Hansel e Gretel – Jachob y Wilhelm Grimm

Hansel e Gretel - Jachob y Wilhelm Grimm

Hansel e Gretel – Jachob y Wilhelm Grimm

Nella periferia di un piccolo villaggio, al limite del bosco, viveva una famiglia di taglialegna composta dai genitori e da due figli: Hansel e Gretel. I bambini vivevano felici a contatto con la natura che li circondava. Il loro lavoro preferito era quello di raccogliere i frutti del bosco. Una sera, mentre stavano per rincasare, dopo aver giocato nel centro del bosco, udirono un lontano suono simile al pianto di un bambino. – È il pianto di un neonato… – Esclamò Gretel.

 – Cerchiamolo- Disse Hansel.
Penetrarono tra gli alberi, nella direzione dalla quale proveniva il lamento. Nel frattempo si stava facendo buio e tutto diventava grigio.

– Torniamo, ho una paura tremenda! -Disse Gretel.
– Sei una codarda e una fifona! – Replicò spavaldamente Hansel.
– Tua sorella ha ragione, Hansel. È da stupidi girare per il bosco a quest’ora, quindi è meglio che torniate indietro!
I bambini ebbero un sobbalzo. Chi aveva parlato?
– Sono io, sono qui… Siete forse ciechi?

Hansel fu il primo a vederlo:

– Un corvo che parla? – Disse.
– In realtà -Rispose il corvo – io sono un nano dalla barba bianca che ha subìto un incantesimo. È stata una strega e il suo maleficio continuerà fino alla sua morte.
– Hai sentito il pianto di un bambino? -Chiese Gretel.
– State tranquilli, avete udito me.
– Sei tu?!- Rise Hansel – Non dire fesserie! Tu hai la voce come quella del vecchio Snipe, l’ubriacone del villaggio: cavernosa.

Il corvo stava per rispondere loro quando intervenne Gretel:

– Non essere maleducato, Hansel! Capisco quello che ti è successo, nanetto, e sepotessi ti aiuterei.
– Sei molto buona, piccola. Non sei certo come quel discolo di tuo fratello. Vi confiderò un segreto… Se andate più avanti, troverete una casetta di cioccolata!
– Una casa di cioccolata – Intervenne Hansel, che era molto goloso. -Dove, dove?
– Pochi passi ancora e ci sarete.
– Non sarà un trucco per farci del male?
– Presto la potrete vedere. È tutta colorata, piena di caramelle sulle pareti e sul tetto. È fatta di cioccolato, di torrone e marzapane…! È una delizia! Dentro troverete tutti i tipi di dolci.
– E potremo mangiarli? – Chiese ancora Hansel.
– Certo – Rispose il corvo. – Basta volerlo,seguitemi!
I bambini non se lo fecero ripetere due volte e, come l’uccello gli aveva detto, in una radura del bosco incontrarono…
– Che meraviglia! – Esclamò Gretel.
– C’è veramente! Pancia mia fatti capanna! – Disse entusiasta, Hansel.

La realtà superava la fantasia. Al fianco della porta c’erano dei bastoni di zucchero.
Le pietre del sentiero erano caramelle di tutti i gusti: mente, limone, banana, pino… Quando si avvicinarono alla casa si aprì la porta e una donna, vecchia e sdentata, li incoraggiò.

– Avanti, entrate figlioli, siete giunti in tempo. Ho appena finito di fare questa torta che dice:»Mangiami!» Volete assaggiarla?
– Certamente! – Disse Hansel, più deciso, come sempre, di sua sorella.
I due bambini cominciarono a mangiare tutto quello che la donna gli portava. Poi, una volta sazi, decisero di andarsene.
– Grazie, buona signora. Non ne possiamo più di mangiare, torneremo a trovarla un’altra volta. È stata molto buona con noi. – Disse Hansel.
– Il bosco è già buio, fermatevi a dormire qui. Domani sarà un altro giorno. -Disse la vecchia.
– Lo faremmo volentieri. – Replicò Hansel. – Ma i nostri genitori ci stanno aspettando… Se il nanett… Il signorcorvo, ci farà da guida, non tarderemo a tornare a casa.
– Niente affatto. – Disse il corvo. – Ho troppo sonno.
– Allora ce ne andiamo da soli. – Disse Hansel. – Andiamo, sorella mia.

La padrona di casa cessò improvvisamente di sorridere e, infuriata,gridò:

– Fermo dove sei, ragazzino! Voi non tornerete dai vostri genitori, né ora né mai più! Come mi piacciono i fanciulli teneri e grassottelli!

Il corvo, appollaiato sulla spalla della vecchia strega, gridava:

– Arrostiti, con le patatine, saranno una delizia! Ti consiglio una ricetta di mia nonna: si mettono le cipolle, alloro e rosmarino, in una pentola e poi…

Hansel e Gretel, terrorizzati, ascoltavano increduli la ricetta dello stufato del corvo, di cui loro erano ingredienti principali.

Tremanti di paura dissero:

– Come siamo stati stupidi a cadere in questa trappola!
Hansel per consolare la sorella disse:
– Non temere ci salveremo!
La brutta strega, che aveva sentito tutto, ridendo disse:
– Hai sentito, corvo? Dicono che se ne andranno da qui!
– Certo, – rispose il corvo – con le ossa linde e pulite! Ho voglia di mangiarmeli subito, li mangiamo adesso?
– no, golosone,aspetteremo che ingrassino un po’ ancora. Il bimbo è magro e alla bambina un paio di chili in più non guasteranno… Una buona razione di dolci al giorno li farà diventare come li desideriamo!

Prese Hansel per le bretelle e disse:

– In cella finché non ingrassi. E non opporre resistenza!

Gli sforzi del piccolo risultarono inutili.
Fu buttato in una stanza senza finestre che comunicava con un’altra cella da dove Hansel poteva vedere la sorella. Allora disse:

– Non dobbiamo disperarci, Gretel, fatti coraggio!
-Oh, Hansel, ci vogliono mangiare!
– Per il momento siamo ancora vivi… Ora, però, ascoltami bene: la vecchia è corta di vista. L’ho capito perché guarda come quel contadino del paese che non riconosce un asino da dieci passi!

Spiegò tutto il suo piano e concluse:

– Non ti opporre, fa quello che ti chiedono. Dobbiamo guadagnare tempo.

Il bambino era orgoglioso del suo piano e guardava soddisfatto il topolino che aveva assistito al dialogo dei due fratelli.
Ma la situazione era disperata. Hansel lo sapeva. Si guardava intorno alla ricerca di una possibile via di fuga; ma invano, la cella era solida, a prova di fuga.
Il trucco che aveva ideato avrebbe funzionato per un po’ di tempo, ma poi? Certamente la strega si sarebbe accorta dell’inganno e… Tremò di paura e fu colto dallo sconforto. Però non si dette per vinto.
Chiamò sua sorella attraverso le sbarre per tracciare un secondo piano d’azione, l’unico possibile.
Ella ascoltò le parole del fratello. Voleva credere in una possibilità di salvezza, per quanto improbabile fosse.
Il giorno seguente, la strega si avvicinò alla cella della bambina e le disse:

– Tira fuori un dito, Gretel, che voglio vedere se sei ingrassata.

