Quand’ero ragazzo! – Carlo Collodi

Quand’ero ragazzo! - Carlo Collodi

Quand’ero ragazzo! – Carlo Collodi

Mille anni fa, anch’io ero un ragazzetto, come voi, miei cari e piccoli lettori: anch’io avevo, su per giù, la medesima vostra età, vale a dire fra gli undici e i dodici anni. E com’è naturale, dovevo ancor’io andare tutti i giorni alla scuola, salvo il giovedì e la domenica. Ma i giovedì, nel corso dell’anno, erano così pochi!… Appena uno per settimana! E le domeniche?… Le domeniche era grazia di Dio, se ritornavano una volta ogni otto giorni.
 
 Anch’io andavo a scuola: ma non saprei dirvi se la mia scuola fosse elementare, o ginnasiale, o liceale, perché mille anni fa, ossia a’ miei tempi, la scuola si chiamava semplicemente scuola, e quando noi altri ragazzi si diceva scuola, s’intendeva parlare di una stanza piuttosto grande e quasi pulita, nella quale eravamo costretti a passare circa sei ore della giornata, e dove qualche volta s’imparava anche a leggere, a scrivere e a far di conto.
 
La scuola, alla quale andavo io, era una bella sala di forma bislunga, rischiarata da due finestre laterali, e con un gran finestrone nella parete di fondo, il quale stava sempre chiuso, rimanendo nascosto dietro una grossa tenda di colore verdone-cupo.
 
Presso le due pareti, a destra e a sinistra della cattedra del maestro, ricorrevano due lunghissimi banchi per gli scolari.
 
Gli scolari seduti a destra si chiamavano Romani, e quelli a sinistra, avevano il soprannome giocoso di Cartaginesi.
 
Tanto gli uni che gli altri erano capitanati da un imperatore: e per la dignità d’Imperatore si capisce bene che venivano scelti i due scolari, che nel corso del mese avevano ottenuto un maggior numero di meriti, sia per buoni portamenti, sia per lodevole prova fatta nelle lezioni giornaliere.
 
Una volta, me lo rammento sempre, il posto d’Imperatore dei Romani, toccò anche a me: ma fu una gloria passeggera. Dopo due ore appena di regno, per una delle mie solite birichinate, il maestro mi fece scendere dal seggio imperiale, e fui riconfinato in fondo alla panca. Eppure, sia detto per la verità, ebbi tanta forza da sopravvivere a quella sciagura, e in pochi minuti seppi darmene quasi pace. Si vede proprio che, fin da ragazzo, io non ero nato per far l’imperatore.
 
E ora indovinate un po’, in tutta la scuola, chi fosse lo scolaro più svogliato, più irrequieto e più impertinente?
 
Se non lo sapete, ve lo dirò io in un orecchio: ma fatemi il piacere di non starlo a ridire ai vostri babbi e alle vostre mamme.
 
Lo scolaro più irrequieto e impertinente ero io. Non passava giorno che non si sentisse qualche voce gridare:
 
«Signor maestro, che fa smettere Collodi?».
 
«Che cosa fa Collodi?»
 
«Mangia le ciliegie, e poi mi mette tutti i nòccioli nelle tasche del vestito.»
 
Allora il maestro scendeva dal suo seggio: mi faceva sentire il sapore acerbo delle sue mani secche e durissime, come se fossero di bossolo, e mi ordinava di cambiar posto.
 
Dopo un’ora che avevo cambiato posto, ecco un’altra voce che gridava:
 
«Signor maestro, che fa smettere Collodi?».
 
«Che cosa ti fa Collodi?»
 
«Acchiappa le mosche e poi me le fa volare dentro gli orecchi.»
 
Allora il maestro, dopo avermi dato un altro saggio della magrezza e della durezza delle sue mani, mi faceva mutar posto daccapo.
 
Fatto sta che a furia di mutar posto tutti i giorni, sulla panca dei Romani non c’era più un romano che volesse accettarmi per suo vicino.
 
Fui mandato, per ultimo ripiego, fra i Cartaginesi: e mi trovai accanto al più buon figliolo di questo mondo, un certo Silvano, grasso come un cappone sotto le feste di Natale, il quale studiava poco, questo è vero, ma dormiva moltissimo, confessando da se stesso che dormiva più volentieri sulle panche di scuola che sulle materasse del letto.
 
Un giorno Silvano venne a scuola con un paio di calzoni nuovi di tela bianca. Appena me ne accorsi, la prima idea che mi balenò alla mente fu quella di dipingergli sui calzoni un bellissimo quadretto, a tocco in penna. Tant’è vero che quando l’amico, secondo il suo solito, si fu appisolato coi gomiti appoggiati al banco e con la testa fra le mani, io, senza mettere tempo in mezzo, inzuppai ben bene la penna nel calamaio, e sul gambale davanti gli disegnai un bel cavallo, col suo bravo cavaliere sopra. E il cavallo lo feci con la bocca aperta in atto di mangiare dei grossi pesci, perché così si potesse capire che questo capolavoro era stato fatto di venerdì, giorno in cui generalmente tutti mangiano di magro.
 
Confesso la verità: ero contento di me. Più guardavo quel mio bozzetto, e più mi pareva di aver fatto una gran bella cosa.
 
