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
 
– Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.
 
– Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
 
– Sbucciarle? – replicò Geppetto meravigliato.
 
– Non avrei mai creduto, ragazzo, mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!…
 
– Voi direte bene, – soggiunse Pinocchio, – ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.
 
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.
 
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:
 
– Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
 
– Ma io il torsolo non lo mangio davvero!… – gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera.
 
– Chi lo sa! I casi son tanti!… – ripetè Geppetto, senza riscaldarsi.
 
Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce.
 
Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
 
– Ho dell’altra fame!
 
– Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.
 
– Proprio nulla, nulla?
 
– Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.
 
– Pazienza! – disse Pinocchio, – se non c’è altro, mangerò una buccia.
 
E cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca; ma poi, una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce, anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si battè tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
 
– Ora sì che sto bene!
 
– Vedi dunque, – osservò Geppetto, – che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!…
 
Geppetto rifa i piedi a Pinocchio e vende la propria casacca per comprargli l’Abbecedario
 
Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perché voleva un paio di piedi nuovi.
 
Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata: poi gli disse:
 
– E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua?
 
– Vi prometto, – disse il burattino singhiozzando, – che da oggi in poi sarò buono…
 
– Tutti i ragazzi, – replicò Geppetto, – quando vogliono ottenere qualcosa, dicono così.
 
– Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore…
 
– Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia.
 
– Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia.
 
Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla passione di vedere il suo povero Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole: ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di grandissimo impegno.
 
E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti; due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.
 
Allora Geppetto disse al burattino:
 
– Chiudi gli occhi e dormi!
 
E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato, Geppetto con un po’ di colla sciolta in un guscio d’uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò così bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura.
 
Appena il burattino si accorse di avere i piedi, saltò giù dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriole, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.
 
– Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me, – disse Pinocchio al suo babbo, – voglio subito andare a scuola.
 
– Bravo ragazzo!
 
– Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po’ di vestito.
 
Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza di albero e un berrettino di midolla di pane.
 
Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase così contento di sé, che disse pavoneggiandosi:
 
– Paio proprio un signore!
 
– Davvero, – replicò Geppetto, – perché, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore. ma è piuttosto il vestito pulito.
 
– A proposito, – soggiunse il burattino, – per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio.
– Cioè?
 
– Mi manca l’Abbecedario.
 
– Hai ragione: ma come si fa per averlo?
 
– è facilissimo: si va da un libraio e si compra.
 
– E i quattrini?
 
– Io non ce l’ho.
 
– Nemmeno io, – soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.
 
E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi.
 
– Pazienza! – gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di fustagno, tutta toppe e rimendi, uscì correndo di casa.
 
Dopo poco tornò: e quando tornò aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca non l’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori nevicava.
 
– E la casacca, babbo?
 
– L’ho venduta.
 
– Perché l’avete venduta?
 
– Perché mi faceva caldo.
 
Pinocchio capì questa risposta a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.
 
Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini
 
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria, uno più bello dell’altro.
 
E discorrendo da sé solo diceva:
 
– Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno.
 
Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perché, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia… a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!…
 
Mentre tutto commosso diceva così gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì pì pì zum, zum, zum, zum.
 
Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.
 
– Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no…
 
E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola, o a sentire i pifferi.
 
– Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo, – disse finalmente quel monello facendo una spallucciata.
 
Detto fatto, infilò giù per la strada traversa, e cominciò a correre a gambe. Più correva e più sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della grancassa: pì pì
 
pì.. zum, zum, zum, zum.
 
Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.
 
– Che cos’è quel baraccone? – domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese.
 
– Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.
 
– Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.
 
– Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI…
 
– è molto che è incominciata la commedia?
 
– Comincia ora.
 
– E quanto si spende per entrare?
 
– Quattro soldi.
 
Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno, e disse senza vergognarsi al ragazzetto, col quale parlava:
 
– Mi daresti quattro soldi fino a domani?
 
– Te li darei volentieri, – gli rispose l’altro canzonandolo, – ma oggi per l’appunto non te li posso dare.
 
– Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta, – gli disse allora il burattino.
 
– Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavartela da dosso.
 
– Vuoi comprare le mie scarpe?
 
– Sono buone per accendere il fuoco.
 
– Quanto mi dai del berretto?
 
– Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in capo!
 
Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio; esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:
 
– Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?
 
– Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi, – gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.
 
– Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io, – gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.
 
E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!
 
I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio e gli fanno una grandissima festa; ma sul più bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine
 
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione.
 
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
 
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
 
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.
 
Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
 
– Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!…
 
– è Pinocchio davvero! – grida Pulcinella.
 