Come prevedeva il piano di Hansel, la piccina fece passare attraverso le sbarre, un ossicino di pollo, avanzato la sera prima.

La strega palpando, senza accorgersi dell’inganno,pensò:
<< Gli dovrò dare più cibo, è ancora molto magra.>>
La stessa cosa successe con il bambino.
Il giorno seguente si ripeté la stessa scena e allora Gretel disse alla strega:

– Visto che dovrò rimanere qui per tanto tempo perché non mi fai uscire? Potrei aiutarti nelle faccende domestiche, finché non ti deciderai a mangiarmi.

La vecchia strega rimase pensierosa per alcuni momenti, poi si decise e disse:

– Mi sembra una buona idea, ma bada, se cerchi di fuggire mi mangio subito tuo fratello!

Però nel vedere la bimba girare per casa, la strega,che era molto golosa, decise che se la sarebbe mangiata per cena.
Gretel intuì la cosa e in fretta cercò la chiave della cella, la aprì e liberò Hansel.

– Cosa facciamo adesso?
– Aspetta, bisogna riflettere. – Disse Hansel guardandosi attorno.

Poi vide il corvo appollaiato sul manico del mestolo, sopra al pentolone che bolliva, ed ebbe un’idea.
In quel momento, infatti, la strega si trovava china sul pentolone, tutta intenta nei preparativi dell’ambita cena.
Fu proprio allora che Hansel, ricordando quello che il corvo gli aveva confidato nel bosco in relazione al maleficio di cui era vittima, gridò:

– Corvo, uccidi la strega!

L’uccello, che non aspettava che questa occasione,balzò sulla strega e le diede una tremenda beccata sulla testa, facendola finire nel pentolone.
Poi si rivolse ai due fratelli e disse:

– Fuggite!

Hansel e Gretel, non se lo fecero ripetere, fuggirono a gambe levate e non tornarono mai più in quella parte del bosco

Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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I musicanti di Brema – Jachob y Wilhelm Grimm

I musicanti di Brema - Jachob y Wilhelm Grimm

I musicanti di Brema – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un vecchio asino che aveva lavorato sodo per tutta la vita. Ormai non era più capace di portare pesi e si stancava facilmente, per questo il suo padrone aveva deciso di relegarlo in un angolo della stalla ad aspettare la morte.
L’asino però non voleva trascorrere così gli ultimi anni della sua vita. Decise di andarsene a Brema, dove sperava di poter vivere facendo il musicista.
Si era incamminato da poco quando incontrò un cane, magro e ansante.
«Come mai hai il fiatone?» gli chiese.
«Sono dovuto scappare in tutta fretta per salvare la pelle» gli rispose il cane. «Il mio padrone voleva uccidermi, perché ora che sono vecchio non gli servo più».
«Purtroppo è vero – continuò – non sono più capace di rincorrere la selvaggina come una volta, e sono così debole che non spavento più nessuno. Ma ora come farò a procurarmi da mangiare?»concluse depresso.
«Vieni a Brema con me» suggerì l’asino. «Laggiù faremo fortuna con la musica: io suonerò il liuto e tu mi darai il ritmo con il tamburo» Il cane accettò la proposta e s’incamminò con il nuovo amico.
Non avevano percorso molta strada che s’imbatterono in un gatto che miagolava disperato.
«Cosa ti è successo per lamentarti in questa maniera?» gli chiese l’asino.

«Sono vecchio e soffro d’artrite, per questo non sono più agile come una volta e devo stare al caldo. Ma vedendomi riposare vicino al caminetto, ieri il mio padrone si è infuriato, mi ha accusato di essere un fannullone, mi ha rimproverato di non saper acciuffare nemmeno un topolino e mi ha cacciato da casa. Senza pietà! Pensare che l’ho servito fedelmente per tutta la vita!… Ora non so proprio dove andare, non so proprio come sbarcare il lunario!» rispose singhiozzando il gatto.

«Allora vieni a fare il musicista con noi a Brema» gli dissero insieme l’asino e il cane.

Il gatto non se lo fece ripetere due volte e pieno di speranza si unì a loro.
Passando davanti ad una fattoria, furono distratti da un gallo che schiamazzava rincorso da una massaia.
«Mi vuole tirare il collo! Vuole me perché non ha un tacchino da cucinare per il pranzo della domenica! Mi vuole tirare il collo!» urlava terrorizzato.
I tre compari gli gridarono: «Vieni con noi! Con la tua bella voce conquisteremo Brema!»

Non ebbero il tempo di aggiungere altro che, appollaiato sulla schiena dell’asino, sentirono il gallo che li incitava:
«Corriamo, corriamo, prima che la padrona mi acchiappi!»
Una corsa disperata fin nel folto del bosco. Lì finalmente ripresero fiato!
Ormai si era fatto buio e, si sa, di notte non è prudente viaggiare. Dovevano cercare qualcosa da mangiare e un posto per dormire almeno per quella notte. Rifocillati e riposati, l’indomani sarebbero ripartiti per Brema.
Fu allora che sentirono dei rumori …
Nascosti tra i cespugli, si guardarono intorno … videro una casa: ecco da dove arrivavano brusio, risate e… un profumo d’arrosto!
Erano così stanchi e così affamati!
Cercando di non fare rumore si avvicinarono alla casa e, con cautela, sempre senza farsi scorgere, guardarono all’interno attraverso la finestra.
Non potevano credere ai loro occhi! In mezzo alla stanza c’era un tavolo colmo di buone cose: un tacchino ripieno, mortadelle invitanti, formaggi di tutti i tipi, pane d’ogni forma, torte stupende, frutta profumata,…
«Potremmo chiedere ospitalità…» non ebbero il tempo di aggiungere altro, che i quattro amici videro avvicinarsi al tavolo quattro ceffi paurosi. Dunque quello era il covo dei briganti!
Se quei tipacci li avessero visti, sarebbe stata la loro fine!
Si sa che la fame aguzza l’ingegno!
Nascosti tra i cespugli, studiarono un piano diabolico, che avrebbe spaventato quei briganti, così da obbligarli a scappare dal loro covo e da lasciare tutto quel ben di dio da mangiare a loro completa disposizione.
Nel buio e nella tranquillità della notte, interrotti solo dalla luce che irradiava dall’interno della casa e dal vociare sguaiato dei briganti, si avvicinarono alla finestra.
In silenzio perfetto l’asino appoggiò le zampe sul davanzale, il cane balzò sul dorso dell’asino, il gatto si arrampicò fin sulla testa del cane e il gallo si appollaiò sulle spalle del gatto.
Quindi ad un cenno dell’asino, diedero inizio al loro primo concerto:
… e fu tutto un ragliare, abbaiare, miagolare e schiamazzare.
Un inferno! Terrorizzati, i quattro briganti cercarono la salvezza fuori dalla casa, ma all’uscita furono investiti da un essere che calciava, graffiava, mordeva, beccava!
Un INFERNO! Scapparono per non tornare mai più in quel luogo maledetto!
I quattro amici non ci pensarono due volte: si precipitarono all’interno della casa, senza esitare si sedettero intorno al tavolo… e …
credo che siano ancora lì che mangiano e ridono, che ridono e mangiano…
Lì era il Paradiso!
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il lupo e i sette capretti – Jachob y Wilhelm Grimm