Così, però, non parve al mio amico Silvano: il quale, svegliandosi dal suo pisolino e trovandosi sui calzoni bianchi dipinto con l’inchiostro un soldato e un cavallo che mangiava i pesci, cominciò a piangere e a strillare con urli così acuti, da far credere che qualcuno gli avesse strappato una ciocca di capelli.
 
«Che cosa ti hanno fatto?» gridò il maestro, rizzandosi in piedi e aggiustandosi gli occhiali sul naso.
 
«Ih!… ih!… ih!… Quel cattivaccio di Collodi mi ha dipinto tutti i calzoni bianchi!…» E dicendo così, alzò in aria la gamba, mostrando il disegno fatto da me con tanta pazienza e, oserei dire, con tanta bravura.
 
Tutti risero, ma il maestro disgraziatamente non rise. Anzi, invece di ridere, scese giù dal suo banco, tutto infuriato come una folata di vento; e senza perdersi in rimproveri e parlantine inutili… Basta! per un certo sentimento di pudor naturale, rinunzio a descrivervi i diversi argomenti maneschi, che egli pose in opera per farmi guarire dalla strana passione di dipingere i calzoni de’ miei compagni.
 
Peraltro, finita la scuola, il povero Silvano non voleva a nessun costo tornare a casa, vergognandosi a farsi vedere in mezzo alla strada con quella pittura, a tocco in penna, sulla gamba sinistra. Allora che cosa immaginai? Tanto per abbonirlo, gli appuntai sul davanti un foglio di carta bianca: il qual foglio, scendendogli giù fino al ginocchio, a guisa di grembiule, nascondeva agli sguardi indiscreti del pubblico e dei ragazzacci di strada il mio bellissimo capolavoro.
 
Il giorno dopo fu per me una giornata nera, indimenticabile.
 
Appena entrato nella scuola, il maestro, con un cipiglio da far paura, mi disse, accennandomi un banco solitario in fondo alla scuola:
 
«Prendi i tuoi libri e i tuoi quaderni, e va’ a sederti laggiù! Così ti troverai sempre solo e isolato da tutti… e così pagherai caro il bruttissimo vizio di molestare i compagni, che hanno la disgrazia di starti vicini».
 
Mogio, mogio, come un pulcino bagnato, chinai il capo e ubbidii.
 
Per il primo e il secondo giorno tollerai con rassegnazione la mia solitudine: ma il terzo giorno non ne potevo più: proprio non ne potevo più. I compagni mi guardavano e ridevano: mi pareva di essere in berlina.
 
Dietro le mie spalle, come sapete, rimaneva un gran finestrone sempre chiuso e sempre coperto da una tenda di grossissima tela verdone-cupo. In un momento di gran noia e mentre cercavo qualche passatempo per divagarmi, ecco che mi venne fatto di accorgermi che in quella tenda e precisamente all’altezza del mio capo, c’era un piccolissimo bucolino. Appena visto quel bucolino, il mio primo pensiero fu quello di allargarlo un poco per giorno, e di allargarlo fino al punto, da poterci passar dentro con tutta la testa.
 
Questo lavoro durò quasi una settimana, perché la tela della tenda era molto ruvida e resistente.
 
Alla fine, quando il bucolino diventò una buca, feci subito segno ai miei compagni di scuola di stare attenti, perché avrebbero visto un magnifico spettacolo. Detto fatto, approfittando di quel momento che il maestro stava rileggendo i nostri componimenti, entrai dietro la tenda e cominciai a lavorare col capo. La buca era grande: ma il mio capo era più grande, e non ci voleva entrare: io, però, pigiai tanto e poi tanto, che finalmente il capo c’entrò.
 
Figuratevi la risata sonora che scoppiò in tutta la scuola, quando la mia testa fu vista campeggiare in mezzo a quella tenda verdona, come se qualcuno ce l’avesse attaccata con quattro spilli. Ma il maestro, al solito, non volle ridere: e invece, movendosi dal suo banco, venne verso di me in atto minaccioso. Io, come è naturale, mi provai subito a levare il capo dalla tenda: ma il capo, che c’era entrato forzatamente, non voleva più uscire.
 
La mia paura in quel punto fu tale e tanta, che cominciai a piangere come un bambino.
 
Allora il maestro si voltò agli scolari, e in tono canzonatorio disse loro:
 
«Lo vedete là, il vostro amico Collodi, tanto buono, tanto studioso, tanto garbato co’ suoi compagni di scuola? Non vedete, poverino, come piange? Movetevi dunque a compassione di lui: alzatevi dalle vostre panche e andate a rasciugargli le lacrime!».
 
Vi lascio immaginare se quelle birbe se lo fecero dire due volte! Ridendo e schiamazzando, si schierarono in fila a uso processione: e passando a due per due dinanzi a me, mi strofinarono tutti il loro fazzoletto sul viso! E pensare che fra quei fazzoletti da naso, ve n’erano parecchi che non avevano mai visto in faccia né la lavandaia né la stiratora. Meno male che, a quell’età, tutti i nasi son fratelli fra loro!
 