– è: proprio lui! – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
 
– è: Pinocchio! è Pinocchio! – urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte.
 
è Pinocchio! è il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio.
 
– Pinocchio, vieni quassù da me, – grida Arlecchino, – vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno!
 
A questo affettuoso invito Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.
 
è: impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevè in mezzo a tanto arruffio dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.
 
Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare:
 
– Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia!
 
Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.
 
Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.
 
All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano tutti come tante foglie.
 
– Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? – domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.
 
– La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!…
 
– Basta cosi! Stasera faremo i nostri conti.
 
Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiedo. E perché gli mancavano la legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
 
– Portatemi di qua quel burattino che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto.
 
Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente:
 
– Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, non voglio morire!…
 
Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino
 
Il burattinaio Mangiafoco che (questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», principiò subito a commuoversi e a impietosirsi e, dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté più, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.
 
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso, e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
 
– Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo.
 
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero, aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.
 
Dopo aver starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:
 
– Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina in fondo allo stomaco… Sento uno spasimo, che quasi quasi… ~
 
Etcì etcì~ – e fece altri due starnuti.
 
– Felicità! – disse Pinocchio.
 
– Grazie! E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? – gli domandò Mangiafoco.
 
– Il babbo, sì la mamma non l’ho mai conosciuta.
 
– Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra quei carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!.. Etcì etcì etcì – e fece altri tre starnuti.
 
– Felicità! – disse Pinocchio.
 
– Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma oramai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiedo qualche burattino della mia Compagnia… Olà, giandarmi!
 
A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.
 
Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:
 
– Pigliatemi lì quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene!
 
Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.
 
Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
 
– Pietà, signor Mangiafoco!…
 
– Qui non ci son signori! – replicò duramente il burattinaio.
 
– Pietà, signor Cavaliere!…
 
– Qui non ci son cavalieri!
 
– Pietà, signor Commendatore!…
 
– Qui non ci son commendatori!
 
– Pietà, Eccellenza!…
 
A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio:
 
– Ebbene, che cosa vuoi da me?
 
– Vi domando grazia per il povero Arlecchino!…
 
– Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene.
 
– In questo caso, – gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane, – in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me!…
 
Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte.
 
Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:
 
– Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio.
 
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.
 
– Dunque la grazia è fatta? – domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.
 
– La grazia è fatta! – rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando e tentennando il capo: – Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo, ma un’altra volta, guai a chi toccherà!…
 
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.
 
Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio, perché le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
 
– Come si chiama tuo padre?
 
– Geppetto.
 
– E che mestiere fa?
 
– Il povero.
 
– Guadagna molto?
 
– Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dovè vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.
 
– Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Vai subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia.
 
Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio, abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della Compagnia, anche i giandarmi: e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per tornarsene a casa sua.
 
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
 
– Buon giorno, Pinocchio, – gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
 
– Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino.
 
– Conosco bene il tuo babbo.
 
– Dove l’hai veduto?
 
– L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
 
– E che cosa faceva?
 
– Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.
 
– Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…
 
– Perché?
 
– Perché io sono diventato un gran signore.
 
– Un gran signore tu? – disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.
 
– C’è poco da ridere, – gridò Pinocchio impermalito. – Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.
 
E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.
 
Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi, che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accorse di nulla.
 
– E ora, – gli domandò la Volpe, – che cosa vuoi farne di codeste monete?
 
– Prima di tutto, – rispose il burattino, – voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.
 
– Per te?
 
– Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.
 
– Guarda me! – disse la Volpe. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.
 
– Guarda me! – disse il Gatto. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.
 
In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il solito verso e disse:
 
– Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!
 
Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ~ohi~ se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.
 
Mangiato che l’ebbe e ripulitasi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il cieco, come prima.
 
– Povero Merlo! – disse Pinocchio al Gatto, – perché l’hai trattato così male?
 
– Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.
 
Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:
 
– Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?
 
– Cioè?
 
– Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?
 
– Magari! E la maniera?
 
– La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi.
 
– E dove mi volete condurre?
 
– Nel paese dei Barbagianni.
 
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
 
– No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo». E io l’ho provato a mie spese, Perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!
 
– Dunque, – disse la Volpe, – vuoi proprio andare a casa tua? Allora vai pure, e tanto peggio per te!
 
– Tanto peggio per te! – ripetè il Gatto.
 
– Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.
 
– Alla fortuna! – ripetè il Gatto.
 
– I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.
 
– Duemila! – ripetè il Gatto.
 
– Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.
 
– Te lo spiego subito, – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricuopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.
 