Il lupo e i sette capretti - Jachob y Wilhelm Grimm

Il lupo e i sette capretti – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta una capra che allevava da sola i suoi sette piccoli capretti. Essa li amava teneramente, ma le davano molte preoccupazioni, perché erano spesso disubbidienti e sbadati. Inoltre temeva sempre per la loro vita, perché questi piccoli imprudenti pensavano solo a giocare, sgambettando senza tregua ai margini della foresta, là dove si aggirava il loro nemico di sempre ed il più sanguinario: il grande lupo. Un giorno prima di andare nel bosco a cercare freschi germogli d’arboscelli per il pasto della sera, la capra radunò i suoi piccoli per metterli di nuovo in guardia.
 
– Devo assentarmi per alcune ore, non lasciate entrare nessuno dentro casa. Siate diffidenti perché il lupo è astuto, può falsare la sua voce e mascherare il suo aspetto. Ma voi potrete riconoscerlo a colpo sicuro dalle zampe che sono nere.
– Saremo saggi e prudenti – promisero i capretti – non apriremo la porta a nessuno se non mostrerà le zampe bianche.
La capra se ne partì abbastanza tranquilla. Qualche minuto dopo alcuni colpi furono battuti alla porta.
 
– Aprite, aprite miei cari piccoli, è vostra madre che ha dimenticato il suo scialle e le sue cesoie.
– Uuh! Uuh! – dissero scherzosamente i sette capretti – abbiamo riconosciuto la tua brutta voce, brutto diavolo di un lupo e non ti apriremo la porta.
 
Il lupo se ne andò via umiliato, ma lungo il cammino comperò un pezzetto di zucchero filato che succhio per addolcire la sua voce rauca. Ritornò di soppiatto e da dietro la porta disse con una voce melliflua: – Aprite miei cari figli, è la vostra mamma che porta dolciumi per voi.
Purtroppo per lui, il lupo, sbadato, aveva posato le sue zampe nere sull’orlo della finestra e fu quindi subito riconosciuto. I capretti gridarono scherzosamente:
 
– Uuh! Uuh! Signor lupo zampe nere, ti sei tradito!
Contrariato e affamato il lupo concepì un nuovo inganno. Corse zoppicando dal fornaio e gli disse:
– Mi sono ferito, mettetemi un impiastro di pasta cosparso di farina, mi allevierà il dolore.
A quei tempi era un rimedio abituale, pertanto il fornaio non sospettò i neri disegni del lupo che ripartì con la zampa destra imbiancata come desiderava. Ingannati dalla voce mielosa e dalla zampa bianca i poveri capretti alla fine aprirono la porta. Apparve il lupo, terribile, con la schiuma alla bocca, tutto nero, con fuori una grande e avida lingua rossa.
 
– Aiuto! Soccorso! – belarono i poveri piccoli, saltando sotto la tavola, nel letto, nell’armadio o nella vasca da bagno, nella speranza di sfuggire all’orribile bestia.
Ma il lupo, eccitato e morto di fame, li trovò tutti e l’inghiottì in un boccone uno dopo l’altro, con il pelo e gli zoccoli. Uno solo di loro scampò alla carneficina, perché si era nascosto nell’orologio a pendolo, rannicchiato sotto il pesante bilanciere di rame.
 
Dopo poco tempo mamma capra bussò alla porta e trovando la sua casa devastata, scoppiò in singhiozzi. Nessun belato rispondeva alla sua chiamata. Comprese allora che il lupo l’aveva preceduta.
Ad un tratto la poveretta drizzò le orecchie: dalla cassa dell’orologio proveniva un debole rumore e infine, sotto la pressione dei piccoli zoccoli, la sua porticina si aprì e ne uscì un capretto in lacrime che si precipitò ad abbracciare la madre raccontandole le astuzie del lupo e la triste fine dei suoi fratelli. La capra disse tra sé:
 
– Non deve essere andato molto lontano dopo una tale scorpacciata. Ingordo com’è, può darsi ci sia una speranza di ritrovare vivi i tuoi fratelli.
 
Afferrata la sua borsa per il cucito, si diresse di corsa verso la foresta. La capra non dovette andar lontano. Sazia, sdraiata ai piedi di un albero, la cattiva bestia si muoveva curiosamente. Con molta abilità la capra gli tagliò la pancia con un gran colpo di forbici.
Il lupo dormiva così bene che si mosse appena e non si accorse di niente.
 
Con grande gioia della loro madre i capretti uscirono sani e salvi, uno dopo l’altro, dallo stomaco del lupo. Per ordine della capra essi portarono sei grosse pietre che furono poste nella pancia del lupo che fu ricucito alla perfezione. Corsero poi tutti insieme ad appostarsi sul parapetto di un ponte.
 
Quando il lupo si svegliò, fu preso da una gran sete. Appesantito, corse verso la riva del fiume e per bere si sporse, ma trascinato dal peso delle pietre, colò a picco e s’annegò.
I capretti e la loro mamma ne furono molto felici.
 
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Il pentolino magico – Jachob y Wilhelm Grimm

Il pentolino magico - Jachob y Wilhelm Grimm

Il pentolino magico – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un contadino che aveva una figliola. Egli andava a giornata; la figliola filava stoppa o tesseva tela per conto delle vicine: così si guadagnavano la vita.
Avvenne una gran siccità: nei campi non nacque un filo d’erba, e non ci fu più da lavorare per nessuno dei due. Avevano un gruzzoletto, messo prudentemente da parte nel buon tempo, e per parecchi mesi poterono tirare innanzi, vivendo quasi a pane e acqua. Il padre sospirava pensando all’avvenire; ma la ragazza, gioviale anche con la miseria, canticchiava da mattina a sera,come quand’era al telaio e con la rocca al fianco e lo stomaco pieno. Il padre brontolava: – Con che cuore canti? Ci rimane da mangiare appena per altri due giorni!
 
– Quando sarò morta, non canterò più.
– Mentre parlavano comparve sulla soglia una donna scarna, allampanata, che pareva il ritratto della fame.
– Fate la carità, buona gente!
– Siamo più miseri di voi, – rispose il padre. – Rivolgetevi altrove.
 