La lezione fu acerba, ma salutare. Da quel giorno in poi mi persuasi che a fare i molesti e gl’impertinenti, si finisce nelle scuole per perdere la benevolenza del maestro e la simpatia dei nostri compagni. Diventai un buon figliuolo anch’io: rispettavo gli altri, e gli altri rispettavano me: e dopo un mese di lodevoli portamenti, fui nominato daccapo Imperatore dei Romani. I romani, però della mia scuola, invece di darmi il titolo di Maestà, continuarono sempre a chiamarmi col modestissimo nome di Collodi.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Pinocchio (parte 1) – Carlo Collodi

Pinocchio (parte 1) - Carlo Collodi

Pinocchio (parte 1) – Carlo Collodi

C’era una volta… 
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
 
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
 
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.
 
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
 
 Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò tutto e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò a mezza voce:
 
– Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino.
 
Detto fatto, prese subito l’ascia arrotata per cominciare a levargli la scorza e a digrossarlo, ma quando fu lì per lasciare andare la prima asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentì una vocina sottile, che disse raccomandandosi:
 
– Non mi picchiar tanto forte!
 
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
 
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco, e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno; guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; apri l’uscio di bottega per dare un’occhiata anche sulla strada, e nessuno! O dunque?…
 
– Ho capito; – disse allora ridendo e grattandosi la parrucca, – si vede che quella vocina me la sono figurata io. Rimettiamoci a lavorare.
 
E ripresa l’ascia in mano, tirò giù un solennissimo colpo sul pezzo di legno.
 
– Ohi! tu m’hai fatto male! – gridò rammaricandosi la solita vocina.
 
Questa volta maestro Ciliegia resta di stucco, cogli occhi fuori del capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giù ciondoloni fino al mento, come un mascherone da fontana. Appena riebbe l’uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando dallo spavento:
 
– Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?… Eppure qui non c’è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto, come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c’è da far bollire una pentola di fagioli… O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno? Se c’è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l’accomodo io!
 
E cosi dicendo, agguantò con tutt’e due le mani quel povero pezzo di legno e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della stanza.
 
Poi si messe in ascolto, per sentire se c’era qualche vocina che si lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci minuti, e nulla!
 
– Ho capito, – disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la parrucca, – si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la sono figurata io! Rimettiamoci a lavorare.
 
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare per farsi un po’ di coraggio.
 
Intanto, posata da una parte l’ascia, prese in mano la pialla, per piallare e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava in su e in giù, senti la solita vocina che gli disse ridendo:
 
– Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo!
 
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giù come fulminato. Quando riaprì gli occhi, si trovò seduto per terra.
 
Il suo viso pareva trasfigurato, e perfino la punta del naso, di paonazza come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.
 
Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso che sappia ballare, tirar di scherma e fare i salti mortali.
 
In quel punto fu bussato alla porta.
 
– Passate pure, – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi.
 
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla che somigliava moltissimo alla polendina di granturco.
 
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia e non c’era più verso di tenerlo.
 
– Buon giorno, mastr’Antonio, – disse Geppetto. – Che cosa fate costì per terra?
 
– Insegno l’abbaco alle formicole.
 
– Buon pro vi faccia!
 
– Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
 
– Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore.
 
– Eccomi qui, pronto a servirvi, – replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi.
 
– Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea.
 
– Sentiamola.
 
– Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino; che ve ne pare?
 
– Bravo Polendina! – gridò la solita vocina, che non si capiva di dove uscisse.
 
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito:
 
– Perché mi offendete?
 
– Chi vi offende?
 
– Mi avete detto Polendina!…
 
– Non sono stato io.
 
– Sta un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
 
– No!
 
– Si!
 
– No!
 
– Si!
 
E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono.
 
Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname.
 
– Rendimi la mia parrucca! – gridò mastr’Antonio.
 
– E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace.
 
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
 
– Dunque, compar Geppetto, – disse il falegname in segno di pace fatta, – qual è il piacere che volete da me?
 
– Vorrei un po’ di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date?
 
Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando fu lì per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dette uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, ando a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.
 
– Ah! gli è con questo bel garbo, mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba? M’avete quasi azzoppito!…
 
– Vi giuro che non sono stato io!
 
– Allora sarò stato io!…
 
– La colpa è tutta di questo legno…
 
– Lo so che è del legno: ma siete voi che me l’avete tirato nelle gambe!
 
– Io non ve l’ho tirato!
 
– Bugiardo!
 
– Geppetto, non mi offendete; se no vi chiamo Polendina!…
 
– Asino!
 
– Polendina!
 
– Somaro!
 
– Polendina!
 
– Brutto scimmiotto!
 
– Polendina!
 
A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume degli occhi, si avvento sul falegname; e lì se ne dettero un sacco e una sporta.
 
A battaglia finita, mastr’Antonio si trovo due graffi di piu sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita.
 
Intanto Geppetto prese con se il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
 
Geppetto, tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome di Pinocchio. prime monellerie del burattino.
 
La casa di Geppetto era una stanzina terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere più semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero.
 
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino.
 
– Che nome gli metterò? – disse fra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.
 
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.
 
Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso.
 
Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n’ebbe quasi per male, e disse con accento risentito:
 
– Occhiacci di legno, perché mi guardate?
 
Nessuno rispose.
 
Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai.
 
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo.
 
Dopo il naso, gli fece la bocca.
 
