Una mascherata di Carnevale – Carlo Collodi

Una mascherata di Carnevale - Carlo Collodi

Una mascherata di Carnevale – Carlo Collodi

Ogni volta che Cesarino andava o tornava dalla scuola, aveva preso il vizio di fermarsi a tutte le cantonate per leggere i cartelli dei teatri.
 
Questa era la sua grande passione.
 
E se per caso i cartelli annunziavano qualche commedia tutta da ridere, allora Cesarino cominciava subito a spappolarsi dalle risa, tale e quale come se si fosse trovato in teatro.
 
Un giorno (sul finire di Carnevale) gli venne fatto di leggere un gran cartellone che diceva così:
 
 R. TEATRO PAGLIANO
 
Domenica sera gran Festa di Ballo
 
con ingresso alle Maschere.La mascherata che sarà giudicatapiù bella e più sfarzosa
 
Riceverà un premio di Cento lire.
 
Appena letto quel cartello, il nostro Cesare non ebbe più bene di sé.
 
Nel tornare a casa, andava fantasticando:
 
«Se quelle cento lire le potessi vincere io!… Che bel signore che diventerei!… Metterei su carrozza e cavalli!… comprerei una bella villa con tanti poderi… e poi, tutti i quattrini che mi rimanessero in tasca, li darei alla mamma per le spese di casa… Eppure!… se avessi coraggio, tenterei davvero la fortuna! Chi mi dice che la mascherata inventata da me non riuscisse la più bella di tutte?… Per inventare una mascherata non ci vuol poi un gran talento!… Non è come il latino o la grammatica, ché quelle sono due cose uggiose, e per impararle bisogna essere sgobboni… Qui basta avere un po’ di genio! A buon conto, non bisogna dir nulla a nessuno; specialmente a’ miei fratelli. Guai se Orazio e Pierino sapessero qualche cosa!».
 
Nel dir così, si trovò quasi senza avvedersene alla porta di casa, e sonò il campanello.
 
Orazio, per l’appunto il suo fratello Orazio, fu quello che aprì.
 
«Giusto te!», disse Cesare con aria di gran mistero appena entrato in casa.
 
«Che t’hanno fatto?»
 
«Nulla… Ho detto così per ischerzo.»
 
«Eppure, a vederti in viso, si direbbe…»
 
«Nulla, ti ripeto, nulla. Se fossi matto a confidarmi con te!…»
 
«Hai forse qualche segreto?»
 
«Vedi! Se te lo dicessi, saresti capacissimo di andarlo subito a raccontare alla mamma. La mascherata la farò… oramai ho detto di farla… e la farò: ma te e Tonino non dovete saperne il gran nulla.»
 
«Quale mascherata?»
 
«Quella per andare domenica al teatro Pagliano, a vincere il premio…»
 
«E il premio sarebbe?»
 
«Cento lire alla più bella maschera della serata. Non lo dire a nessuno… ma la più bella maschera sarò io… capisci?…»
 
«Allora voglio mascherarmi anch’io…»
 
«Ma zitto, per carità: e non dir nulla a nessuno: specialmente a Pierino, che anderebbe subito a rifischiarlo alla mamma.»
 
«Ti pare che voglia dirlo a Pierino? Piuttosto mi taglierei la lingua… Eccolo!… è lui!»
 
In quel mentre entrò nella stanza, ballando e saltando, un ragazzetto di circa nove anni. Era Pierino, il minore de’ tre fratelli: il quale, senza perder tempo, gridò strillando come una calandra:
 
«Ditemi, ragazzi, si fa a mosca-cieca?».
 
«Abbiamo altro per la testa», rispose Cesare.
 
«Giusto a mosca-cieca!», soggiunse Orazio.
 
Pierino guardò maravigliato i suoi fratelli: e poi domandò:
 
«Che vi è accaduto qualche disgrazia?.»
 
«Finiscila, gua’, giuccherello!», disse Orazio.
 
«O dunque?…»
 
«Tu sei un gran curioso! E a farlo apposta non devi saper nulla!…»
 
«Nulla! il gran nulla!…»
 
«E poi, siamo giusti, le mascherate non sono cose per te.»
 
«Non sono cose da ragazzucci della tua età.»
 
«Che vuoi che il premio lo diano a te?»
 
«Sarebbe dato benino, e non canzono!»
 
«Ma di che premio parlate?»
 
«Delle cento lire, che daranno domenica sera al teatro Pagliano…»
 
«A chi le daranno?…», domandò Pierino, spalancando gli occhi.
 
«A te no di certo. Ma forse a me…», disse Cesare.
 
«E a me, soggiunse Orazio.»
 
«Che andate in maschera, voialtri?»
 
«Lo dicono.»
 
«E dove andate?»
 
«Al teatro Pagliano.»
 
«E quando?»
 
«Domenica sera.»
 
«Oh! bene! oh bene!», gridò Pierino. «Allora ci vengo anch’io.»
 
«Ma zitto! E non dir nulla a nessuno: specialmente alla mamma.»
 
«Per chi mi avete preso? per una spia?»
 
«A proposito», disse Cesare, «come ci dovremo mascherare?»
 
«Io non lo so», disse Pierino.
 
«Neanch’io», soggiunse Orazio.
 
«Silenzio tutti! M’è venuta in capo una bella idea! Ma proprio bella…»
 
«Sentiamola.»
 
«Ditemi, ragazzi; le volete davvero queste cento lire?»
 
«A me mi pare che tu ci canzoni…»
 
«Io non canzono nessuno. Le volete, sì o no, queste cento lire?»
 
«Io son contento se me ne dai quaranta», disse Pierino, ma le voglio tutte in soldi, perché le mi fanno più figura.»
 
«Se volete queste cento lire, date retta a quel che vi dico. Domenica sera ci dobbiamo mascherare tutti e tre, e la nostra mascherata deve somigliare a quella stampa colorita, che portò a casa l’altro giorno lo zio Eugenio…»
 
«Quale stampa?…», domandò Orazio.
 
«Quella che rappresenta la famiglia del gobbo Rigoletto.»
 
«E chi è questo Rigoletto?», chiese Pierino.
 
«Non lo conosci? Gli è quel gobbo rifatto in musica dal maestro Verdi… quello che dice:
 
La donna è mobile
 
Col fiume a letto…»
 
«S’è capito, s’è capito», disse Orazio.
 
«Io, com’è naturale», riprese Cesare, «mi vestirò da Re di Francia, e tu…»
 
«Mi dispiace di non essere gobbo», disse Orazio, «perché mi vestirei tanto volentieri da Rigoletto!»
 
«Al gobbo ti ci penso io: lascia fare a me…»
 
«E io?», domandò Pierino.
 
«Tu ti vestirai da Gilda, figliola di Rigoletto.»
 
«Io da figliola? Io per tua regola non faccio da figliola a nessuno: sono nato uomo e voglio mascherarmi da uomo: ne convieni?»
 
«Benissimo: vuol dire che invece di vestirti da figliola ti vestirai da figliolo di Rigoletto… Che vuoi che Rigoletto non avesse in famiglia nemmeno un maschio?»
 
«Così mi piace e ci sto.»
 
E i tre fratelli, contenti di questa bellissima trovata, cominciarono a ballare in tondo per la stanza, come se avessero già guadagnato le cento lire del premio.
 
Quand’ecco che Pierino, fermandosi tutt’a un tratto, domandò a’ suoi fratelli:
 
«Scusate, ragazzi, e i quattrini per comprare i vestiti da maschera dove sono?».
 
Nessuno rispose.
 
E i quattrini per entrare in teatro, chi ce li da?
 
La solita risposta.
 
II.
 
Quella sera andarono a letto mogi mogi. Cesare dormiva solo, e in un altro lettino accanto al suo, dormivano Orazio e Pierino.
 