La ragazza invece prese la pagnottella che doveva essere il suo desinare di quel giorno e la porse alla vecchia:
– Mangiatela voi per me.
– Grazie, figliola.
Intascata la pagnottella, la vecchina cavò di sotto lo scialle unto e stracciato una padellina nuova di rame:
– Tieni, figliola; non ho altro; forse ti servirà.
 
E andò via. La ragazza si rimise a canterellare, picchiando con le nocche delle dita sulla padellina, che dava un bel suono; poi, per gioco, la posò sul focolare spento e, ridendo, disse al padre:
– Che volete? Una costoletta? Una frittata? E non aveva ancora finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto.
– Oh, che miracolo, figliola mia! Siamo ricchi!
 
Nella padellina fumavano due costolette da bastare anche per quattro persone; e quando furono cotte, il fuoco si spense da sé. Metà ne mangiarono padre e figlia, metà ne spartirono tra le vicine più povere di loro. L’odore si sentiva per tutta la via.
D’allora in poi, a ogni mezzogiorno, la ragazza metteva la padellina sul focolare spento e domandava al padre:
– Che volete? Una costoletta? Una frittata?
– Una frittata.
 
E poco dopo la frittata era bell’e cotta da poter bastare fino per otto persone.
Parte ne mangiavano padre e figlia, parte ne dividevano tra le vicine più povere di loro. L’odore si sentiva per tutta la via. La cosa fece scalpore. Le stesse vicine che ricevevano la carità cominciarono a ciarlare: come mai padre e figlia, con quella miseria, senza guadagno alcuno, se la scialavano a quel modo?
 
Le ciarle giunsero fino all’orecchio del Re. Giusto in quei giorni la Regina s’era ammalata con un’inappetenza che non le permetteva di prendere nessun cibo, e i medici non sapevano come rimediarvi. La Regina avrebbe voluto qualcosa da ristorarla col solo odore, e il cuoco si stillava il cervello per accontentarla. Ma davanti alle pietanze più squisite, la Regina torceva il capo nauseata:
 
– Portatele via; mi si rivolta lo stomaco.
Il Re, che aveva sentito parlare del buon odore delle pietanze di quei contadini, disse ai medici:
– Proviamo a far preparare il pranzo della Regina da costoro. Forse, per la stranezza, lo gradirà.
 
E mandò a chiamare la ragazza.
– Vuoi essere la cuoca della Regina?
– Come piace a Vostra Maestà.
– Vieni ad abitare nel palazzo reale.
– A un patto, Maestà. In cucina, con me, dovrà stare soltanto mio padre.
– Soltanto tuo padre.
 
Giunta l’ora del desinare, la ragazza si presentò alla Regina:
– Maestà, che volete? Una costoletta? Una frittata?
– Una costoletta.
 
La ragazza mandò via di cucina tutte le persone ch’erano a servizio del Re, dal cuoco allo sguattero, si chiuse a chiave dentro insieme col padre, e mise la padellina sul focolare spento:
– Padellina, una costoletta!
La Regina, all’odore della costoletta fumante nel piatto, si sentì ristorare:
– Benedette le tue mani, ragazza mia!
Mangiò con grand’appetito, come da più settimane non faceva, e in segno della sua gratitudine regalò alla ragazza una collana di brillanti.
– Maestà, questa è una collana da regina, non da contadina mia pari.
– Sei regina anche tu, regina di tutte le cuoche.
 
E gliela mise al collo con le proprie mani.
Ogni giorno, a ogni pranzo era un nuovo regalo; ora una spilla con un magnifico smeraldo, ora boccole di perle grosse come uova, ora un braccialetto finemente cesellato e tempestato di rubini.
– Maestà, è ornamento da regina, non da contadina mia pari.
– Sei regina anche tu, regina di tutte le cuoche.
 
In corte non si ragionava che di quei mirabili pranzi; e i medici erano stupiti che il grave male della Regina fosse già guarito col semplice rimedio o d’una costoletta o d’una frittata, giacchè la padellina non dava altro.
Un giorno il Reuccio entrò in camera della Regina che ella aveva appena terminato di mangiare l’ultimo boccone.
 
– Che buon odore, Maestà!
– Odor di costoletta, Reuccio.
Un altro giorno:
– Che buon odore, Maestà!
– Odor di frittata, Reuccio.
– Sempre le stesse cose, Maestà?
– Sempre; ma ogni volta hanno un sapore diverso.
– E come fa la vostra cuoca?
– Lo sa lei.
 
Il Reuccio entrò in grande curiosità, e volle andare in cucina per vederla lavorare.
– In cucina dobbiamo starei soltanto mio padre e io.
– Io sono il Reuccio!
– Reuccio o non Reuccio, ho la parola di Sua Maestà; in cucina dobbiamo starei soltanto mio padre e io.
 
Il Reuccio, indispettito, afferrò la padellina ch’era lì tutta affumicata e gliela strofinò sulla faccia, annerendogliela come quella d’una mora e se ne andò chiudendo la ragazza e il padre nella casa come prigionieri.
Quel giorno, per caso, avevano da mangiare.
 
Il giorno dopo però cominciarono a provar fame.
Erano come murati in casa e non potevano nemmeno gridare al soccorso!
– Ah, poveri noi! Morremo di fame.
 
La padellina stava appesa a un chiodo, pulita e luccicante qual era rimasta dal momento che il Reuccio l’aveva strofinata sulla faccia della ragazza.
La ragazza la guardava in cagnesco, con gli occhi pieni di lacrime, e si sentiva gorgogliare in gola: «Maledetta la padellina e chi me la dette!».
La vide smuoversi e la sentì risonare come quando la prima volta vi aveva picchiato su con le nocche delle dita.
La staccò dal chiodo, la posò sul focolare spento, e disse al padre:
 
– Che volete? Una costoletta? Una frittata?
Non aveva finito di parlare, che una fiammata si accese, e la padellina cominciò a friggere, spandendo attorno un odore che avrebbe risuscitato un morto.
Padre e figlia, a una voce, esclamarono:
– Benedetta la padellina e chi ce la dette!
 
Corsero alla porta, ma il paletto non si poteva muovere; corsero alla finestra, ma il lucchetto era più duro del paletto.
Intanto il buon odore delle pietanze si sentiva nella via.
Il Re, saputa la cosa, mandò subito a prendere la ragazza.
– Aprite, vi vuole Sua Maestà.
– Non possiamo aprire; aprite voi.
 
Il Re manda i fabbri per forzare la serratura o sfondare la porta; i fabbri tentano, ritentano, ma inutilmente.
Manda allora i muratori per fare un gran buco nel muro; ma i picconi si spuntano, il muro par fatto di bronzo.
La Regina agonizzava.
Il Re avrebbe dato metà del suo regno pur di vederla risanare con le costolette e le frittate della padellina miracolosa.
Che fare con quella serratura, con quella porta e con quel muro che resistevano a tutto?
Un giorno finalmente la Regina chiude gli occhi e rimane immobile: la credono morta, e si leva un gran pianto per tutto il palazzo reale.
 