La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere e a canzonarlo.
 
– Smetti di ridere! – disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al muro.
 
– Smetti di ridere, ti ripeto! – urlò con voce minacciosa.
 
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
 
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e continuò a lavorare.
 
Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo, le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
 
Appena finite le mani, Geppetto senti portarsi via la parrucca dal capo. Si voltò in su, e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano del burattino.
 
– Pinocchio!… rendimi subito la mia parrucca!
 
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per sé, rimanendovi sotto mezzo affogato.
 
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece triste e melanconico, come non era stato mai in vita sua, e voltandosi verso Pinocchio, gli disse:
 
– Birba d’un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male!
 
E si rasciugò una lacrima.
 
Restavano sempre da fare le gambe e i piedi.
 
Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentì arrivarsi un calcio sulla punta del naso.
 
– Me lo merito! – disse allora fra sé. – Dovevo pensarci prima! Ormai è tardi!
 
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento della stanza, per farlo camminare.
 
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l’altro.
 
Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare.
 
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini.
 
– Piglialo! piglialo! – urlava Geppetto; ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare.
 
Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere, il quale, sentendo tutto quello schiamazzo e credendo si trattasse di un puledro che avesse levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe in mezzo alla strada, coll’animo risoluto di fermarlo e di impedire il caso di maggiori disgrazie.
 
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere che barricava tutta la strada, s’ingegnò di passargli, per sorpresa, frammezzo alle gambe, e invece fece fiasco.
 
Il carabiniere, senza punto smoversi, lo acciuffò pulitamente per il naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una buona tiratina d’orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli gli orecchi, non gli riuscì di poterli trovare: e sapete perché? Perché, nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli.
 
Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro, gli disse tentennando minacciosamente il capo:
 
– Andiamo a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo i nostri conti!
 
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle più camminare. Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lì dintorno e a far capannello.
 
Chi ne diceva una, chi un’altra.
 
– Povero burattino! – dicevano alcuni, – ha ragione a non voler tornare a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell’omaccio di Geppetto!…
 
E gli altri soggiungevano malignamente:
 
– Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi! Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di farlo a pezzi!…
 
Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimise in libertà Pinocchio e condusse in prigione quel pover’uomo di Geppetto. Il quale, non avendo parole lì per lì per difendersi, piangeva come un vitellino, e nell’avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando:
 
– Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!…
 
Quello che accadde dopo, è una storia da non potersi credere, e ve la racconterò in quest’altri capitoli.
 
La storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno a noia di sentirsi correggere da chi ne sa più di loro.
 
Vi dirò dunque, ragazzi, che mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione, quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere, se la dava a gambe giù attraverso ai campi, per far più presto a tornarsene a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi di pruni e fossi pieni d’acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori. Giunto dinanzi a casa, trovò l’uscio di strada socchiuso. Lo spinse, entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
 
Ma quella contentezza durò poco, perché sentì nella stanza qualcuno che fece:
 
– Crì -crì -crì !
 
– Chi è che mi chiama? – disse Pinocchio tutto impaurito.
 
– Sono io!
 
Pinocchio si voltò e vide un grosso Grillo che saliva lentamente su su per il muro.
 
– Dimmi, Grillo: e tu chi sei?
 
– Io sono il Grillo-parlante, ed abito in questa stanza da più di cent’anni.
 
– Oggi però questa stanza è mia, – disse il burattino, – e se vuoi farmi un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.
 
– Io non me ne anderò di qui, – rispose il Grillo, – se prima non ti avrò detto una gran verità.
 
– Dimmela e spicciati.
 
– Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori e che abbandonano capricciosamente la casa paterna! Non avranno mai bene in questo mondo; e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
 
– Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani, all’alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno a scuola e per amore o per forza mi toccherà studiare; e io, a dirtela in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia e mi diverto più a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere gli uccellini di nido.
 
– Povero grullerello! Ma non sai che, facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te?
 
– Chetati. Grillaccio del mal’augurio! – gridò Pinocchio. Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:
 
– E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
 
– Vuoi che te lo dica? – replicò Pinocchio, che cominciava a perdere la pazienza. – Fra tutti i mestieri del mondo non ce n’è che uno solo, che veramente mi vada a genio.
– E questo mestiere sarebbe?…
 
– Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo.
 
– Per tua regola, – disse il Grillo-parlante con la sua solita calma, – tutti quelli che fanno codesto mestiere finiscono sempre allo spedale o in prigione.
 
– Bada, Grillaccio del mal’augurio!… se mi monta la bizza, guai a te!
 
– Povero Pinocchio! Mi fai proprio compassione!…
 
– Perché ti faccio compassione?
 
– Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa di legno.
 
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt’infuriato e preso sul banco un martello di legno lo scagliò contro il Grillo-parlante. Forse non credeva nemmeno di colpirlo: ma disgraziatamente lo colse per l’appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato di fare crì -crì -crì , e poi rimase lì stecchito e appiccicato alla parete.
 
Pinocchio ha fame, e cerca un uovo per farsi una frittata; ma sul più bello, la frittata gli vola via dalla finestra.
 
Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, senti un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito.
 
Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si converti in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello.
 
Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno quattro dita.
 