– Sicché dunque, – disse Pinocchio sempre più sbalordito, – se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?
 
– è un conto facilissimo, – rispose la Volpe, – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina dopo ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.
 
– Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due.
 
– Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi!
 
– Te ne liberi! – ripetè il Gatto.
 
– Noi, – riprese la Volpe, – non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.
 
– Gli altri! – ripetè il Gatto.
 
– Che brave persone! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:
 
– Andiamo pure. Io vengo con voi.
 
L’osteria del Gambero Rosso
 
Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.
 
– Fermiamoci un po’ qui, – disse la Volpe, – tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli.
 
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
 
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
 
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dovè contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
 
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.
 
Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:
 
– Dateci due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire schiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.
 
– Sissignori, – rispose l’oste e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!…».
 
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano ~zin, zin, zin~, quasi volessero dire: «Chi ci vuole venga a prenderci». Ma quando Pinocchio fu sul più bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.
 
Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata.
 
– E i miei compagni sono pronti? – gli domandò il burattino.
 
– Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.
 
– Perché mai tanta fretta?
 
– Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.
 
– E la cena l’hanno pagata?
 
– Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.
 
– Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! – disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:
 
– E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
 
– Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno.
 
Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.
 
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale, facendo un salto indietro per la paura, gridava: – Chi va là? – e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: – Chi va là? chi va là? chi va là?
 
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.
 
– Chi sei? – gli domandò Pinocchio.
 
– Sono l’ombra del Grillo-parlante, – rispose l’animaletto, con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.
 
– Che vuoi da me? – disse il burattino.
 
– Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo che piange e si dispera per non averti più veduto.
 
– Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.
 
– Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me, ritorna indietro.
 
– E io, invece, voglio andare avanti.
 
– L’ora è tarda!…
 
– Voglio andare avanti.
 
– La nottata è scura…
 
– Voglio andare avanti.
 
– La strada è pericolosa…
 
– Voglio andare avanti.
 
– Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di loro capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono.
 
– Le solite storie. Buona notte, Grillo.
 
– Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini!
 
Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.
 
Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s’imbatte negli assassini
 
– Davvero, – disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio, – come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!». A questa parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non voler scappare, allora scapperei io, e così la farei finita…
 
Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscio di foglie.
 
Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce nere tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.
 
– Eccoli davvero! – disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.
 
Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancor fatto il primo passo, che sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli dissero:
 
– O la borsa o la vita!
 
Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino, e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.
 
– Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! – gridavano minacciosamente i due briganti.
 
E ii burattino fece col capo e colle mani un segno come dire: «Non ne ho».
 
– Metti fuori i denari o sei morto, – disse l’assassino più alto di statura.
 
– Morto! – ripetè l’altro.
 
– E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!
 
– Anche tuo padre!
 
– No, no, no, il mio povero babbo no! – gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli suonarono in bocca.
 
– Ah! furfante! Dunque i denari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali subito!
 
E Pinocchio, duro!
 
– Ah! tu fai il sordo? Aspetta un poco, che penseremo noi a farteli sputare!
 
Difatti, uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare screanzatamente, uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita.
 
Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo, a guisa di leva e di scalpello, fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua maraviglia quando, invece di una mano, si accorse di aver sputato in terra uno zampetto di gatto.
 
Incoraggiato da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini e, saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola, né si è saputo mai come facesse.
 
Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.
 
Non per questo si dettero per vinti: che anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare, come una candela agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre più, e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.
 
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, ~patatunfete!~… cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:
 
– Buon bagno, signori assassini.
 
E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accorse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi e grondanti acqua come due panieri sfondati.
 
Gli assassini inseguono Pinocchio; e, dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande
 
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve.
 
– Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo, – disse dentro di sé.
 
E senza indugiare un minuto riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E gli assassini sempre dietro.
 
E dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente tutto trafelato arrivò alla porta di quella casina e bussò.
 
Nessuno rispose.
 
Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso dè suoi persecutori.
 
Lo stesso silenzio.
 
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
 
– In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
 
– Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
 
– Sono morta anch’io.
 
– Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?
 
– Aspetto la bara che venga a portarmi via.
 
Appena detto così, la bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.
 
– O bella bambina dai capelli turchini, – gridava Pinocchio, – aprimi per carità! Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass…
 
Ma non poté finir la parola, perche sentì afferrarsi per il collo, e le solite due vociaccie che gli brontolarono minacciosamente:
 
– Ora non ci scappi più!
 
Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua.
 
– Dunque? – gli domandarono gli assassini, – vuoi aprirla la bocca,
 
sì o no? Ah! non rispondi?… Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!…
 
E cavato fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi,
 
~zaff…~ gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
 
Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.
 