Il Re, dalla disperazione e dal dolore, si strappava i capelli.
A un tratto la Regina riapre gli occhi e dice:
– Ho fatto un sogno. Mi pareva d’essere stata portata dietro la porta di quella casa, e che il solo odore delle pietanze m’avesse risanata. Maestà, voglio provare se il sogno è veritiero.
I servitori presero il letto come una barella e portarono la Regina dietro la porta che non poteva aprirsi.
– Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l’odore delle tue pietanze, regina!
 
Non rispose nessuno, e non si sentì odore di sorta.
– Regina delle cuoche, fammi sentire almeno l’odore delle tue pietanze, regina!
Non rispose nessuno, e non si sentì alcun odore.
Il Re, quasi piangendo, gridò:
 
– Regina delle cuoche, se fai sentire l’odore delle tue pietanze, sarai Regina per davvero.
– Maestà, – disse un ministro, – che cosa vi e scappato di bocca! Parola di Re non va indietro.
– E non andrà! Partano cento corrieri e vadano in cerca del Reuccio.
– E se il Reuccio non vorrà sposarla?
 
– L’adotterò per figliola, e sarà Reginotta.
Si sentì subito un odore delizioso che si sparse per tutta la via.
La Regina annusava e rinasceva da morte a vita.
Annusavano il Re, i ministri, il seguito di corte, la folla pigiata nella via attorno al letto della Regina, e tutti si sentivano riempire lo stomaco, quasi avessero pranzato lautamente.
 
Per parecchie settimane, nessuno pensò a fare spesa e ad accendere un fornello.
Aspettavano che la Regina fosse portata col letto dietro la porta di quella casa, e appena l’odore delle pietanze cominciava a spandersi, si vedevano mille e mille nasi per aria annusare avidamente, e da lì a poco scoppiavano dei grand’Ah! di soddisfazione, come dopo un pranzo copioso.
 
I corrieri reali eran partiti subito alla ricerca del Reuccio, ma le settimane passavano, nessuno di essi tornava, e l’odore intanto veniva meno di giorno in giorno, con gran terrore del Re e della Regina che non era ancora ristabilita in salute.
 
La gente, preso gusto a quel genere di pranzo così buono e che non costava niente, malediva quegli stupidi corrieri incapaci di trovare il Reuccio.
Una mattina, inaspettatamente, ecco uno dei corrieri e poi un altro e poi un altro, scalmanati, sfiniti.
– Avete trovato il Reuccio?
– Non l’abbiamo trovato.
Due giorni dopo, ecco l’ultimo più scalmanato e più sfinito degli altri.
– Hai trovato il Reuccio?
– No, ma ho trovato chi sa dov’è. È un pastore che guarda le pecore laggiù, laggiù. Disse: «Indovinami prima quest’indovinello e poi saprai dov’è il Reuccio». Non l’ho indovinato e non me l’ha detto.
– Che indovinello?
Non ero nato per fare il pastore,
Eppur dovevo mungere e tosare.
– Bestia! È lui! – gridò il ministro, che di mungere e tosare se n’intendeva assai. – Conducimi dov’egli si trova.
E partì insieme col corriere.
Infatti era proprio lui.
Ne aveva viste e patite tante, fino a essersi ridotto a fare il guardiano di pecore, che non gli pareva vero tornare Reuccio, anche a patto di sposare la regina delle cuoche.
 
Appena arrivato, andò a picchiare alla porta che non si poteva aprire.
– Sono il Reuccio.
Invece della porta si aprì la finestra, e comparve la ragazza con la faccia nera e la padellina in mano; la padellina era affumicata.
– Questa è la mia dote!?
 
Chi mi vuole per mogliera
Deve farsi la faccia nera.
E se nera non la fa,
D’onde viene se n’andrà.
 
Il Reuccio esitava; non gli andava doversi impiastricciare di fumo al cospetto di tanta gente radunatasi alla notizia del suo arrivo.
Poi si strinse nelle spalle, prese la padellina e, chiusi gli occhi, se la strofinò sulla faccia, tingendosi peggio di un moro.
E mentre la sua anneriva, quella della ragazza ridiventava bianca come la cera.
 
– Ora potete entrare.
Infatti la porta si spalancò da sé, e il Reuccio trovò sulla soglia la ragazza vestita come una regina, con la collana, lo spillone, gli orecchini e i braccialetti regalatile quando faceva la cuoca; sembrava una regina nata, tanto era bella e dignitosa.
Il popolo applaudiva:
 
– Viva la Reginotta! Viva il Reuccio!
E nello stesso tempo rideva, vedendo costui tutto impiastricciato a quel modo; ma rise per poco.
La ragazza prese il grembiule, lo passò sulla faccia del Reuccio, e in men che non si dica gliela ripulì.
Prima che si sposassero, la Regina era già bell’e guarita.
Le feste delle nozze durarono un mese intero.
 
– E della padellina che ne faremo? – disse il Reuccio.
– Si faccia un bando: «Chi ha una padellina, venga a sfregarla con questa; friggerà da sé egualmente».
Figuriamoci che cuccagna! Pareva tutti i giorni un festino.
La gente si dava bel tempo, e all’ora del pranzo mettevano le padelline sui fornelli spenti:
– Padellina, una costoletta! Padellina, una frittata!
E tutte le padelline friggevano; la gente mangiava a ufo.
Frittate e costolette avevano ogni volta un sapore diverso.
Ma, purtroppo, chi non lavora non è mai contento!!? Cominciarono a brontolare:
– Sempre costolette! Sempre frittate!
 
La Fata che aveva regalato la padellina portentosa alla ragazza, in premio della carità da lei fatta, si sdegnò di quell’ingratitudine, e un bel giorno, anzi, un brutto giorno, prese di nuovo le sembianze di vecchina e si presentò alla Reginotta.
 
– Sono quella della padellina. Brontolano: «Sempre costolette! Sempre frittate!». Ecco qui un’altra padellina che frigge diversamente.
Strofinino le loro con questa e vedranno il miracolo.
 
Corsero tutti, strofinarono, e si trovarono canzonati.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il principe ranocchio e la principessa – Jachob y Wilhelm Grimm

Il principe ranocchio e la principessa - Jachob y Wilhelm Grimm

Il principe ranocchio e la principessa – Jachob y Wilhelm Grimm

Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana: nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
 
Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: – Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.
 
Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme. Ah, sei tu, vecchio sciaguattone! – disse, – piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte.
 
– Chétati e non piangere, – rispose il ranocchio, – ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco?
– Quello che vuoi, caro ranocchio, – diss’ella, – i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d’oro.
Il ranocchio rispose: – Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d’oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d’oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d’oro.
 
– Ah sì, – diss’ella, – ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla.
Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell’acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! »
Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott’acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull’erba. La principessa, piena di gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via.
– Aspetta, aspetta! – gridò il ranocchio: – prendimi con te, io non posso correre come fai tu.
Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non l’ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.
Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d’oro – plitsch platsch, plitsch platsch – qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: – Figlia di re, piccina, aprimi!
Ella corse a vedere chi c’era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio.
Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: – Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c’è forse un gigante che vuol rapirti?
 