Allora si dette a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette e per tutti i ripostigli in cerca di un po’ di pane, magari un po’ di pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po’ di polenta muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma di qualche cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.
 
E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare: e faceva degli sbadigli cosi lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi. E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava via.
 
Allora piangendo e disperandosi, diceva:
 
– Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio babbo e a fuggire di casa… Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame!
 
Quand’ecco gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina. Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo davvero.
 
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest’uovo fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
 
– E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata?… No, è meglio cuocerlo nel piatto!… O non sarebbe più saporito se lo friggessi in padella? O se invece lo cuocessi a uso uovo da bere? No, la più lesta di tutte è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppa voglia di mangiarmelo! Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa: messe nel tegamino, invece d’olio o di burro, un po’ d’acqua: e quando l’acqua principiò a fumare, tac!;.. spezzò il guscio dell’uovo, e fece l’atto di scodellarvelo dentro.
 
Ma invece della chiara e del torlo, scappò fuori un pulcino tutto allegro e complimentoso, il quale, facendo una bella riverenza, disse:
 
– Mille grazie, signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa!
 
Ciò detto distese le ali e, infilata la finestra che era aperta, se ne volò via a perdita d’occhio.
 
Il povero burattino rimase lì, come incantato, cogli occhi fissi, colla bocca aperta e coi gusci delI’uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi in terra, per la disperazione, e piangendo diceva:
 
– Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame! Oh! che brutta malattia che è la fame!…
 
E perché il corpo gli seguitava a brontolare più che mai, e non sapeva come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole che gli avesse fatto l’elemosina di un po’ di pane.
 
Pinocchio si addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si sveglia coi piedi tutti bruciati
 
Per l’appunto era una nottataccia d’inferno. Tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare tutti gli alberi della campagna. Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.
 
Ma trova tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte di casa chiuse; le finestre chiuse; e nella strada nemmeno un cane. Pareva il paese dei morti.
 
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò al campanello d’una casa, e cominciò a suonare a distesa, dicendo dentro di sé:
 
– Qualcuno si affaccierà.
 
Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale gridò tutto stizzito:
 
– Che cosa volete a quest’ora?
 
– Che mi fareste il piacere di darmi un po’ di pane?
 
– Aspettami costì che torno subito, – rispose il vecchino, credendo di aver da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicollo che si divertono di notte a suonare i campanelli delle case, per molestare la gente per bene, che se la dorme tranquillamente.
 
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprì e la voce del solito vecchino gridò a Pinocchio:
 
– Fatti sotto e para il cappello.
 
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l’atto di pararlo, sentì pioversi addosso un’enorme catinellata d’acqua che lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio appassito.
 
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla fame e perché non aveva più forza di reggersi ritto, si pose a sedere, appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno di brace accesa.
 
E lì si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno, gli presero fuoco e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.
 
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero quelli d’un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché qualcuno aveva bussato alla porta.
 
– Chi è? – domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
 
– Sono io, – rispose una voce.
 
Quella voce era la voce di Geppetto.
 
Geppetto torna a casa, rifà i piedi al burattino e gli dà la colazione che il pover’uomo aveva portata con sé
 
Il povero Pinocchio, che aveva sempre gli occhi fra il sonno, non s’era ancora avvisto dei piedi, che gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentì la voce di suo padre, schizzò giù dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece, dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul pavimento.
 
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco di mestoli. cascato da un quinto piano.
 
– Aprimi! – intanto gridava Geppetto dalla strada.
 
– Babbo mio, non posso, – rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi per terra.
 
– Perché non puoi?
 
– Perché mi hanno mangiato i piedi.
 
– E chi te li ha mangiati?
 
– Il gatto, – disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
 
– Aprimi, ti dico! – ripetè Geppetto, – se no quando vengo in casa, il gatto te lo do io!
 
– Non posso star ritto, credetelo. O povero me! povero me che mi toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita!…
 
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un’altra monelleria del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il muro, entrò in casa dalla finestra.
 
Da principio voleva dire e voleva fare: ma poi quando vide il suo Pinocchio sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentì intenerirsi; e presolo subito in collo, si dette a baciarlo e a fargli mille carezze e mille moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giù per le gote, gli disse singhiozzando:
 
– Pinocchiuccio mio! Com’è che ti sei bruciato i piedi?
 
– Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d’inferno e me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran fame e allora il Grillo-parlante mi disse: «Ti sta bene; sei stato cattivo, e te lo meriti», e io gli dissi: «Bada, Grillo!…», e lui mi disse: «Tu sei un burattino e hai la testa di legno» e io gli tirai un martello di legno, e lui morì ma la colpa fu sua, perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse: «Arrivedella… e tanti saluti a casa» e la fame cresceva sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi alla finestra mi disse: «Fatti sotto e para il cappello» e io con quella catinellata d’acqua sul capo, perché il chiedere un po’ di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perché avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi, e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame l’ho sempre e i piedi non li ho più! Ih!… ih!… ih!… ih!…
 
E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare così forte, che lo sentivano da cinque chilometri lontano.
 
Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una cosa sola, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
 
– Queste tre pere erano per la mia colazione: ma io te le do volentieri. Mangiale, e buon pro ti faccia.
 
– Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
 
– Sbucciarle? – replicò Geppetto meravigliato.
 
– Non avrei mai creduto, ragazzo, mio, che tu fossi così boccuccia e così schizzinoso di palato. Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati e a saper mangiare di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare. I casi son tanti!…
 
– Voi direte bene, – soggiunse Pinocchio, – ma io non mangerò mai una frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire.
 
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra un angolo della tavola.
 
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l’atto di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:
 
– Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
 
– Ma io il torsolo non lo mangio davvero!… – gridò il burattino, rivoltandosi come una vipera.
 
– Chi lo sa! I casi son tanti!… – ripetè Geppetto, senza riscaldarsi.
 
Fatto sta che i tre torsoli, invece di essere gettati fuori dalla finestra, vennero posati sull’angolo della tavola in compagnia delle bucce.
 
Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
 
– Ho dell’altra fame!
 
– Ma io, ragazzo mio, non ho più nulla da darti.
 
– Proprio nulla, nulla?
 
– Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.
 
– Pazienza! – disse Pinocchio, – se non c’è altro, mangerò una buccia.
 
E cominciò a masticare. Da principio storse un po’ la bocca; ma poi, una dietro l’altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le bucce, anche i torsoli, e quand’ebbe finito di mangiare ogni cosa, si battè tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
 
– Ora sì che sto bene!
 
– Vedi dunque, – osservò Geppetto, – che avevo ragione io quando ti dicevo che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo. I casi son tanti!…
 
Geppetto rifa i piedi a Pinocchio e vende la propria casacca per comprargli l’Abbecedario
 
Il burattino, appena che si fu levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perché voleva un paio di piedi nuovi.
 
Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta lo lasciò piangere e disperarsi per una mezza giornata: poi gli disse:
 
– E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo da casa tua?
 
– Vi prometto, – disse il burattino singhiozzando, – che da oggi in poi sarò buono…
 
– Tutti i ragazzi, – replicò Geppetto, – quando vogliono ottenere qualcosa, dicono così.
 
– Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore…
 
– Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima storia.
 
– Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono più buono di tutti e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia.
 
Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni di pianto e il cuore grosso dalla passione di vedere il suo povero Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole: ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato, si pose a lavorare di grandissimo impegno.
 
E in meno d’un’ora, i piedi erano bell’e fatti; due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.
 
Allora Geppetto disse al burattino:
 
– Chiudi gli occhi e dormi!
 
E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che si fingeva addormentato, Geppetto con un po’ di colla sciolta in un guscio d’uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò così bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell’attaccatura.
 
Appena il burattino si accorse di avere i piedi, saltò giù dalla tavola dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriole, come se fosse ammattito dalla gran contentezza.
 
– Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me, – disse Pinocchio al suo babbo, – voglio subito andare a scuola.
 
– Bravo ragazzo!
 
– Ma per andare a scuola ho bisogno d’un po’ di vestito.
 
Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo, gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza di albero e un berrettino di midolla di pane.
 
Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d’acqua e rimase così contento di sé, che disse pavoneggiandosi:
 
– Paio proprio un signore!
 
– Davvero, – replicò Geppetto, – perché, tienlo a mente, non è il vestito bello che fa il signore. ma è piuttosto il vestito pulito.
 
– A proposito, – soggiunse il burattino, – per andare alla scuola mi manca sempre qualcosa: anzi mi manca il più e il meglio.
– Cioè?
 
– Mi manca l’Abbecedario.
 
– Hai ragione: ma come si fa per averlo?
 
– è facilissimo: si va da un libraio e si compra.
 
– E i quattrini?
 
– Io non ce l’ho.
 
– Nemmeno io, – soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.
 
E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti: anche i ragazzi.
 
– Pazienza! – gridò Geppetto tutt’a un tratto rizzandosi in piedi; e infilatasi la vecchia casacca di fustagno, tutta toppe e rimendi, uscì correndo di casa.
 
Dopo poco tornò: e quando tornò aveva in mano l’Abbecedario per il figliuolo, ma la casacca non l’aveva più. Il pover’uomo era in maniche di camicia, e fuori nevicava.
 
– E la casacca, babbo?
 
– L’ho venduta.
 
– Perché l’avete venduta?
 
– Perché mi faceva caldo.
 
Pinocchio capì questa risposta a volo, e non potendo frenare l’impeto del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo per tutto il viso.
 
Pinocchio vende l’Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini
 
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino mille ragionamenti e mille castelli in aria, uno più bello dell’altro.
 
E discorrendo da sé solo diceva:
 
– Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò a scrivere e domani l’altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno.
 
Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d’argento e d’oro, e coi bottoni di brillanti. E quel pover’uomo se la merita davvero: perché, insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche di camicia… a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci di certi sacrifizi!…
 
Mentre tutto commosso diceva così gli parve di sentire in lontananza una musica di pifferi e di colpi di grancassa: pì pì pì zum, zum, zum, zum.
 
Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla spiaggia del mare.
 
– Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola, se no…
 
E rimase lì perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione: o a scuola, o a sentire i pifferi.
 
– Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola c’è sempre tempo, – disse finalmente quel monello facendo una spallucciata.
 