– Ho capito, – disse allora uno di loro, – bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
 
– Impicchiamolo, – ripetè l’altro.
 
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.
 
Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai.
 
Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
 
– Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata.
 
E se ne andarono.
 
Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio di una campana che suona a festa. E quel dondolio gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli toglieva il respiro.
 
A poco a poco gli occhi gli si appannavano; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo… e balbettò quasi moribondo:
 
– Oh babbo mio! se tu fossi qui!…
 
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Puccettino -Charles Perrault

Puccettino -Charles Perrault

Puccettino -Charles Perrault

C’era una volta un taglialegna e una taglialegna, i quali avevano sette figliuoli, tutti maschi: il maggiore aveva dieci anni, il minore sette. Farà forse caso di vedere come un taglialegna avesse avuto tanti figliuoli in così poco tempo: ma egli è, che la sua moglie era svelta nelle sue cose, e quando ci si metteva, non faceva meno di due figliuoli alla volta.
 
E perché erano molto poveri, i sette ragazzi davano loro un gran pensiero, per la ragione che nessuno di essi era in grado di guadagnarsi il pane. La cosa che maggiormente li tormentava, era che il minore veniva su delicato e non parlava mai: e questo che era un segno manifesto di bontà del suo carattere, lo scambiavano per un segno di stupidaggine.
 
 Il ragazzo era minuto di persona; e quando venne al mondo, non passava la grossezza di un dito pollice; per cui lo chiamarono Puccettino. Capitò un’annata molto trista, nella quale la carestia fu così grande, che quella povera gente risolvettero di disfarsi de’ loro figliuoli. Una sera che i bambini erano a letto, e che il taglialegna stava nel canto del fuoco, disse, col cuore che gli si spezzava, alla sua moglie: «Come tu vedi, non abbiamo più da dar da mangiare ai nostri figliuoli: e non mi regge l’animo di vedermeli morir di fame innanzi agli occhi: oramai io sono risoluto a menarli nel bosco e farveli sperdere; né ci vorrà gran fatica, perché, mentre essi si baloccheranno a far dei fastelli, noi ce la daremo a gambe, senza che abbiano tempo di addarsene».
 
«Ah!», gridò la moglie, «e puoi tu aver tanto cuore da sperdere da te stesso le tue creature?» Il marito ebbe un bel tornare a battere sulla miseria, in cui si trovavano; ma la moglie non voleva acconsentire a nessun patto. Era povera, ma era madre: peraltro, ripensando anch’essa al dolore che avrebbe provato se li avesse veduti morire di fame, finì col rassegnarvisi, e andò a letto piangendo. Puccettino aveva sentito tutti i loro discorsi: e avendo capito, dal letto, che ragionavano di affari, si levò in punta di piedi, sgattaiolando sotto lo sgabello di suo padre, per potere ascoltare ogni cosa senz’esser visto. Quindi ritornò a letto, e non chiuse un occhio nel resto della nottata, rimuginando quello che doveva fare.
 
Si levò a giorno, e andò sul margine di un ruscello, dove si riempì la tasca di sassolini bianchi: poi chiotto chiotto se ne tornò a casa. Partirono, ma Puccettino non disse nulla ai suoi fratelli di quello che sapeva. Entrarono dentro una foresta foltissima, dove alla distanza di due passi non c’era modo di vedersi l’uno coll’altro.
 
Il taglialegna si messe a tagliar legne, e i ragazzi a raccogliere delle frasche per far dei fastelli. Il padre e la madre, vedendoli intenti al lavoro, si allontanarono adagio adagio, finché se la svignarono per un viottolo fuori di mano. Quando i ragazzi si videro soli, si misero a strillare e a piangere forte forte.
 
Puccettino li lasciò berciare, essendo sicuro che a ogni modo sarebbero tornati a casa; perché egli, strada facendo, aveva lasciato cadere lungo la via i sassolini bianchi che s’era messi nella tasca. «Non abbiate paura di nulla, fratelli miei», disse loro, «il babbo e la mamma ci hanno lasciati qui soli; ma io vi rimenerò a casa: venitemi dietro.» Essi infatti lo seguirono, ed egli li menò per la stessa strada che avevano fatta, andando al bosco.
 
Da principio non ebbero coraggi d’entrarvi: e si messero in orecchio alla porta di casa per sentire quello che dicevano fra loro, il padre e la madre. Ora bisogna sapere che quando il taglialegna e sua moglie rientrarono in casa, trovarono che il signore del villaggio aveva mandato loro dieci scudi, di cui era debitore da molto tempo, e sui quali non ci contavano più. Questo bastò per rimettere un po’ di fiato in corpo a quella povera gente, che era proprio a tocco e non tocco per morir di fame.
 