«Peccato!», disse Cesare con un gran sospiro, prima di addormentarsi. «Quelle cento lire erano proprio nostre! Nessuno ce le poteva levare…»
 
«Sfido io!…», brontolò Orazio.
 
In quanto a Pierino non poté dir nulla, perché russava come un ghiro.
 
La mattina dopo, sul far del giorno, Cesare svegliò i suoi fratelli gridando:
 
«Allegri, ragazzi, allegri!… Ho bell’e trovato il modo di far la mascherata!».
 
«Davvero?», disse Orazio, allungandosi e sbadigliando.
 
«Quale mascherata?», domandò Pierino, col capo sempre fra il sonno.
 
«Ora vi dirò tutto. Volete sapere chi ci darà il vestiario?… Indovinatelo! Ce lo darà lo zio Eugenio.»
 
Lo zio Eugenio (un gran capo-ameno) era fratello della mamma dei ragazzi, e stava con gli altri in famiglia, avendo nella medesima casa anche il suo Studio di pittura.
 
«E come fai a sapere che il vestiario ce lo darà lui?»
 
«Ne sono sicuro… perché glielo porteremo via di nascosto.»
 
«Lo zio, dunque, ha tutto il vestiario per il Rigoletto?»
 
«Non è precisamente il vestiario del Rigoletto, ma ci corre poco. Sono strisce di raso rosso, verde, turchino, di tutti i colori: e con quelle strisce noi ci faremo i calzoni, i vestiti e i berretti…»
 
«Ma se tu fai da Re di Francia, ti ci vorrà la corona di Re», disse Orazio.
 
«Come sei ignorante!», replicò Cesare con una scrollatina di capo. «Ma non sai che i Re di una volta, quando andavano a spasso, non portavano in capo né corona né cappello?»
 
«O quando pioveva, come facevano?», domandò Pierino.
 
«Pigliavano l’ombrello, o se no, rimanevano in casa. Anche noialtri si sarebbe fatto così, ne convieni?»
 
«Tu discorri bene», soggiunse Pierino, «ma nella Storia Romana non c’è detto che gli Imperatori andassero fuori con l’ombrello…»
 
«E tu ci credi alla Storia Romana? Povero bambino, lo spendi bene il tu’ tempo!…»
 
Per farla breve, i tre fratelli entrarono nello studio dello zio, mentre lo zio era sempre a letto, e da una vecchia cassapanca gli portarono via un grosso fagotto di calzoni di seta, di sottoveste e di giubbe di raso e altre anticaglie d’ogni modello e colore.
 
Poi corsero a dare un’occhiata a quella famosa stampa che rappresentava – per dir come dicevano loro – tutta la famiglia di Rigoletto: e presi i necessari appunti, si rinchiusero in camera a lavorare.
 
Pierino, dopo averci pensato ben bene, si rassegnò a vestirsi da figliuola, invece che da figliuolo, e Cesare, avendo trovata una corona reale di cartone dorato, si rassegnò a portarla in capo.
 
La mattina dopo… volete crederlo? tutto il vestiario, a furia di spilli, di aghi e di punti infilati a caso, era già in ordine.
 
Come facessero, non saprei dirvelo davvero. Io so una cosa sola, ed è questa: che i ragazzi, anche quelli di poca levatura, dimostrano sempre moltissimo ingegno quando lavorano per i loro balocchi.
 
E i quattrini per entrare a teatro? Dove trovarli? Da chi farseli imprestare?
 
Chiederli alla mamma era inutile, perché sarebbe stato lo stesso che scoprire tutto il sotterfugio combinato fra loro.
 
A buon conto, avevano saputo che il biglietto d’ingresso al teatro costava una lira: dunque, essendo in tre, ci volevano almeno tre lire.
 
Inventando una scusa di libri da comprare, si provarono a chiederle allo zio Eugenio: e lo zio, famoso per queste burle, rispose subito:
 
«Volete tre lire sole? Io non faccio imprestiti così meschini! Chiedetemi cento, duecento, mille lire… e allora c’intenderemo…».
 
«Gua’», disse Pierino, «se lei ci fida anche cento lire, noi le si pigliano volentieri.»
 
«Sicuro che ve le fido! E perché non ve le dovrei fidare?»
 
«Dunque la ce le dia.»
 
«Portatemi il calamaio e un pezzo di foglio bianco.»
 
Quand’ebbe l’occorrente, lo zio scrisse sopra il pezzo di foglio:
 
Pagherete ai miei nipoti Cesare, Orazio e Pierino lire cento, che segnerete a mio debito.
 
Lo zio
 
«E ora», domandò Cesare, «da chi si vanno a prendere queste cento lire?»
 
«Alla Banca de’ Monchi.»
 
«E dov’è questa Banca?»
 
«Qui svolto. Appena usciti di casa, tirate giù a diritta, poi trovate una piazza, poi svoltate a sinistra, poi girate in dietro, traversate il ponte e appena fuori della barriera, lì c’è subito la Banca de’ Monchi.»
 
I tre ragazzi stettero attentissimi: ma non capirono nulla.
 
Fatto sta che Cesare, invece di andare a scuola, girò per tutta la città; e a quanti domandava della Banca de’ Monchi, tutti lo guardavano in viso e ridevano.
 
Tornato a casa, disse a’ suoi fratelli:
 
«Lo zio ce l’ha fatta!».
 
«Cioè?»
 
«La Banca de’ Monchi è una sua invenzione.»
 
«E ora come si rimedia?»
 
«Il rimedio ce l’avrei…»
 
«Dillo, dillo subito!», gridarono Orazio e Pierino.
 
«Ci state voialtri a vendere i libri di scuola?»
 
«Magari!… e poi come si ricomprano?»
 
«Con le cento lire del premio!»
 
«Benissimo! E così li avremo tutti novi.»
 
«E tutti rilegati…»
 
A furia di discorrere e di ragionarci su, quei tre monelli finirono per persuadersi che, a vendere i loro libri di scuola, facevano un’operazione d’oro.
 
Lo stesso giorno, Cesare, con un fagotto sotto il braccio, andò in cerca di un rivenditore di libri usati: e quand’ebbe in tasca le tre lire, gli parve di aver toccato il cielo con un dito.
 
III.
 
La sera che dovevano andare al teatro, finsero tutti e tre di avere un gran sonno: e come fecero bene la loro parte in commedia!…
 
«Io non posso più tenere gli occhi aperti», diceva Cesare.
 
«Io dormo e cammino», diceva Orazio.
 
«Un sonno come stasera, non l’ho avuto mai», diceva Pierino.
 
«Se avete sonno», disse la loro mamma, «è una malattia che si guarisce presto! Andate a letto e non se ne parli più.»
 
I tre ragazzi non se lo fecero ripetere: presero il loro candeliere e si chiusero in camera.
 
«È meglio che ci vestiamo subito», disse Cesare.
 
«E poi?»
 
«E poi s’entra a letto.»
 
«E quando viene la mamma a darci il solito bacio di tutte le sere?… Se ci trova vestiti da Rigoletti?…»
 
«Che discorsi! Prima di chiamar la mamma, si spenge la candela.»
 
«E se la mamma entra in camera col suo bravo lume acceso?»
 
«Hai ragione. Bisogna ricordarsi di star coperti perbene fino al collo…»
 
I tre ragazzi, in un batter d’occhio, s’infilarono i loro calzoni e le loro gualdrappe di seta, e si nascosero sotto i lenzuoli, lasciando fuori solamente la testa.
 
Dopo poco venne la mamma, e dato loro un bacio e la buona notte, accostò la porta di camera.
 
«Ora», disse Cesare, «bisogna stare in orecchio, per sentire quando la mamma va a letto. Attenti, dunque, e non ci lasciamo prendere dal sonno.»
 