Detto fatto, infilò giù per la strada traversa, e cominciò a correre a gambe. Più correva e più sentiva distinto il suono dei pifferi e dei tonfi della grancassa: pì pì
 
pì.. zum, zum, zum, zum.
 
Quand’ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente, la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela dipinta di mille colori.
 
– Che cos’è quel baraccone? – domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto che era lì del paese.
 
– Leggi il cartello, che c’è scritto, e lo saprai.
 
– Lo leggerei volentieri, ma per l’appunto oggi non so leggere.
 
– Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello a lettere rosse come il fuoco c’è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI…
 
– è molto che è incominciata la commedia?
 
– Comincia ora.
 
– E quanto si spende per entrare?
 
– Quattro soldi.
 
Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno, e disse senza vergognarsi al ragazzetto, col quale parlava:
 
– Mi daresti quattro soldi fino a domani?
 
– Te li darei volentieri, – gli rispose l’altro canzonandolo, – ma oggi per l’appunto non te li posso dare.
 
– Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta, – gli disse allora il burattino.
 
– Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove su, non c’è più verso di cavartela da dosso.
 
– Vuoi comprare le mie scarpe?
 
– Sono buone per accendere il fuoco.
 
– Quanto mi dai del berretto?
 
– Bell’acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C’è il caso che i topi me lo vengano a mangiare in capo!
 
Pinocchio era sulle spine. Stava lì lì per fare un’ultima offerta: ma non aveva coraggio; esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:
 
– Vuoi darmi quattro soldi di quest’Abbecedario nuovo?
 
– Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi, – gli rispose il suo piccolo interlocutore, che aveva molto più giudizio di lui.
 
– Per quattro soldi l’Abbecedario lo prendo io, – gridò un rivenditore di panni usati, che s’era trovato presente alla conversazione.
 
E il libro fu venduto lì sui due piedi. E pensare che quel pover’uomo di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia, per comprare l’Abbecedario al figliuolo!
 
I burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio e gli fanno una grandissima festa; ma sul più bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine
 
Quando Pinocchio entrò nel teatrino delle marionette, accadde un fatto che destò mezza rivoluzione.
 
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
 
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all’altro di scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
 
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano d’ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali ragionevoli e due persone di questo mondo.
 
Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare, e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
 
– Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio!…
 
– è Pinocchio davvero! – grida Pulcinella.
 
– è: proprio lui! – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
 
– è: Pinocchio! è Pinocchio! – urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori delle quinte.
 
è Pinocchio! è il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio.
 
– Pinocchio, vieni quassù da me, – grida Arlecchino, – vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno!
 
A questo affettuoso invito Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti monta sulla testa del direttore d’orchestra, e di lì schizza sul palcoscenico.
 
è: impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza, che Pinocchio ricevè in mezzo a tanto arruffio dagli attori e dalle attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.
 
Questo spettacolo era commovente, non c’è che dire: ma il pubblico della platea, vedendo che la commedia non andava più avanti, s’impazientì e prese a gridare:
 
– Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia!
 
Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.
 
Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.
 
All’apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno fiatò più. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini, maschi e femmine, tremavano tutti come tante foglie.
 
– Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? – domandò il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d’Orco gravemente infreddato di testa.
 
– La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!…
 
– Basta cosi! Stasera faremo i nostri conti.
 
Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina, dov’egli s’era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente infilato nello spiedo. E perché gli mancavano la legna per finirlo di cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
 
– Portatemi di qua quel burattino che troverete attaccato al chiodo. Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all’arrosto.
 
Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un’occhiataccia del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un’anguilla fuori dell’acqua, strillava disperatamente:
 
– Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, non voglio morire!…
 
Mangiafoco starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico Arlecchino
 
Il burattinaio Mangiafoco che (questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv’uomo. Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio, che si dibatteva per ogni verso, urlando «Non voglio morire, non voglio morire!», principiò subito a commuoversi e a impietosirsi e, dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté più, e lasciò andare un sonorissimo starnuto.
 
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso, e chinatosi verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
 
– Buone nuove, fratello. Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno che s’è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo.
 
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono impietositi per qualcuno, o piangono o per lo meno fanno finta di rasciugarsi gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s’inteneriva davvero, aveva il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere agli altri la sensibilità del suo cuore.
 
Dopo aver starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero, gridò a Pinocchio:
 
– Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un’uggiolina in fondo allo stomaco… Sento uno spasimo, che quasi quasi… ~
 
Etcì etcì~ – e fece altri due starnuti.
 
– Felicità! – disse Pinocchio.
 
– Grazie! E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? – gli domandò Mangiafoco.
 
– Il babbo, sì la mamma non l’ho mai conosciuta.
 
– Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora ti facessi gettare fra quei carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!.. Etcì etcì etcì – e fece altri tre starnuti.
 
– Felicità! – disse Pinocchio.
 
– Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non ho più legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma oramai mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare sotto lo spiedo qualche burattino della mia Compagnia… Olà, giandarmi!
 
A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi, secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata in mano.
 
Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:
 
– Pigliatemi lì quell’Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene!
 
Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.
 
Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi ai piedi del burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
 
– Pietà, signor Mangiafoco!…
 
– Qui non ci son signori! – replicò duramente il burattinaio.
 
– Pietà, signor Cavaliere!…
 
– Qui non ci son cavalieri!
 