Il taglialegna mandò subito la moglie dal macellaro. E siccome era molto tempo che non s’erano sfamati, essa comprò tre volte più di carne di quella che ne sarebbe abbisognata per la cena di due persone. Quando furono pieni, la moglie disse: «Ohimè! dove saranno ora i nostri figliuoli? se fossero qui potrebbero farsi tondi coi nostri avanzi! Ma tant’è, Guglielmo, se’ stato tu che hai voluto smarrirli: ma io l’ho detto sempre che ce ne saremmo pentiti.
 
Che faranno ora nella foresta? Ohimè! Dio mio! i lupi forse a quest’ora l’hanno bell’e divorati. Proprio non bisogna aver cuore, come te, per isperdere i figliuoli a questo modo!…». Il taglialegna perse la pazienza, perché la moglie tornò a ripetere più di venti volte che egli se ne sarebbe pentito, e che essa l’aveva di già detto e ridetto: e minacciò di picchiarla se non si fosse chetata.
 
Questo non voleva dire che il taglialegna non potesse essere anche più addolorato della moglie; ma essa lo tormentava troppo: ed egli somigliava a tanti altri, che se la dicono molto colle donne che parlano con giudizio, ma non possono soffrire quelle che hanno sempre ragione. La taglialegna si struggeva in pianti, e seguitava sempre a dire: «Ohimè! dove saranno ora i miei bambini? i miei poveri bambini?». Una volta, fra le altre, lo disse così forte, che i ragazzi, che erano dietro l’uscio, la sentirono e gridarono tutti insieme: «Siamo qui! siamo qui!».
 
Essa corse subito ad aprir l’uscio e, abbracciandoli, disse: «Che contentezza a rivedervi, miei cari figliuoli! Chi lo sa come siete stanchi, e che fame avete! e tu, Pieruccio, guarda un po’ come ti sei inzaccherato! vien qua, che ti spillaccheri». Pieruccio era il maggiore dei figliuoli e la madre gli voleva più bene che agli altri, perché era rosso di capelli come lei. Si messero a tavola e mangiarono con un appetito, che fecero proprio consolazione al babbo e alla mamma, ai quali raccontarono, parlando quasi tutti nello stesso tempo, la gran paura che avevano avuta nella foresta.
 
Quella buona gente era tutta contenta di rivedere i figliuoli in casa; ma la contentezza durò finché durarono i dieci scudi. Quando questi finirono, tornarono al sicutera delle miserie, e allor decisero di smarrirli daccapo; e per andare sul sicuro, pensarono di condurli molto più lontani della prima volta.
 
Peraltro di questa cosa non poterono parlarne con tanta segretezza, che Puccettino non sentisse tutto; il quale pensò di cavarsene fuori col solito ripiego: se non che, quantunque si alzasse sul far del giorno per andare in cerca di sassolini bianchi, rimase proprio come quello, e non poté far nulla, perché trovò l’uscio di casa serrato a doppia mandata. Egli non sapeva davvero che cosa stillarsi, quando ecco che la madre dette a ciascuno di loro un pezzo di pane per colazione.
 
Allora gli venne in capo che di quel pane avrebbe potuto servirsene, invece dei sassolini, seminando i minuzzoli lungo la strada per dove sarebbero passati. E si messe il pane in tasca. Il padre e la madre li condussero nel punto più folto e più oscuro della foresta: e quando ci furono arrivati, essi presero una scappatoia e via. Puccettino non se ne fece né in qua né in là, perché sapeva di poter ritrovare facilmente la strada coll’aiuto dei minuzzoli sparsi; ma figuratevi come rimase, quando si accorse che i minuzzoli glieli avevano beccati gli uccelli.
 
Eccoli dunque tutti afflitti, perché più camminavano e più si perdevano nella foresta. Intanto si fece notte e si alzò un vento da far paura. Pareva ad essi di sentire da tutte le parti urli di lupi, che si avvicinavano per mangiarli. Non avevano fiato né per discorrere, né per voltarsi indietro.
 
Venne poi una grand’acqua che li bagnò fin sotto la pelle: a ogni passo sdrucciolavano e cascavano nella mota: e quando si rizzavano tutti infangati, non sapevano dove mettersi le mani. Puccettino montò in cima a un albero per vedere se scuopriva paese; e guardando da ogni parte, vide un lumicino piccino, come quello di una candela, il quale era lontano lontano, molto al di là della foresta. Scese dall’albero: e quando fu in terra, non vide più nulla.
 