– Ah no, – rispose ella, – non è un gigante, ma un brutto ranocchio.
– Che cosa vuole da te?
– Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d’oro cadde nell’acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l’ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell’acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me.
 
Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare:
– Figlia di re, piccina, aprimi!
Non sai più quel che ieri m’hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi!
Allora il re disse: – Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va’ dunque, e apri -.
 
Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia.
Lì si fermò e gridò: – Sollevami fino a te.
La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: – Adesso avvicinami il tuo piattino d’oro, perché mangiamo insieme.
La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia.
 
Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: – Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire.
La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito.
 
Ma il re andò in collera e disse: – Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno.
Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo.
Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: – Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre.
Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: – Adesso starai zitto, brutto ranocchio!
 
Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti.
Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo.
Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all’infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono.
 
La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d’oro; e dietro c’era il servo del giovane re, il fedele Enrico.
 
Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall’angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto.
 
Allora si volse e gridò:- Rico, qui va in pezzi il cocchio!
– No, padrone, non è il cocchio,
bensì un cerchio del mio cuore,
ch’era immerso in gran dolore,
quando dentro alla fontana
tramutato foste in rana.
 
Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti – Jachob y Wilhelm Grimm

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti - Jachob y Wilhelm Grimm

Il tavolino magico, l’asino d’oro e il randello castigamatti – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un sarto, che aveva tre figli e una sola capra. Ma siccome la capra li nutriva tutti col suo latte, dovevano darle erba buona e condurla al pascolo ogni giorno. I figli lo facevano a turno. Una volta il maggiore la portò al camposanto, dove c’era l’erba più bella, e la lasciò pascolare e scorazzare. La sera, venuta l’ora del ri torno, domandò:
 
 – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose: – Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
– Allora vieni a casa, – disse il ragazzo; la prese per la fune, la condusse nella stalla e la legò.
– Be’, – disse il vecchio sarto, – la capra ha avuto la sua pastura?
– Oh, – rispose il figlio, – ha mangiato a sua voglia, e non ci sta più foglia -.
 
Ma il padre volle persuadersene lui stesso, andò nella stalla, accarezzò la cara bestiola e domandò: – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
 
-Che cosa mi tocca sentire! -esclamò il sarto; corse di sopra e disse al ragazzo: – Ehi, bugiardo! dici che la capra ha mangiato a voglia, e le hai fatto patir la fame? – E, incollerito, staccò il metro dalla parete e lo cacciò fuori a botte.
Il giorno dopo, toccò al secondo figlio, che scelse un posto accanto alla siepe, dove c’era solo erba buona; e la capra se la mangiò. La sera, prima di tornare a casa, egli domandò:
 
– Capra, hai a tua voglia? –
 
La capra rispose: – Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
Allora vieni, – disse il ragazzo; la portò a casa e la legò nella stalla.
Be’,- disse il vecchio sarto, – la capra ha avuto la sua pastura?
 
– Oh, – rispose il figlio, – ha mangiato a sua voglia e non ci sta più foglia-.
Il sarto non si fidò, scese nella stalla e domandò: – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
– Scellerato, furfante! – gridò il sarto: – far patir la fame a una bestia tanto buona! – Corse di sopra, e cacciò fuori il figlio a colpi di metro.
 
Ora toccò al terzo figlio; questi volle farsi onore, cercò i cespugli più frondosi e fece pascolare la capra. La sera, prima di andare a casa, le domandò:
 
– Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La capra rispose:- Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
– Allora vieni a casa, – disse il ragazzo; la condusse nella stalla e la legò.
– Be’, – disse il vecchio sarto, – la capra ha avuto tutta la sua pastura?
– Oh, – rispose il figlio, – ha mangiato a sua voglia e non ci sta più foglia -.
 
Il sarto non si fidava, andò nella stalla e domandò: – Capra, hai mangiato a tua voglia? –
La bestia malvagia rispose: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
 
– Oh, razza di bugiardi! – esclamò il sarto: – tutti a un modo, scellerati e sleali! Non mi gabberete più-. E fuor di sé dalla collera, corse di sopra e diede il metro sulla schiena al povero ragazzo, con tanta forza, ch’egli schizzò di casa.
Ora il vecchio sarto era solo con la sua capra. La mattina dopo, scese nella stalla, l’accarezzò e disse:
– Vieni, cara bestiola, ti porterò io stesso al pascolo -. La prese per la fune e la condusse lungo siepi verdi, nel millefoglio e altre erbe che piacciono alle capre.
 
– Una volta tanto puoi mangiare a sazietà, – le disse, e la lasciò pascolare fino a sera. Allora domandò:
– Capra, hai mangiato a tua voglia? –
Essa rispose: – Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
– Allora vieni a casa, – disse il sarto; la condusse nella stalla e la legò. Andandosene, si voltò ancora a dirle: – Stavolta hai proprio mangiato a tua voglia! –
 
Ma la capra non lo trattò meglio e gridò: – Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
All’udirla, il sarto rimase attonito e capì di aver scacciato i suoi figli senza motivo. – Aspetta, – esclamò, – ingrata creatura! Scacciarti è troppo poco: ti concerò in modo che non potrai più farti vedere fra sarti per bene -.
 
Corse su in un lampo, prese un rasoio, insaponò la testa della capra e la rase come il palmo della mano. E siccome il metro sarebbe stato troppo onorevole, prese la frusta, e le diede tali botte, che essa scappò via a gran balzi.
Il sarto, solo solo nella sua casa, cadde in profonda malinconia e avrebbe voluto riavere i suoi figli, ma nessuno ne sapeva nulla.
 
Il maggiore era andato a imparare il mestiere da un falegname. Lo imparò con gran zelo e quando, finito il tirocinio, dovette partire, il maestro gli regalò un tavolino di legno comune, niente di speciale a vederlo; ma aveva una gran virtù: quando lo si metteva in terra e si diceva: – Tavolino, apparecchiati! – ecco il bravo tavolino coprirsi di una linda tovaglietta, con un piatto e una posata, e vassoi di lesso e d’arrosto quanti ce ne potevan stare, e un bicchierone di vin rosso che scintillava da rallegrare il cuore.
 
Il giovane apprendista pensò: « Ne hai per tutta la vita ». Se ne andò allegramente per il mondo e non gli importava che una locanda fosse buona o cattiva, e ci si potesse o no trovar qualcosa. Quando gliene saltava il ticchio, non si fermava neanche a un’osteria, ma in un campo, nel bosco, in un prato, come gli piaceva, si toglieva il tavolino dalle spalle, se lo metteva davanti e diceva:
– Tavolino, apparecchiati! – ed ecco pronto tutto quel che desiderava.
Alla fine pensò di tornar da suo padre: la collera si era certo placata e, con il tavolino magico, l’avrebbe accolto volentieri. Ora avvenne che la sera, sulla via del ritorno, giunse in una locanda piena di gente: gli diedero il benvenuto e l’invitarono a sedersi e a mangiare con loro; se no, difficilmente avrebbe ancora trovato qualcosa.
 