«Dal sonno?», disse Orazio. «Io per tua regola, son bono a stare sveglio fino a domani.»
 
«O io?», disse Pierino. «Quando devo andare al teatro, non c’è caso che mi addormenti mai.»
 
Lascio pensare a voi come rimasero la mattina dopo, quando svegliandosi, si trovarono tutti e tre nel letto, mascherati!
 
«Meno male», disse Cesare, «che domani sera c’è un’altra festa da ballo. Anderemo a quella.»
 
«E il premio delle cento lire?», domandarono Orazio e Pierino.
 
«C’è anche il premio.»
 
Lesti lesti saltarono il letto, lesti lesti si spogliarono da Rigoletti e si rivestirono da ragazzi, e lesti lesti nascosero tutto il loro bagaglio in fondo a un piccolo armadio a muro.
 
Arrivati alla sera dipoi, ripeterono la medesima scena della gran sonnolenza e dell’entrare sotto i lenzuoli bell’e vestiti cogli abiti da maschera. Appena, però, si accorsero che la mamma, dopo averli baciati, era rientrata nella sua camera, saltarono dal letto e si posero a girandolare in su e in giù, tanto per non lasciarsi tradire dal sonno.
 
Aspetta, aspetta, aspetta, finalmente dopo un secolo sonarono le dieci.
 
«Dunque si va, o non si va? Se vogliamo andare, questa sarebbe l’ora», disse Cesare.
 
«E la chiave di casa l’hai presa?», domandò Orazio.
 
«Eccola qui.»
 
«E tu, Pierino, a che cosa pensi?»
 
«Per me, se si deve andare, andiamo: ma il core mi dice che questi sotterfugi ci porteranno disgrazia. Se la mamma, nel tempo che siamo al teatro, la si svegliasse?…»
 
«E perché si dovrebbe svegliare?»
 
«I casi son tanti! E se una volta svegliata, la venisse in camera nostra e non ci trovasse nessuno?…»
 
«Come sei uggioso! Benedetti i ragazzi e chi ci s’impiccia!», brontolò Cesare sottovoce.
 
Senza perdersi in altre chiacchiere, aprirono l’uscio di camera e parve loro di sentire qualcuno che si allontanasse in punta di piedi.
 
«Che sia lo zio Eugenio?», domandò Pierino, rattenendo il fiato.
 
«Quante paure! Lo Zio, per tua regola, è andato a letto prima di noi.»
 
E, per esserne più sicuri, nel passare davanti alla camera dello zio, stettero un po’ in ascolto, e lo sentirono russare come un contrabasso.
 
Giunti nella strada, richiusero la porta adagio adagio e senza far colpo.
 
La serata era freddissima, ma bella: uno stellato, che faceva innamorare a guardarlo!
 
I tre fratelli, tenendosi per la mano come tre buoni ragazzi che andassero a scuola, camminavano sul marciapiede: quand’ecco che sentirono dietro a loro una vocina di galletto che faceva: Chiù-chiù-chiù!
 
Si voltarono e videro una figura magra e tutta nera, con un paio di corna in testa, che saltava e faceva mille sgambetti.
 
«Che sia il diavolo?», domandò Pierino, cominciando a tremare.
 
«Ma che ti vai diavolando?», dissero i suoi fratelli. «Non vedi che è una maschera? Fermiamoci e lasciamola passare avanti.»
 
E si fermarono: ma il diavolo si fermò anche lui.
 
Allora i tre ragazzi, per non compromettersi, traversarono la strada e andarono dall’altra parte.
 
E il diavolo, anche lui, andò dall’altra parte.
 
«Che cosa vuole da noi?» gli domandò Cesare ingrossando la voce e facendo finta di non aver paura.
 
«Chiù-chiù!» rispose il diavolo facendo uno sgambetto.
 
«Noi andiamo per la nostra strada, e non si dà noia a nessuno.»
 
«Chiù-chiù.»
 
«Si levi di torno, sor impertinente, se no lo dico alle guardie.»
 
«E io lo dico alla mamma», urlò Pierino piangendo dalla paura.
 
«Chiù-chiù! Chiù-chiù! Chiù-chiù!…»
 
E il diavolo cominciò a urlare e a saltare in un modo spiritato.
 
I tre ragazzi impauriti si dettero a correre: e corri, corri, corri, arrivarono finalmente alla porta del teatro.
 
Entrati in platea, fra mezzo alla folla, credevano di essersi liberati da quel diavolaccio che li perseguitava: ma invece, dopo due minuti, sentirono intronarsi gli orecchi da un chiù-chiù che parve una fucilata a bruciapelo.
 
Che cosa dovevano fare?… A furia di spinte e di spintoni, e passando magari fra le gambe della gente, arrivarono a mettersi in fila davanti al palco della Commissione, che doveva giudicare le mascherate più belle.
 
Poveri figliuoli! Non l’avessero mai fatto!…
 
Appena arrivati lì, furono salutati da un fischio acutissimo e da una vociona che strillò:
 
«Chiù-chiù!… Fuori i ragazzi! Via i ragazzi! A letto i ragazzi!»
 
A questo grido sonoro e ripetuto, tutto il pubblico dei palchi e della platea si voltò: e vedendo quelle tre mascherucce, che pretendevano al premio, cominciò a sbellicarsi dalle risa e a ripetere in coro:
 
«Fuori i ragazzi!»
 
«Via i ragazzi!»
 
«A letto i ragazzi!»
 
Figuratevi il chiasso, il baccano e lo scompiglio, che nacque da un momento all’altro. In mezzo a quel pigia-pigia si sentì una voce di donna, che gridò:
 
«Mi hanno rubato il vezzo!»
 
Corsero subito le guardie: le quali, in tanto tramestìo, non sapendo su chi mettere le mani addosso, arrestarono le tre mascherucce che scappavano spaventate verso la porta del teatro.
 
«Ma perché ci arrestano?… Noi siamo innocenti!…» gridavano piangendo quei poveri ragazzi.
 
«Fra poco ne riparleremo», risposero le guardie, incamminandosi verso la Questura.
 
«Lo creda… noi non siamo ladri», diceva Cesare.
 
«Di chi siete figlioli?»
 
«Del nostro babbo e della nostra mamma.»
 
«Che mestiere fanno i vostri genitori?»
 
«Il babbo gli è fori di Firenze a far l’ingegnere e la mamma l’è a letto, che dorme…»
 
«E che cosa siete venuti a fare al teatro?»
 
«A vincere il premio.»
 
«Il premio ve lo daremo noi. Come mai siete scappati di casa?…»
 
«L’è una storia lunga…»
 
«I ragazzi, che scappano di casa, non possono esser nulla di bono…»
 
«Su questo l’ha ragione lei… non c’è nulla da dire… Ma la creda che siamo ragazzi perbene… e incapaci…»
 
«Lo vedremo fra poco.»
 
Nel dir così, le guardie spinsero i tre ragazzi dentro la porta di Questura: e un po’ con le buone e un po’ con le cattive, li fecero entrare nella stanza del Delegato.
 
Il Delegato per l’appunto dormiva.
 
Quando lo svegliarono, domandò:
 
«Che c’è di nuovo?»
 
«Tre ragazzi arrestati al veglione…»
 
«Ragazzi?», ripeté il Delegato, sbadigliando. «Metteteli in prigione. Domani ne riparleremo.»
 
Que’ poveri figliuoli piansero, pregarono, si raccomandarono… Ma inutilmente. La guardia aprì una porticina e tutti e tre furono cacciati in gattabuia.
 