Questa cosa gli diede un gran dolore. Nonostante, camminando innanzi coi suoi fratelli, verso quella parte dove aveva veduto il lumicino, finì col rivederlo da capo mentre usciva fuori del bosco. Arrivarono finalmente alla casa dove si vedeva questo lume: non senza provare delle grandi strette al cuore, perché di tanto in tanto lo perdevano di vista, segnatamente quando camminavano in qualche pianura molto bassa.
 
Picchiarono a una porta: una buona donna venne loro ad aprire, e domandò loro che cosa volevano. Puccettino disse che erano poveri ragazzi che s’erano spersi nella foresta, e che chiedevano da dormire per amor d’Iddio. La donna, vedendoli tutti così carini, si messe a piangere, e disse: «Ohimè! poveri miei figliuoli, dove siete mai capitati? Ma non sapete che questa è la casa dell’Orco che mangia tutti i bambini?». «Ah, signora», rispose Puccettino, il quale tremava come una foglia, e così i suoi fratelli. «Che cosa volete che facciamo? Se non ci pigliate in casa, è sicuro che i lupi stanotte ci mangeranno.
 
E in tal caso, è meglio che ci mangi questo signore. Forse se voi lo pregate, potrebbe darsi che avesse compassione di noi.» La moglie dell’Orco, sperando di poterli nascondere a suo marito fino alla mattina dopo, li lasciò entrare e li menò a riscaldarsi intorno a un buon fuoco, dove girava sullo spiede un montone tutt’intero, che doveva servire per la cena dell’Orco. Mentre cominciavano a riscaldarsi, sentirono battere tre o quattro colpi screanzati alla porta. Era l’Orco che tornava. In men d’un baleno, la moglie li nascose tutti sotto il letto ed andò ad aprire.
 
L’Orco domandò subito se la cena era lesta e il vino levato di cantina: e senza perder tempo si mise a tavola. Il montone non era ancora cotto e faceva sempre sangue, e per questo gli parve anche più buono. Poi, fiutando di qua e di là, cominciò a dire che sentiva odore di carne viva. «Sarà forse», disse la moglie, «quel vitello che ho spellato or ora, che vi mette per il naso quest’odore.» «E io dico che sento l’odore di carne viva», riprese l’Orco guardando la moglie di traverso, «e qui ci deve essere qualche sotterfugio!…»
 
Nel dir così si alzò da tavola e andò difilato verso il letto. «Ah!», egli gridò, «tu volevi dunque ingannarmi, brutta strega? Non so chi mi tenga dal fare un boccone anche di te. Buon per te, che sei vecchia e tigliosa! Ecco qui della selvaggina, che mi capita in buon punto per far trattamento a tre Orchi miei amici, che verranno da me in questi giorni.» E li tirò fuori di sotto il letto, uno dietro l’altro. Quei poveri bambini si buttarono in ginocchio, chiedendogli perdono, ma avevano da fare col più crudele di tutti gli Orchi, il quale, facendo finta di sentirne compassione, li mangiava di già cogli occhi prima del tempo, dicendo alla moglie che sarebbero stati una pietanza delicata, in specie se gli avesse accomodati con una buona salsa.
 
Andò a prendere un coltellaccio, e avvicinandosi a quei poveri figliuoli, lo affilava sopra una lunga pietra che egli teneva nella mano sinistra. E ne aveva già agguantato uno, quando la moglie gli disse: «Che ne volete voi fare a quest’ora? non sarebbe meglio aspettare a domani?». «Chetati, te!», riprese l’Orco. «Così saranno più frolli.» «Ma ve ne avanza ancora tanta della carne! C’è qui un vitello, un montone e un mezzo maiale…» «Hai ragione», disse l’Orco, «rimpinzali dunque per bene, perché non abbiano a smagrire, e portali a letto.»
 
Quella buona donna, fuor di sé dalla contentezza, dette loro da cena: ma essi non poterono mangiare a cagione della gran paura che avevano addosso. In quanto all’Orco, ricominciò a bere, soddisfattissimo di aver trovato di che regalare ai suoi amici. Vuotò una dozzina di bicchieri di più del solito, finché il vino gli die’ al capo e fu obbligato ad andare a letto. L’Orco aveva sette figliuole, che erano sempre bambine, le quali erano tutte di un bel colorito, perché, come il padre, si cibavano di carne cruda; ma avevano degli occhiettini grigi e tondi, e il naso a punta e una bocca larghissima, con una rastrelliera di denti lunghi, affilati e staccati l’uno dall’altro.
 