– No, – rispose il falegname, – non voglio togliervi quei due bocconi; piuttosto sarete voi miei ospiti -. Si misero a ridere, pensando che si burlasse di loro. Ma egli mise in mezzo alla stanza il suo tavo lino di legno e disse:
– Tavolino, apparecchiati! – Ed eccolo guarnito di cibi squisiti, quali l’oste non avrebbe mai potuto fornire, e il cui profumo solleticava piacevolmente il naso degli avventori.
– Coraggio, cari amici! – disse il falegname; e quelli, vedendo che faceva sul serio, non se lo fecero dire due volte, si avvicinarono, estrassero i loro coltelli e non fecero complimenti.
 
E meraviglioso era che ogni piatto, non appena vuoto, veniva subito sostituito da uno colmo. L’oste stava a guardare in un angolo, non sapendo che dire; ma pensava: « Un simile cuoco ti ci vorrebbe proprio per la tua locanda! » Il falegname e la sua brigata se la spassarono fino a tarda notte; alla fine andarono a letto e anche il giovane apprendista si coricò, appoggiando il suo tavolino magico alla parete.
 
Ma l’oste continuava ad almanaccare; gli venne in mente che nel ripostiglio c’era un vecchio tavolino, identico all’aspetto; l’andò a prendere pian piano e lo scambiò con quello magico. La mattina dopo il falegname pagò il conto, si caricò del tavolino, senza sospettare che fosse falso, e se ne andò per la sua strada. A mezzogiorno giunse dal padre, che l’accolse con gran gioia.
– Be’, caro figlio, cos’hai imparato? – gli chiese. – Babbo, son diventato falegname.
– Un bel mestiere, – replicò il vecchio, – ma cos hai portato dal viaggio?
– Babbo, il meglio che abbia portato è il tavolino -.
 
Il sarto l’osservò da ogni parte e disse: – Non hai fatto un capolavoro: è un tavolino vecchio e brutto.
– Ma è un tavolino magico, – rispose il figlio: – quando lo metto in terra e gli dico: « Apparecchiati! » subito vi compaiono le più squisite vivande e un vino che rallegra il cuore. Invitate tutti i parenti e gli amici, che una volta tanto si ristoreranno: il tavolino li sazia tutti -.
 
Quando la compagnia fu raccolta, mise il suo tavolino in mezzo alla stanza e disse:
– ‘Tavolino, apparecchiati! – Ma quello non si mosse e rimase vuoto, come qualsiasi altro tavolo che non capisce la lingua. Allora il povero apprendista s’accorse che il tavolino gli era stato scambiato e si vergognava di far la figura del bugiardo. Ma i parenti lo presero in giro, e tornarono a casa, senza aver mangiato né bevuto. Il padre tirò fuori le sue pezze e continuò a fare il sarto e il figlio andò a lavorare a bottega.
 
Il secondo figlio aveva imparato il mestiere da un mugnaio. Finiti gli anni di tirocinio, il padrone gli disse:
– Ti sei comportato cosi bene, che ti regalo un asino speciale: non tira il carretto e non porta sacchi.
– E a che serve? – domandò il giovane garzone.
– Butta oro! – rispose il mugnaio: – se lo metti su un panno e dici: « Briclebrit », questa buona bestia butta monete d’oro, di dietro e davanti.
– E’ una bella cosa! – disse il giovane; ringraziò il padrone e se ne andò per il mondo.
 
Quando aveva bisogno di denaro, bastava che dicesse al suo asino: « Briclebrit! » e piovevan monete d’oro; la sua sola fatica era di raccoglierle da terra. Dovunque andasse, non gli garbavan che le cose più fini, e quanto più care tanto meglio, perché aveva la borsa sempre piena. Dopo aver girato un po il mondo, pensò: « Dovresti tornar da tuo padre: se arrivi con l’asino d’oro, scorderà la sua collera e ti accoglierà bene ».
 
Ora avvenne ch’egli capitò nella stessa locanda in cui avevano sostituito il tavolino a suo fratello. Se ne arrivò con il suo asino, e l’oste voleva prender l’animale e legarlo, ma il giovane disse:
– Non datevi pena, il mio Rabicano lo porto io nella stalla e lo lego io; devo saper dov’è -.
 
La cosa parve strana all’oste, che pensò: « Uno che al suo asino deve provveder da sé, non ha certo molto da spendere ». Ma quando il forestiero trasse di tasca due monete d’oro e gli disse di badar solo a comprargli qualcosa di buono, fece tanto d’occhi e corse a cercar il meglio che potesse trovare. Dopo pranzo, il giovane chiese quanto gli dovesse; l’oste non volle lesinare nel conto e gli disse che ci volevano altre due monete d’oro. Il garzone frugò in tasca, ma l’oro era alla fine.
 
– Aspettate un attimo, signor oste, – disse, – vado soltanto a prendere il denaro -.
Ma portò con sé la tovaglia. L’oste, che non sapeva come spiegar la cosa, pieno di curiosità, lo segui pian piano; e poiché l’altro chiuse la porta della stalla col catenaccio, sbirciò da una fessura. Il forestiero stese la tovaglia sotto l’asino, disse: « Briclebrit! » e subito dalla bestia cadde una vera pioggia d’oro, di dietro e davanti.
 
– Capperi! – disse l’oste: – è presto fatto coniar ducati! Non è male un simile borsellino! –
Il giovane pagò e andò a dormire; ma durante la notte l’oste scese di nascosto nella stalla, portò via il direttore della zecca e legò un altro asino al suo posto. La mattina dopo, di buon’ora, il garzone se ne andò con la bestia, credendola il suo asino d’oro. A mezzogiorno arrivò dal padre che, tutto lieto di rivederlo, l’accolse con gioia.
 
– Cosa sei diventato, figlio mio? – gli domandò il vecchio.
– Mugnaio, caro babbo, – rispose.
– Cos’hai portato dal viaggio?
-Soltanto un asino.
– Asìni ce n’è abbastanza anche qui, – disse il padre, – sarebbe stato meglio una bella capra.
– Si, – rispose il figlio, – ma non è un asino comune, è un asino d’oro; se dico: « Briclebrit! » la buona bestia vi riempie di monete d’oro una tovaglia. Fate venire i parenti, che li faccio tutti ricchi.
– Benissimo! – disse il sarto: – cosi non ho più bisogno d’affaticarmi con l’ago -.
 
E corse a chiamare i parenti. Appena furon tutti riuniti, il mugnaio fece far posto, stese la tovaglia e portò l’asino nella stanza.
– Adesso state attenti, – disse; e gridò: – Briclebrit! – Ma non caddero precisamente monete d’oro, e apparve chiaro che la bestia non conosceva affatto quell’arte: perché non tutti gli asini ci arrivano. Allora il povero mugnaio fece la faccia lunga, accorgendosi d’essere stato ingannato, e domandò scusa ai parenti, che tornarono a casa, poveri com’eran venuti. Non c’era scampo: il vecchio dovette riprender l’ago e il giovane entrò a servizio da un mugnaio.
 