Trovandosi soli e al buio, si presero l’uno con l’altro per la mano, stringendosi forte forte, per farsi fra loro un po’ di coraggio. E intanto che Cesarino e Orazio si sfogavano a piangere dirottamente, Pierino balbettò singhiozzando:
 
«Io te lo dissi, Cesarino… ma tu non mi volesti dar retta….»
 
«Icché tu mi dicesti?…»
 
«Quel che diceva la nostra povera nonna… che i sotterfugi portano sempre disgrazia.»
 
«Allora vuol dire che tutta la colpa è tua», gridò Cesare, arrabbiandosi.
 
«Sissignore, tutta la colpa è tua!», ripeté Orazio stizzito.
 
«Ma perché la colpa è mia?…»
 
«Perché dovevi raccontare il fissato della mascherata alla mamma, che ci avrebbe sgridato ben bene… e così ora, invece di trovarci qui in prigione, si sarebbe a casa a dormire ne’ nostri lettini.»
 
«E se dopo mi davi di spia?…»
 
«Che spia e non spia? Se tu avessi raccontato ogni cosa alla mamma… ci avresti risparmiato un monte di dispiaceri. La colpa è tutta tua.»
 
«Sissignore, tutta tua, tutta tua!», ripeté Orazio.
 
«Bella forza! Ve la pigliate con me, perché sono il più piccino!…»
 
E chi sa mai questo dialogo quanto sarebbe durato, se la porticina della prigione non si fosse aperta, e una vociona di fuori non avesse gridato.
 
«Su, su, ragazzi! Potete andarvene a casa vostra. Sveltezza nelle gambe e via!»
 
Come mai questo cambiamento di scena all’improvviso?… Si fa presto a capirlo: essendo stato scoperto e arrestato il ladro del vezzo, i tre ragazzi, riconosciuti innocenti, venivano lasciati in libertà.
 
Figuratevi la loro contentezza, quando si trovarono in mezzo alla strada, padronissimi di tornarsene a casa! Non sapendo che cosa dire, piangevano, ridevano e si abbracciavano.
 
E strada facendo, borbottavano fra loro:
 
«Ora, appena arrivati a casa, si sale le scale in punta di piedi…. E poi s’entra in camera… E adagino adagino ci spogliamo… E nascondiamo questi panni sotto il letto.»
 
«E domani si fa vista di aver dormito tutta la notte, e ci leviamo…»
 
«E poi di nascosto si riportano questi cenci nella cassapanca dello zio…»
 
«E poi si fa colazione come tutte le altre mattine…»
 
«E poi si va a scuola…»
 
«E i libri?…»
 
«Si dice alla mamma che li abbiamo perduti…»
 
«E così di questa brutta nottata, che c’è toccato a passare…»
 
«Nessuno ne saprà nulla…»
 
«Nemmeno la mamma.»
 
Con questi e con altri discorsi, si trovarono quasi senza avvedersene davanti alla porta di casa.
 
Ma sugli scalini della porta c’era seduto… indovinate chi?…
 
C’era seduto il diavolo, quel diavolo, loro accanito persecutore.
 
«Chiù-chiù! Dove andate?», domandò l’omo nero.
 
«Si vorrebbe andare in casa.»
 
«Di qui non si passa.»
 
«Scusi, sor diavolo», disse Pierino, «ma queste non sono azioni da persone di garbo.»
 
«Se volete passare, pagate il dazio.»
 
«Ma che dazio! La si figuri che in tutti e tre, non abbiamo un centesimo.»
 
«Chiù-chiù! Mi contenterò di questo spillone d’oro.»
 
E nel dir così, il diavolo prese un bello spillone che Pierino teneva appuntato sul petto.
 
«La mi renda lo spillone», gridò il ragazzo. «Lo spillone non è mio, e lo voglio rendere alla mamma…»
 
«Lascia correre, Pierino, se no ci rovini tutti!», dissero i suoi fratelli.
 
Il diavolo si tirò da parte, e i ragazzi entrarono in casa, richiudendo subito la porta.
 
La mattina dopo, lo zio Eugenio, prima di uscir di camera, chiamò Pierino e gli disse ridendo:
 
«Questa notte il diavolo è venuto a trovarmi e mi ha lasciato questo spillone d’oro per te.»
 
«Come?… quel diavolo?…»
 
«Io non posso dirti altro, perché non so altro.»
 
Il povero Pierino rimase di stucco. Raccontò subito il fatto ai fratelli: e tutti insieme, a furia di ragionarci sopra, finirono per persuadersi che il loro diavolo persecutore doveva essere stato lo zio Eugenio.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Biancaneve e i sette nani – Jachob y Wilhelm Grimm

Biancaneve e i sette nani - Jachob y Wilhelm Grimm

Biancaneve e i sette nani – Jachob y Wilhelm Grimm

Una volta, nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva, seduta accanto a una finestra, dalla cornice d’ebano.
E così, cucendo e alzando gli occhi per guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue.
Il rosso era così bello su quel candore, ch’ella pensò:

«Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra!»
Poco dopo diede alla luce una figlioletta bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come l’ebano; e la chiamarono Biancaneve.

E quando nacque, la regina morì.

Dopo un anno il re prese un’altra moglie; era bella, ma superba e prepotente, e non poteva sopportare che qualcuno la superasse in bellezza. Aveva uno specchio magico, e nello specchiarsi diceva:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?

E lo specchio rispondeva: Nel regno, Maestà, tu sei quella.
Ed ella era contenta, perché sapeva che lo specchio diceva la verità.
Ma Biancaneve cresceva, diventava sempre più bella e a sette anni era bella come la luce del giorno e ancor più della regina.

Una volta che la regina chiese allo specchio:
Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
lo specchio rispose: Regina, la più bella qui sei tu, ma Biancaneve lo è molto di più.
La regina allibì e diventò verde e gialla d’invidia.

Da quel momento la vista di Biancaneve la sconvolse, tanto ella odiava la bimba.
E invidia e superbia crebbero come le male erbe, così che ella non ebbe più pace né giorno né notte.
Allora chiamò un cacciatore e disse:

– Porta la bambina nel bosco, non la voglio più vedere. Uccidila, e mostrami i polmoni e il fegato come prova della sua morte

Il cacciatore obbedì e condusse la bimba lontano; ma quando estrasse il coltello per trafiggere il suo cuore innocente, ella si mise a piangere e disse:

– Ah, caro cacciatore, lasciami vivere! Correrò nella foresta selvaggia e non tornerò mai più -.

Ed era tanto bella che il cacciatore disse, impietosito:

– Và, pure, povera bambina-. «Le bestie feroci faranno presto a divorarti», pensava; ma sentiva che gli si era levato un gran peso dal cuore, a non doverla uccidere.
E siccome proprio allora arrivò di corsa un cinghialetto, lo sgozzò, gli tolse i polmoni e il fegato e li portò alla regina come prova.
Il cuoco dovette salarli e cucinarli, e la perfida li mangiò, credendo di mangiare i polmoni e il fegato di Biancaneve.

Ora la povera bambina era tutta sola nel gran bosco e aveva tanta paura che badava anche alle foglie degli alberi e non sapeva che fare.

Si mise a correre e corse sulle pietre aguzze e fra le spine; le bestie feroci le passavano accanto, ma senza farle alcun male.
Corse finché le ressero le gambe; era quasi sera, quando vide una casettina ed entrò per riposarsi.
Nella casetta tutto era piccino, ma lindo e leggiadro oltre ogni dire.

C’era una tavola apparecchiata con sette piattini: ogni piattino col suo cucchiaino, e sette coltellini, sette forchettine e sette bicchierini.

Lungo la parete, l’uno accanto all’altro, c’eran sette lettini, coperti di candide lenzuola.
Biancaneve aveva tanta fame e tanta sete, che mangiò un po’ di verdura con pane da ogni piattino, e bevve una goccia di vino da ogni bicchierino, perché non voleva portar via tutto a uno solo.