Non erano ancora diventate cattive: ma promettevano bene, perché di già mordevano i fanciulli per succhiare il sangue. Le avevano mandate a dormire di buon’ora, ed erano tutte e sette in un gran letto, ciascuna con una corona d’oro sulla testa. Nella stessa camera c’era un altro letto della medesima grandezza. Fu appunto in questo letto che la moglie dell’Orco messe a dormire i sette ragazzi; e dopo andò a coricarsi accanto a suo marito.
 
Puccettino, che s’era avviso che le figlie dell’Orco portavano una corona d’oro in capo, e che aveva sempre paura che l’Orco non si ripentisse di averli sgozzati subito, si levò verso mezzanotte, e prendendo i berretti dei fratelli ed il suo, andò pian pianino a metterli sul capo delle sette figlie dell’Orco, dopo aver loro levata la corona d’oro, che pose sul capo suo e de’ suoi fratelli, perché l’Orco li scambiasse per le proprie figlie, e pigliasse le sue figlie per i fanciulli che voleva sgozzare.
 
E la cosa andò appuntino com’egli se l’era figurata; perché l’Orco, svegliatosi sulla mezzanotte, si pentì di aver differito al giorno dopo quello che poteva aver fatto la sera stessa. Saltò dunque il letto bruscamente, e prendendo il coltellaccio: «Andiamo un po’ a vedere», disse, «come stanno queste birbe; e facciamola finita una volta per tutte».
 
Quindi salì a tastoni nella camera delle sue figlie, e si avvicinò al letto dove erano i ragazzi, i quali dormivano tutti, meno Puccettino, che ebbe una gran paura quando sentì l’Orco che gli tastava la testa, come l’aveva già tastata ai suoi fratelli. L’Orco sentendo la corona d’oro, disse: «Ora la facevo bella davvero! Si vede proprio che ieri sera ne ho bevuto mezzo dito di più». Allora andò all’altro letto, e avendo sentito i berretti dei ragazzi: «Eccoli», disse, «questi monellacci! Lavoriamo di fine». E nel dir così, senza esitare, tagliò la gola alle sue sette figliuole.
 
Contentissimo del fatto suo, andò di nuovo a coricarsi accanto alla moglie. Appena che Puccettino sentì l’Orco che russava, svegliò i suoi fratelli e disse loro di vestirsi subito e di seguirlo. Scesero in punta di piedi nel giardino e scavalcarono il muro. Corsero a gambe quasi tutta la notte, tremando come foglie, e senza sapere dove andavano. Quando l’Orco si svegliò, disse alla moglie: «Va’ un po’ a vestire quei monelli di ieri sera».
 
L’Orchessa restò molto meravigliata della bontà insolita di suo marito, e non le passò neanche dalla mente che per vestirli egli volesse intendere un’altra cosa, credendo in buona fede di doverli andare a vestire. Salì dunque di sopra, e rimase senza fiato in corpo, vedendo le sue sette figliuole scannate e immerse nel proprio sangue.
 
Cominciò subito dallo svenirsi, essendo questo il primo espediente, a cui in simili casi ricorrono tutte le donne. L’Orco, temendo che la moglie non mettesse troppo tempo a far quello che le aveva ordinato, salì di sopra anche lui per darle una mano; e non rimase meno sconcertato alla vista di quello spettacolo orrendo. «Ah! che ho mai fatto?», gridò. «Ma quei disgraziati me la pagheranno, e subito!»
 
E senza mettere tempo in mezzo, gettò una brocca d’acqua sul naso della moglie, e così avendola fatta tornare in sé: «Dammi subito», disse, «i miei stivali di sette chilometri, perché io li voglio raggiungere». E uscì fuori all’aperta campagna, e dopo aver corso di qua e di là, finalmente infilò la strada che battevano per l’appunto quei poveri ragazzi, che erano forse distanti non più di cento passi dalla casa paterna. Essi videro l’Orco che passava di montagna in montagna, traversando i fiumi colla stessa facilità come se fossero stati rigagnoli.
 
Puccettino avendo occhiata una roccia incavata, lì vicino al luogo dove si trovavano, vi fece nascondere i sei fratelli, e vi si nascose anch’esso, senza perdere peraltro di vista tutte le mosse dell’Orco. L’Orco che cominciava a sentirsi rifinito dalla strada fatta (perché gli stivali di sette chilometri son molto faticosi per chi li porta), pensò di ripigliar fiato, e il cielo volle che andasse per l’appunto a sedersi sopra la roccia, dove quei ragazzi si erano nascosti. E siccome era stanco morto, dopo essersi sdraiato si addormentò, e si messe a russare con tanto fracasso, che i poveri ragazzi ebbero la stessa paura di quando lo videro col coltellaccio in mano, in atto di far loro la festa.
 