Il terzo fratello era andato a imparar il mestiere da un tornitore; ed essendo un mestiere raffinato, dovette far pratica più a lungo. Ma i fratelli gli narrarono per lettera le loro disgrazie, e come proprio l’ultima sera l’oste li avesse derubati dei loro begli oggetti magici.
 
Quando il tornitore ebbe finito il tirocinio e dovette partire, per la sua buona condotta il padrone gli regalò un sacco e gli disse:
 
– C’è dentro un randello.
– Il sacco me lo metterò in spalla e può ben servirmi, ma che ci fa il randello? è soltanto un peso.
– Te lo dirò, – rispose il padrone: – se qualcuno ti ha fatto del male, basta che tu dica: « Randello, fuori del sacco! » e il randello salta fuori e balza così allegro sulla schiena della gente, da farla stare otto giorni a letto; e non la smette se tu non dici: « Randello, dentro nel sacco! » –
 
L’apprendista lo ringraziò, si mise il sacco in spalla e se qualcuno gli veniva addosso per aggredirlo, egli diceva: « Randello, fuori dal sacco! » E subito il randello saltava fuori e li spolverava l’un dopo l’altro sulla schiena, e non la smetteva finché c’era giubba o farsetto; e andava cosi svelto, che non te l’aspettavi ed era già il tuo turno.
La sera, il giovane tornitore giunse all’osteria dov’erano stati ingannati i suoi fratelli. Mise il suo sacco accanto a sé sulla tavola e cominciò a raccontare tutte le meraviglie vedute per il mondo.
 
– Già, – disse, – ci si può trovare un tavolino magico, un asino d’oro e simili: bellissime cose, che io non disprezzo; ma tutto questo è nulla a confronto del tesoro che mi son guadagnato e che ho qui nel mio sacco -.
 
L’oste tese gli orecchi: « Che può mai essere? – pensò: – il sacco è certo pieno di gemme; mi parrebbe giusto averlo: non c’è due senza tre ». Quando fu l’ora di dormire, il forestiero si coricò sulla panca e si mise il sacco sotto la testa, come cuscino. Quando lo credette immerso nel sonno, l’oste gli si avvicinò, e pian piano e con gran cautela smosse e tirò il sacco, cercando di toglierlo e di sostituirlo con un altro. Ma il tornitore se l’aspettava da un pezzo, e, appena l’oste volle dare uno strattone vigoroso, egli gridò:
 
– Randello, fuori dal sacco! – Subito il randello saltò addosso all’oste e gli spianò le costole di santa ragione. L’oste gridava da far pietà, ma più gridava, più forte il randello gli batteva il tempo sulla schiena, finché egli cadde a terra sfinito. Allora il tornitore disse:
 
– Se non rendi il tavolino magico e l’asino d’oro, ricomincia il ballo.
– Ah no, – esclamò l’oste, sgomento: – restituisco tutto ben volentieri, purché ricacciate nel sacco quel maledetto diavolo -.
Allora il garzone disse: – Sarò misericordioso, ma non cercar di nuocermi! – Poi gridò: – Randello, dentro nel sacco! – e ve lo lasciò.
 
La mattina dopo il tornitore andò da suo padre col tavolino magico e l’asino d’oro. Il sarto, felice di rivederlo, domandò anche a lui che cosa avesse imparato fuori di casa.
– Caro babbo, – rispose, – son diventato tornitore. – Un mestiere raffinato, –
 
Rispose il padre: – Cos’hai portato dal viaggio?
– Un oggetto preziosissimo, caro babbo, – rispose il figlio, – un randello nel sacco!
– Come! – esclamò il padre: – Un randello! valeva la pena! Puoi tagliartelo da qualunque albero.
– Ma non uno come questo, caro babbo; quando dico: « Randello, fuori del sacco! » salta fuori e concia per il di delle feste ogni malintenzionato, e non la smette prima che giaccia a terra e implori grazia.
 
Vedete, con questo randello mi son ripreso il tavolino magico e l’asino d’oro, che quel ladro di un oste aveva rubato ai miei fratelli. Adesso fateli chiamare entrambi e invitate tutti i parenti. Voglio che mangino e bevano e si riempiano le tasche d’oro -.
 
Il vecchio sarto si fidava poco, ma riunii parenti. Allora il tornitore stese un panno nella stanza, portò dentro l’asino e disse al fratello:
– Adesso parlagli, caro fratello -.
Il mugnaio disse: « Briclebrit! » e all’istante le monete d’oro caddero sul panno come uno scroscio di pioggia; e l’asino non la smise, finché tutti non furon carichi da non poterne più. (E anche tu, vedo, avresti voluto esserci).
Poi il tornitore andò a prendere il tavolino e disse: – Parlagli, caro fratello -.
 
Il falegname disse: – Tavolino, apparecchiati! – ed eccolo apparecchiato e copiosamente fornito di piatti squisiti. Fecero un pranzo, quale il buon sarto non aveva ancor visto in casa sua, e restarono tutti insieme fino a tarda notte, allegri e contenti.
Il sarto chiuse in un armadietto ago e filo, il metro e il ferro da stirare, e fece con i suoi tre figli una vita da principe.
 
Ma dov’è finita la capra, colpevole di aver spinto il sarto a scacciare i tre figli? Te lo dirò. Si vergognava della sua pelata e corse a rannicchiarsi in una tana di volpe. Quando la volpe rincasò, si vide sfavillar di fronte nell’oscurità due occhiacci, e fuggi via con gran terrore. Incontrò l’orso, che vedendola cosi turbata disse:
 
– Cosa ti succede, sorella volpe? perché hai quella faccia?
– Ah, – rispose Pelorosso, – nella mia tana c’è un mostro, che spalanca due occhi fiammeggianti.
– Lo cacceremo fuori, – disse l’orso; l’accompagnò alla tana e guardò dentro; ma quando scorse quegli occhi di fuoco, fu preso anche lui dalla paura: non volle cimentarsi col mostro e se la diede a gambe. Incontrò l’ape che, vedendolo cosi a disagio, disse:
 
– Orso, che brutta faccia hai! Dov’è andata la tua giovialità?
– Hai un bel dire, – rispose l’orso, – nella tana di Pelorosso c e un – mostro con gli occhiacci e non possiamo cacciarlo fuori -.
Disse l’ape: – Mi fai pena, orso; io sono una povera e debole creatura, che per strada voi non guardate neanche; ma credo di potervi aiutare -.
 
Volò nella tana, si posò sulla testa pelata della capra e la punse con tanta forza, che quella saltò su, gridando:
– Mèee! mèee! – e corse fuori come pazza. E finora nessuno sa dove sia andata.
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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