Poi era così stanca che si sdraiò in un lettino ma non ce n’era uno che andasse bene: o troppo lungo o troppo corto, finchè il settimo fu quello giusto: ci si coricò, si raccomandò a Dio e si addormentò. A buio, arrivarono i padroni di casa: erano i sette nani, che scavavano i minerali dai monti.

Accesero le loro sette candeline e, quando la casetta fu illuminata, videro che era entrato qualcuno; perché non tutto era in ordine, come l’avevan lasciato.
Il primo disse:

– Chi si è seduto sulla mia seggiolina?-
Il secondo: – Chi ha mangiato dal mio piattino?-
Il terzo: – Chi ha preso un po’ del mio panino?-
Il quarto: – Chi ha mangiato un po’ della mia verdura?-
Il quinto: – Chi ha usato la mia forchettina?-
Il sesto: – Chi ha tagliato col mio coltellino?-
Il settimo: – Chi ha bevuto dal mio bicchierino?-

Poi il primo si guardò intorno, vide che il suo letto era un po’ ammaccato e disse:

– Chi mi ha schiacciato il lettino?-

Gli altri accorsero e gridarono: – Anche nel mio c’è stato qualcuno -.

Ma il settimo scorse nel suo letto Biancaneve addormentata.
Chiamò gli altri, che accorsero e gridando di meraviglia presero le loro sette candeline e illuminarono Biancaneve.

– Ah, Dio mio! ah, Dio mio! – esclamarono: – Che bella bambina! –

Ed erano così felici che non la svegliarono e la lasciarono dormire nel lettino.
Il settimo nano dormì coi suoi compagni, un’ora con ciascuno; e la notte passò.
Al mattino, Biancaneve si svegliò e s’impaurì vedendo i sette nani.

Ma essi le chiesero gentilmente: – Come ti chiami?- Mi chiamo Biancaneve,- rispose. – Come sei venuta in casa nostra?- dissero ancora i nani.
Ella raccontò che la sua matrigna voleva farla uccidere, ma il cacciatore le aveva lasciato la vita ed ella aveva corso tutto il giorno, finchè aveva trovato la casina.

I nani dissero: – Se vuoi curare la nostra casa, cucinare, fare i letti, lavare, cucire e far la calza, e tener tutto in ordine e ben pulito, puoi rimanere con noi, e non ti mancherà nulla.
– Sì,- disse Biancaneve,- di gran cuore-.

E rimase con loro.
Teneva in ordine la casa; al mattino essi andavano nei monti, in cerca di minerali e d’oro, la sera tornavano, e la cena doveva essere pronta. Di giorno la fanciulla era sola. I nani l’ammonivano affettuosamente, dicendo:

– Guardati dalla tua matrigna; farà presto a sapere che sei qui: non lasciar entrare nessuno. Ma la regina, persuasa di aver mangiato i polmoni e il fegato di Biancaneve, non pensava ad altro, se non ch’ella era di nuovo la prima e la più bella; andò davanti allo specchio e disse:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
E lo specchio rispose: – Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più.

La regina inorridì, perché sapeva che lo specchio non mentiva mai, e si accorse che il cacciatore l’aveva ingannata e Biancaneve era ancora viva.
E allora pensò di nuovo come fare ad ucciderla: perché, s’ella non era la più bella di tutto il paese, l’invidia non le dava requie.

Pensa e ripensa, finalmente si tinse la faccia e si travestì da vecchia merciaia, in modo da rendersi del tutto irriconoscibile. Così trasformata, passò i sette monti, fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò:

– Roba bella, chi compra! chi compra!- Biancaneve diede un’occhiata dalla finestra e gridò:
– Buon giorno, brava donna, cos’avete da vendere?
– Roba buona, roba bella,- rispose la vecchia,- stringhe di tutti i colori -.

E ne tirò fuori una, di seta variopinta.

«Questa brava donna posso lasciarla entrare», pensò Biancaneve; aprì la porta e si comprò la bella stringa.
– Bambina, – disse la vecchia,- come sei conciata! Vieni, per una volta voglio allacciarti io come si deve-.
La fanciulla le si mise davanti fiduciosa e si lasciò allacciare con la stringa nuova: ma la vecchia strinse tanto e così rapidamente che a Biancaneve mancò il respiro e cadde come morta.

– Ormai lo sei stata la più bella,- disse la regina, e corse via.

Presto si fece sera e tornarono i sette nani: come si spaventarono, vedendo la loro cara Biancaneve stesa a terra, rigida, come se fosse morta!
La sollevarono e, vedendo che era troppo stretta alla vita, tagliarono la stringa.
Allora ella cominciò a respirare lievemente e a poco a poco si rianimò.
Quando i nani udirono l’accaduto, le dissero:

– La vecchia merciaia altri non era che la scellerata regina; sta’ in guardia, e non lasciar entrare nessuno, se non ci siamo anche noi.

Ma la cattiva regina, appena arrivata a casa, andò davanti allo specchio e chiese:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?

Come al solito, lo specchio rispose:

– Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più.

A queste parole, il sangue le affluì tutto al cuore dallo spavento, perché vide che Biancaneve era tornata in vita.
«Ma adesso,. pensò,- troverò qualcosa che sarà la tua rovina»; e, siccome s’intendeva di stregoneria, preparò un pettine avvelenato. Poi si travestì e prese l’aspetto di un’altra vecchia. Passò i sette monti fino alla casa dei sette nani, bussò alla porta e gridò:

– Roba bella! roba bella! –

Biancaneve guardò fuori e disse:

– Andate pure, non posso lasciar entrare nessuno.
– Ma guardare ti sarà permesso,- disse la vecchia; tirò fuori il pettine avvelenato e lo sollevò.

Alla bimba piacque tanto che si lasciò sedurre e aprì la porta.
Conclusa la compera, la vecchia disse:

-Adesso voglio pettinarti per bene-.

La povera Biancaneve, di nulla sospettando, lasciò fare; ma non appena quella le mise il pettine nei capelli, il veleno agì e la fanciulla cadde priva di sensi.

– Portento di bellezza!- disse la cattiva matrigna: – è finita per te!- e se ne andò.

Ma per fortuna era quasi sera e i sette nani stavano per tornare. Quando videro Biancaneve giacer come morta, sospettarono subito della matrigna, cercarono e trovarono il pettine avvelenato; appena l’ebbero tolto, Biancaneve tornò in sé e narrò quel che era accaduto.
Di nuovo l’ammonirono che stesse in guardia e non aprisse la porta a nessuno.
A casa, la regina si mise allo specchio e disse:

– Dal muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
Come al solito, lo specchio rispose:
– Regina, la più bella qui sei tu; ma al di là di monti e piani, presso i sette nani, Biancaneve lo è molto di più.

A tali parole, ella rabbrividì e tremò di collera.

– Biancaneve morirà,- gridò,- dovesse costarmi la vita -.

Andò in una stanza segreta dove non entrava nessuno e preparò una mela velenosissima.
Di fuori era bella, bianca e rossa, che invogliava solo a vederla; ma chi ne mangiava un pezzetto, doveva morire.
Quando la mela fu pronta, ella si tinse il viso e si travestì da contadina, e così passò i sette monti fino alla casa dei sette nani.

Bussò, Biancaneve si affacciò alla finestra e disse:

– Non posso lasciar entrare nessuno, i sette anni me l’hanno proibito.
– Non importa,- rispose la contadina,- le mie mele le vendo lo stesso. Prendi, voglio regalartene una.
– No,- rispose Biancaneve,- non posso accettar nulla.
– Hai paura del veleno?- disse la vecchia.- Guarda, la divido per metà: tu mangerai quella rossa, io quella bianca -.