Ma Puccettino non ebbe tutta questa paura, e disse ai fratelli di scappare a gambe verso casa, mentre l’Orco dormiva come un ghiro; e di non stare in pena per lui. Essi non se lo fecero dir due volte, e in pochi minuti arrivarono a casa. Puccettino intanto si avvicinò all’Orco: gli levò adagino gli stivali, e se l’infilò per sé.
 
Questi stivali erano molto grandi e molto larghi, ma perché eran fatati, avevano la virtù d’ingrandirsi e di rimpicciolirsi, secondo la gamba di chi li calzava: per cui, gli tornavano precisi, come se fossero stati fatti per il suo piede. Eglì andò di carriera alla casa dell’Orco, dove trovò la moglie che piangeva per le figlie uccise. «Vostro marito», le disse Puccettino, «si trova in un gran pericolo: è cascato fra le mani di una banda di assassini, che hanno giurato di ucciderlo, se non consegna loro tutto il suo oro e il suo argento.
 
Mentre gli stavano col pugnale alla gola, esso mi ha visto, e mi ha pregato di venir qui per avvertirvi della sua trista condizione e per invitarvi a darmi tutto quello che egli possiede di prezioso, senza ritenervi nulla, perché caso diverso, lo uccideranno senz’ombra di misericordia. E siccome il tempo stringe, egli ha voluto che prendessi i suoi stivali di sette chilometri, come vedete, e non solo perché mi spicciassi, ma anche perché possiate accertarvi che non sono un imbroglione.»
 
La buona donna, tutta spaventata, gli diede ogni cosa che aveva; perché l’Orco, in fin dei conti, era un buon marito, quantunque fosse ghiotto di bambini. Puccettino, col carico addosso di tutte le ricchezze dell’Orco, tornò a casa del padre, dove fu accolto con grandissima festa.
 
C’è per altro della gente che non crede che la cosa finisse così; e pretendono che Puccettino non commettesse mai questo furto a danno dell’Orco: e che solo non si facesse scrupolo di prendergli gli stivali di sette chilometri, perché egli se ne serviva unicamente per dare la caccia ai ragazzi. Questi tali accertano di aver saputo la verità proprio sul posto, per essersi trovati a mangiare e bere nella stessa casa del taglialegna.
 
Raccontano, dunque, che quando Puccettino ebbe infilato gli stivali dell’Orco, se ne andò alla Corte, dove stavano tutti in gran pensiero per un’armata, che era in campagna alla distanza di duecento chilometri, e per l’esito di una battaglia data pochi giorni avanti. Dimodoché Puccettino andò a trovare il Re e gli disse che se lo desiderava avrebbe potuto portargli le notizie dell’armata, prima del calar del sole.
 
E il Re gli promise una grossa somma, se egli fosse stato da tanto. La sera stessa Puccettino ritornò colle notizie dell’armata; e questa prima corsa avendolo messo in buona vista, guadagnava quel che voleva; perché il Re lo pagava profumatamente, valendosi di lui per portare i suoi ordini al campo; e un’infinità di signore gli davano quel che chiedeva, per aver le nuove dei loro amanti; e questo fu il guadagno più concludente di tutti gli altri.
 
Ci furono anche alcune mogli che gli consegnarono delle lettere per i loro mariti; ma esse pagavano coi gomiti, e il profitto era così meschino, che egli non si degnò nemmeno di segnare nel libro degli utili i piccoli benefizi che gli pervenivano per questo titolo. Dopo aver fatto per qualche tempo il mestiere del corriere, e avere ammassato grandi ricchezze, ritornò alla casa di suo padre, dove non è possibile immaginarsi la festa che gli fecero nel rivederlo fra loro.
 
Egli messe la sua famiglia nell’agiatezza; comprò degl’impieghi, di recente fondazione, per il padre e per i fratelli: formò a tutti uno stato conveniente; e gli rimase sempre un ritaglio di tempo, tanto da fare il damerino colle signore. La storia di questo piccolo eroe, che i francesi chiamano Petit Poucet, perché era grande appena come il dito pollice, è stata forse inventata apposta per dar ragione e autorità a quell’antico proverbio che dice: «Gli uomini non si misurano a canne!».
 
Charles Perrault

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