Ma la mela era fatta con tanta arte che soltanto la metà rossa era avvelenata.
Biancaneve mangiava con gli occhi la bella mela, e quando vide la contadina morderci dentro, non potè più resistere, stese la mano e prese la metà avvelenata.
Ma al primo boccone cadde a terra morta.
La regina l’osservò ferocemente e scoppiò a ridere, dicendo:

– Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano! Stavolta i nani non ti sveglieranno più -.

A casa, domandò allo specchio:

– Da muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella ?

E finalmente lo specchio rispose: – Nel regno, Maestà, tu sei quella.
Allora il suo cuore invidioso ebbe pace, se ci può esse pace per un cuore invidioso.

I nani, tornando a casa, trovarono Biancaneve che giaceva a terra, e non usciva respiro dalle sue labbra ed era morta. La sollevarono, cercarono se mai ci fosse qualcosa di velenoso, le slacciarono le vesti, le pettinarono i capelli, la lavarono con acqua e vino, ma inutilmente: la cara bambina era morta e non si ridestò.

La misero su un cataletto, la circondarono tutti e sette e la piansero, la piansero per tre giorni. Poi volevano sotterrarla; ma in viso, con le sue belle guance rosse, ella era ancora fresca, come se fosse viva. Dissero: – Non possiamo seppellirla dentro la terra nera,- e fecero fare una bara di cristallo, perché la si potesse vedere da ogni lato, ve la deposero e vi misero sopra il suo nome, a lettere d’oro, e scrissero che era figlia di re.

Poi esposero la bara sul monte, e uno di loro vi restò sempre a guardia. E anche gli animali vennero a pianger Biancaneve: prima una civetta, poi un corvo e infine una colombella. Biancaneve rimase molto, molto tempo nella bara, ma non imputridì: sembrava che dormisse, perché era bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l’ebano.

Ma un bel giorno capitò nel bosco un principe e andò a pernottare nella casa dei nani.
Vide la bara sul monte e la bella Biancaneve e lesse quel che era scritto a lettere d’oro.

Allora disse ai nani: – Lasciatemi la bara; in compenso vi darò quel che volete -.
Ma i nani risposero: – Non la cediamo per tutto l’oro del mondo

– Regalatemela, allora,- egli disse,- non posso vivere senza veder Biancaneve: voglio onorarla ed esaltarla come la cosa che mi è più cara al mondo.-

A sentirlo, i buoni nani s’impietosirono e gli donarono la bara.
Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle.
Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa quel pezzo di mela avvelenata, che Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola.

E poco dopo ella aprì gli occhi, sollevò il coperchio e si rizzò nella bara: era tornata in vita.
-Ah Dio, dove sono?- gridò.

Il principe disse, pieno di gioia: – Sei con me,- e le raccontò quel che era avvenuto, aggiungendo: – Ti amo sopra ogni cosa del mondo; vieni con me nel castello di mio padre, sarai la mia sposa-.

Biancaneve acconsentì e andò con lui, e furono ordinate le nozze con gran pompa e splendore.
Ma alla festa invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. Indossate le sue belle vesti, ella andò allo specchio e disse:

– Da muro, specchietto, favella: nel regno chi è la più bella?
Lo specchio rispose: – Regina, la più bella qui sei tu; ma la sposa lo è molto di più.

La cattiva donna imprecò e il suo affanno era così grande che non poteva più dominarsi. Dapprima non voleva assistere alle nozze; ma non trovò pace e dovette andar a vedere la giovane regina.

Entrando, riconobbe Biancaneve e impietrì dallo spavento e dall’orrore.
Ma sulla brace eran già pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle, e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette calzare le scarpe roventi e ballare, finché cadde a terra, morta.

Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Hansel e Gretel – Jachob y Wilhelm Grimm

Hansel e Gretel - Jachob y Wilhelm Grimm

Hansel e Gretel – Jachob y Wilhelm Grimm

Nella periferia di un piccolo villaggio, al limite del bosco, viveva una famiglia di taglialegna composta dai genitori e da due figli: Hansel e Gretel. I bambini vivevano felici a contatto con la natura che li circondava. Il loro lavoro preferito era quello di raccogliere i frutti del bosco. Una sera, mentre stavano per rincasare, dopo aver giocato nel centro del bosco, udirono un lontano suono simile al pianto di un bambino. – È il pianto di un neonato… – Esclamò Gretel.

 – Cerchiamolo- Disse Hansel.
Penetrarono tra gli alberi, nella direzione dalla quale proveniva il lamento. Nel frattempo si stava facendo buio e tutto diventava grigio.

– Torniamo, ho una paura tremenda! -Disse Gretel.
– Sei una codarda e una fifona! – Replicò spavaldamente Hansel.
– Tua sorella ha ragione, Hansel. È da stupidi girare per il bosco a quest’ora, quindi è meglio che torniate indietro!
I bambini ebbero un sobbalzo. Chi aveva parlato?
– Sono io, sono qui… Siete forse ciechi?

Hansel fu il primo a vederlo:

– Un corvo che parla? – Disse.
– In realtà -Rispose il corvo – io sono un nano dalla barba bianca che ha subìto un incantesimo. È stata una strega e il suo maleficio continuerà fino alla sua morte.
– Hai sentito il pianto di un bambino? -Chiese Gretel.
– State tranquilli, avete udito me.
– Sei tu?!- Rise Hansel – Non dire fesserie! Tu hai la voce come quella del vecchio Snipe, l’ubriacone del villaggio: cavernosa.

Il corvo stava per rispondere loro quando intervenne Gretel:

– Non essere maleducato, Hansel! Capisco quello che ti è successo, nanetto, e sepotessi ti aiuterei.
– Sei molto buona, piccola. Non sei certo come quel discolo di tuo fratello. Vi confiderò un segreto… Se andate più avanti, troverete una casetta di cioccolata!
– Una casa di cioccolata – Intervenne Hansel, che era molto goloso. -Dove, dove?
– Pochi passi ancora e ci sarete.
– Non sarà un trucco per farci del male?
– Presto la potrete vedere. È tutta colorata, piena di caramelle sulle pareti e sul tetto. È fatta di cioccolato, di torrone e marzapane…! È una delizia! Dentro troverete tutti i tipi di dolci.
– E potremo mangiarli? – Chiese ancora Hansel.
– Certo – Rispose il corvo. – Basta volerlo,seguitemi!
I bambini non se lo fecero ripetere due volte e, come l’uccello gli aveva detto, in una radura del bosco incontrarono…
– Che meraviglia! – Esclamò Gretel.
– C’è veramente! Pancia mia fatti capanna! – Disse entusiasta, Hansel.

La realtà superava la fantasia. Al fianco della porta c’erano dei bastoni di zucchero.
Le pietre del sentiero erano caramelle di tutti i gusti: mente, limone, banana, pino… Quando si avvicinarono alla casa si aprì la porta e una donna, vecchia e sdentata, li incoraggiò.

– Avanti, entrate figlioli, siete giunti in tempo. Ho appena finito di fare questa torta che dice:»Mangiami!» Volete assaggiarla?
– Certamente! – Disse Hansel, più deciso, come sempre, di sua sorella.
I due bambini cominciarono a mangiare tutto quello che la donna gli portava. Poi, una volta sazi, decisero di andarsene.
– Grazie, buona signora. Non ne possiamo più di mangiare, torneremo a trovarla un’altra volta. È stata molto buona con noi. – Disse Hansel.
– Il bosco è già buio, fermatevi a dormire qui. Domani sarà un altro giorno. -Disse la vecchia.
– Lo faremmo volentieri. – Replicò Hansel. – Ma i nostri genitori ci stanno aspettando… Se il nanett… Il signorcorvo, ci farà da guida, non tarderemo a tornare a casa.
– Niente affatto. – Disse il corvo. – Ho troppo sonno.
– Allora ce ne andiamo da soli. – Disse Hansel. – Andiamo, sorella mia.

La padrona di casa cessò improvvisamente di sorridere e, infuriata,gridò:

– Fermo dove sei, ragazzino! Voi non tornerete dai vostri genitori, né ora né mai più! Come mi piacciono i fanciulli teneri e grassottelli!

Il corvo, appollaiato sulla spalla della vecchia strega, gridava:

– Arrostiti, con le patatine, saranno una delizia! Ti consiglio una ricetta di mia nonna: si mettono le cipolle, alloro e rosmarino, in una pentola e poi…

Hansel e Gretel, terrorizzati, ascoltavano increduli la ricetta dello stufato del corvo, di cui loro erano ingredienti principali.

Tremanti di paura dissero:

– Come siamo stati stupidi a cadere in questa trappola!
Hansel per consolare la sorella disse:
– Non temere ci salveremo!
La brutta strega, che aveva sentito tutto, ridendo disse:
– Hai sentito, corvo? Dicono che se ne andranno da qui!
– Certo, – rispose il corvo – con le ossa linde e pulite! Ho voglia di mangiarmeli subito, li mangiamo adesso?
– no, golosone,aspetteremo che ingrassino un po’ ancora. Il bimbo è magro e alla bambina un paio di chili in più non guasteranno… Una buona razione di dolci al giorno li farà diventare come li desideriamo!

Prese Hansel per le bretelle e disse:

– In cella finché non ingrassi. E non opporre resistenza!

Gli sforzi del piccolo risultarono inutili.
Fu buttato in una stanza senza finestre che comunicava con un’altra cella da dove Hansel poteva vedere la sorella. Allora disse:

– Non dobbiamo disperarci, Gretel, fatti coraggio!
-Oh, Hansel, ci vogliono mangiare!
– Per il momento siamo ancora vivi… Ora, però, ascoltami bene: la vecchia è corta di vista. L’ho capito perché guarda come quel contadino del paese che non riconosce un asino da dieci passi!

Spiegò tutto il suo piano e concluse:

– Non ti opporre, fa quello che ti chiedono. Dobbiamo guadagnare tempo.

Il bambino era orgoglioso del suo piano e guardava soddisfatto il topolino che aveva assistito al dialogo dei due fratelli.
Ma la situazione era disperata. Hansel lo sapeva. Si guardava intorno alla ricerca di una possibile via di fuga; ma invano, la cella era solida, a prova di fuga.
Il trucco che aveva ideato avrebbe funzionato per un po’ di tempo, ma poi? Certamente la strega si sarebbe accorta dell’inganno e… Tremò di paura e fu colto dallo sconforto. Però non si dette per vinto.
Chiamò sua sorella attraverso le sbarre per tracciare un secondo piano d’azione, l’unico possibile.
Ella ascoltò le parole del fratello. Voleva credere in una possibilità di salvezza, per quanto improbabile fosse.
Il giorno seguente, la strega si avvicinò alla cella della bambina e le disse:

– Tira fuori un dito, Gretel, che voglio vedere se sei ingrassata.

Come prevedeva il piano di Hansel, la piccina fece passare attraverso le sbarre, un ossicino di pollo, avanzato la sera prima.

La strega palpando, senza accorgersi dell’inganno,pensò:
<< Gli dovrò dare più cibo, è ancora molto magra.>>
La stessa cosa successe con il bambino.
Il giorno seguente si ripeté la stessa scena e allora Gretel disse alla strega:

– Visto che dovrò rimanere qui per tanto tempo perché non mi fai uscire? Potrei aiutarti nelle faccende domestiche, finché non ti deciderai a mangiarmi.

La vecchia strega rimase pensierosa per alcuni momenti, poi si decise e disse:

– Mi sembra una buona idea, ma bada, se cerchi di fuggire mi mangio subito tuo fratello!

Però nel vedere la bimba girare per casa, la strega,che era molto golosa, decise che se la sarebbe mangiata per cena.
Gretel intuì la cosa e in fretta cercò la chiave della cella, la aprì e liberò Hansel.

– Cosa facciamo adesso?
– Aspetta, bisogna riflettere. – Disse Hansel guardandosi attorno.

Poi vide il corvo appollaiato sul manico del mestolo, sopra al pentolone che bolliva, ed ebbe un’idea.
In quel momento, infatti, la strega si trovava china sul pentolone, tutta intenta nei preparativi dell’ambita cena.
Fu proprio allora che Hansel, ricordando quello che il corvo gli aveva confidato nel bosco in relazione al maleficio di cui era vittima, gridò:

– Corvo, uccidi la strega!

L’uccello, che non aspettava che questa occasione,balzò sulla strega e le diede una tremenda beccata sulla testa, facendola finire nel pentolone.
Poi si rivolse ai due fratelli e disse:

– Fuggite!

Hansel e Gretel, non se lo fecero ripetere, fuggirono a gambe levate e non tornarono mai più in quella parte del bosco

Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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I musicanti di Brema – Jachob y Wilhelm Grimm

I musicanti di Brema - Jachob y Wilhelm Grimm

I musicanti di Brema – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta un vecchio asino che aveva lavorato sodo per tutta la vita. Ormai non era più capace di portare pesi e si stancava facilmente, per questo il suo padrone aveva deciso di relegarlo in un angolo della stalla ad aspettare la morte.
L’asino però non voleva trascorrere così gli ultimi anni della sua vita. Decise di andarsene a Brema, dove sperava di poter vivere facendo il musicista.
Si era incamminato da poco quando incontrò un cane, magro e ansante.
«Come mai hai il fiatone?» gli chiese.
«Sono dovuto scappare in tutta fretta per salvare la pelle» gli rispose il cane. «Il mio padrone voleva uccidermi, perché ora che sono vecchio non gli servo più».
«Purtroppo è vero – continuò – non sono più capace di rincorrere la selvaggina come una volta, e sono così debole che non spavento più nessuno. Ma ora come farò a procurarmi da mangiare?»concluse depresso.
«Vieni a Brema con me» suggerì l’asino. «Laggiù faremo fortuna con la musica: io suonerò il liuto e tu mi darai il ritmo con il tamburo» Il cane accettò la proposta e s’incamminò con il nuovo amico.
Non avevano percorso molta strada che s’imbatterono in un gatto che miagolava disperato.
«Cosa ti è successo per lamentarti in questa maniera?» gli chiese l’asino.

«Sono vecchio e soffro d’artrite, per questo non sono più agile come una volta e devo stare al caldo. Ma vedendomi riposare vicino al caminetto, ieri il mio padrone si è infuriato, mi ha accusato di essere un fannullone, mi ha rimproverato di non saper acciuffare nemmeno un topolino e mi ha cacciato da casa. Senza pietà! Pensare che l’ho servito fedelmente per tutta la vita!… Ora non so proprio dove andare, non so proprio come sbarcare il lunario!» rispose singhiozzando il gatto.

«Allora vieni a fare il musicista con noi a Brema» gli dissero insieme l’asino e il cane.

Il gatto non se lo fece ripetere due volte e pieno di speranza si unì a loro.
Passando davanti ad una fattoria, furono distratti da un gallo che schiamazzava rincorso da una massaia.
«Mi vuole tirare il collo! Vuole me perché non ha un tacchino da cucinare per il pranzo della domenica! Mi vuole tirare il collo!» urlava terrorizzato.
I tre compari gli gridarono: «Vieni con noi! Con la tua bella voce conquisteremo Brema!»

Non ebbero il tempo di aggiungere altro che, appollaiato sulla schiena dell’asino, sentirono il gallo che li incitava:
«Corriamo, corriamo, prima che la padrona mi acchiappi!»
Una corsa disperata fin nel folto del bosco. Lì finalmente ripresero fiato!
Ormai si era fatto buio e, si sa, di notte non è prudente viaggiare. Dovevano cercare qualcosa da mangiare e un posto per dormire almeno per quella notte. Rifocillati e riposati, l’indomani sarebbero ripartiti per Brema.
Fu allora che sentirono dei rumori …
Nascosti tra i cespugli, si guardarono intorno … videro una casa: ecco da dove arrivavano brusio, risate e… un profumo d’arrosto!
Erano così stanchi e così affamati!
Cercando di non fare rumore si avvicinarono alla casa e, con cautela, sempre senza farsi scorgere, guardarono all’interno attraverso la finestra.
Non potevano credere ai loro occhi! In mezzo alla stanza c’era un tavolo colmo di buone cose: un tacchino ripieno, mortadelle invitanti, formaggi di tutti i tipi, pane d’ogni forma, torte stupende, frutta profumata,…
«Potremmo chiedere ospitalità…» non ebbero il tempo di aggiungere altro, che i quattro amici videro avvicinarsi al tavolo quattro ceffi paurosi. Dunque quello era il covo dei briganti!
Se quei tipacci li avessero visti, sarebbe stata la loro fine!
Si sa che la fame aguzza l’ingegno!
Nascosti tra i cespugli, studiarono un piano diabolico, che avrebbe spaventato quei briganti, così da obbligarli a scappare dal loro covo e da lasciare tutto quel ben di dio da mangiare a loro completa disposizione.
Nel buio e nella tranquillità della notte, interrotti solo dalla luce che irradiava dall’interno della casa e dal vociare sguaiato dei briganti, si avvicinarono alla finestra.
In silenzio perfetto l’asino appoggiò le zampe sul davanzale, il cane balzò sul dorso dell’asino, il gatto si arrampicò fin sulla testa del cane e il gallo si appollaiò sulle spalle del gatto.
Quindi ad un cenno dell’asino, diedero inizio al loro primo concerto:
… e fu tutto un ragliare, abbaiare, miagolare e schiamazzare.
Un inferno! Terrorizzati, i quattro briganti cercarono la salvezza fuori dalla casa, ma all’uscita furono investiti da un essere che calciava, graffiava, mordeva, beccava!
Un INFERNO! Scapparono per non tornare mai più in quel luogo maledetto!
I quattro amici non ci pensarono due volte: si precipitarono all’interno della casa, senza esitare si sedettero intorno al tavolo… e …
credo che siano ancora lì che mangiano e ridono, che ridono e mangiano…
Lì era il Paradiso!
 
Jachob Grimm – Wilhelm Grimm

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Il lupo e i sette capretti – Jachob y Wilhelm Grimm

Il lupo e i sette capretti - Jachob y Wilhelm Grimm

Il lupo e i sette capretti – Jachob y Wilhelm Grimm

C’era una volta una capra che allevava da sola i suoi sette piccoli capretti. Essa li amava teneramente, ma le davano molte preoccupazioni, perché erano spesso disubbidienti e sbadati. Inoltre temeva sempre per la loro vita, perché questi piccoli imprudenti pensavano solo a giocare, sgambettando senza tregua ai margini della foresta, là dove si aggirava il loro nemico di sempre ed il più sanguinario: il grande lupo. Un giorno prima di andare nel bosco a cercare freschi germogli d’arboscelli per il pasto della sera, la capra radunò i suoi piccoli per metterli di nuovo in guardia.
 
– Devo assentarmi per alcune ore, non lasciate entrare nessuno dentro casa. Siate diffidenti perché il lupo è astuto, può falsare la sua voce e mascherare il suo aspetto. Ma voi potrete riconoscerlo a colpo sicuro dalle zampe che sono nere.
– Saremo saggi e prudenti – promisero i capretti – non apriremo la porta a nessuno se non mostrerà le zampe bianche.
La capra se ne partì abbastanza tranquilla. Qualche minuto dopo alcuni colpi furono battuti alla porta.
 
– Aprite, aprite miei cari piccoli, è vostra madre che ha dimenticato il suo scialle e le sue cesoie.
– Uuh! Uuh! – dissero scherzosamente i sette capretti – abbiamo riconosciuto la tua brutta voce, brutto diavolo di un lupo e non ti apriremo la porta.
 
Il lupo se ne andò via umiliato, ma lungo il cammino comperò un pezzetto di zucchero filato che succhio per addolcire la sua voce rauca. Ritornò di soppiatto e da dietro la porta disse con una voce melliflua: – Aprite miei cari figli, è la vostra mamma che porta dolciumi per voi.
Purtroppo per lui, il lupo, sbadato, aveva posato le sue zampe nere sull’orlo della finestra e fu quindi subito riconosciuto. I capretti gridarono scherzosamente:
 
– Uuh! Uuh! Signor lupo zampe nere, ti sei tradito!
Contrariato e affamato il lupo concepì un nuovo inganno. Corse zoppicando dal fornaio e gli disse:
– Mi sono ferito, mettetemi un impiastro di pasta cosparso di farina, mi allevierà il dolore.
A quei tempi era un rimedio abituale, pertanto il fornaio non sospettò i neri disegni del lupo che ripartì con la zampa destra imbiancata come desiderava. Ingannati dalla voce mielosa e dalla zampa bianca i poveri capretti alla fine aprirono la porta. Apparve il lupo, terribile, con la schiuma alla bocca, tutto nero, con fuori una grande e avida lingua rossa.
 
– Aiuto! Soccorso! – belarono i poveri piccoli, saltando sotto la tavola, nel letto, nell’armadio o nella vasca da bagno, nella speranza di sfuggire all’orribile bestia.
Ma il lupo, eccitato e morto di fame, li trovò tutti e l’inghiottì in un boccone uno dopo l’altro, con il pelo e gli zoccoli. Uno solo di loro scampò alla carneficina, perché si era nascosto nell’orologio a pendolo, rannicchiato sotto il pesante bilanciere di rame.
 
Dopo poco tempo mamma capra bussò alla porta e trovando la sua casa devastata, scoppiò in singhiozzi. Nessun belato rispondeva alla sua chiamata. Comprese allora che il lupo l’aveva preceduta.
Ad un tratto la poveretta drizzò le orecchie: dalla cassa dell’orologio proveniva un debole rumore e infine, sotto la pressione dei piccoli zoccoli, la sua porticina si aprì e ne uscì un capretto in lacrime che si precipitò ad abbracciare la madre raccontandole le astuzie del lupo e la triste fine dei suoi fratelli. La capra disse tra sé:
 
– Non deve essere andato molto lontano dopo una tale scorpacciata. Ingordo com’è, può darsi ci sia una speranza di ritrovare vivi i tuoi fratelli.
 
Afferrata la sua borsa per il cucito, si diresse di corsa verso la foresta. La capra non dovette andar lontano. Sazia, sdraiata ai piedi di un albero, la cattiva bestia si muoveva curiosamente. Con molta abilità la capra gli tagliò la pancia con un gran colpo di forbici.
Il lupo dormiva così bene che si mosse appena e non si accorse di niente.
 
Con grande gioia della loro madre i capretti uscirono sani e salvi, uno dopo l’altro, dallo stomaco del lupo. Per ordine della capra essi portarono sei grosse pietre che furono poste nella pancia del lupo che fu ricucito alla perfezione. Corsero poi tutti insieme ad appostarsi sul parapetto di un ponte.
 
Quando il lupo si svegliò, fu preso da una gran sete. Appesantito, corse verso la riva del fiume e per bere si sporse, ma trascinato dal peso delle pietre, colò a picco e s’annegò.
I capretti e la loro mamma ne furono molto felici.
 
fJachob Grimm – Wilhelm Grimm

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