– Pietà, signor Commendatore!…
 
– Qui non ci son commendatori!
 
– Pietà, Eccellenza!…
 
A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio:
 
– Ebbene, che cosa vuoi da me?
 
– Vi domando grazia per il povero Arlecchino!…
 
– Qui non c’è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito bene.
 
– In questo caso, – gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando via il suo berretto di midolla di pane, – in questo caso conosco qual è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero amico mio, debba morire per me!…
 
Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di latte.
 
Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio: ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire. E fatti quattro o cinque starnuti, aprì affettuosamente le braccia e disse a Pinocchio:
 
– Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio.
 
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla punta del naso.
 
– Dunque la grazia è fatta? – domandò il povero Arlecchino, con un fil di voce che si sentiva appena.
 
– La grazia è fatta! – rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando e tentennando il capo: – Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo crudo, ma un’altra volta, guai a chi toccherà!…
 
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.
 
Il burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d’oro a Pinocchio, perché le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò in disparte Pinocchio e gli domandò:
 
– Come si chiama tuo padre?
 
– Geppetto.
 
– E che mestiere fa?
 
– Il povero.
 
– Guadagna molto?
 
– Guadagna tanto, quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca. Si figuri che per comprarmi l’Abbecedario della scuola dovè vendere l’unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi, era tutta una piaga.
 
– Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d’oro. Vai subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia.
 
Pinocchio, com’è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio, abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della Compagnia, anche i giandarmi: e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per tornarsene a casa sua.
 
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt’e due gli occhi, che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni di sventura. La Volpe che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto: e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
 
– Buon giorno, Pinocchio, – gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
 
– Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino.
 
– Conosco bene il tuo babbo.
 
– Dove l’hai veduto?
 
– L’ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
 
– E che cosa faceva?
 
– Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.
 
– Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà più!…
 
– Perché?
 
– Perché io sono diventato un gran signore.
 
– Un gran signore tu? – disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.
 
– C’è poco da ridere, – gridò Pinocchio impermalito. – Mi dispiace davvero di farvi venire l’acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete, sono cinque bellissime monete d’oro.
 
E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.
 
Al simpatico suono di quelle monete la Volpe, per un moto involontario, allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt’e due gli occhi, che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito, tant’è vero che Pinocchio non si accorse di nulla.
 
– E ora, – gli domandò la Volpe, – che cosa vuoi farne di codeste monete?
 
– Prima di tutto, – rispose il burattino, – voglio comprare per il mio babbo una bella casacca nuova, tutta d’oro e d’argento e coi bottoni di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.
 
– Per te?
 
– Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.
 
– Guarda me! – disse la Volpe. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto una gamba.
 
– Guarda me! – disse il Gatto. – Per la passione sciocca di studiare ho perduto la vista di tutti e due gli occhi.
 
In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe della strada, fece il solito verso e disse:
 
– Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no, te ne pentirai!
 
Povero Merlo, non l’avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto, gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ~ohi~ se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.
 
Mangiato che l’ebbe e ripulitasi la bocca, chiuse gli occhi daccapo e ricominciò a fare il cieco, come prima.
 
– Povero Merlo! – disse Pinocchio al Gatto, – perché l’hai trattato così male?
 
– Ho fatto per dargli una lezione. Così un’altra volta imparerà a non metter bocca nei discorsi degli altri.
 
Erano giunti più che a mezza strada, quando la Volpe, fermandosi di punto in bianco, disse al burattino:
 
– Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro?
 
– Cioè?
 
– Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?
 
– Magari! E la maniera?
 
– La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti venire con noi.
 
– E dove mi volete condurre?
 
– Nel paese dei Barbagianni.
 
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
 
– No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene a casa, dove c’è il mio babbo che m’aspetta. Chi lo sa, povero vecchio, quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando diceva: «I ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo». E io l’ho provato a mie spese, Perché mi sono capitate dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso pericolo… Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!
 
– Dunque, – disse la Volpe, – vuoi proprio andare a casa tua? Allora vai pure, e tanto peggio per te!
 
– Tanto peggio per te! – ripetè il Gatto.
 
– Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.
 
– Alla fortuna! – ripetè il Gatto.
 
– I tuoi cinque zecchini, dall’oggi al domani sarebbero diventati duemila.
 
– Duemila! – ripetè il Gatto.
 
– Ma com’è mai possibile che diventino tanti? – domandò Pinocchio, restando a bocca aperta dallo stupore.
 
– Te lo spiego subito, – disse la Volpe. – Bisogna sapere che nel paese dei Barbagianni c’è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro per esempio uno zecchino d’oro. Poi ricuopri la buca con un po’ di terra: l’annaffi con due secchie d’acqua di fontana, ci getti sopra una presa di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata, ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell’albero carico di tanti zecchini d’oro, quanti chicchi di grano può avere una bella spiga nel mese di giugno.
 
– Sicché dunque, – disse Pinocchio sempre più sbalordito, – se io sotterrassi in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini ci troverei?
 
– è un conto facilissimo, – rispose la Volpe, – un conto che puoi farlo sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque e la mattina dopo ti trovi in tasca duemila cinquecento zecchini lampanti e sonanti.
 
– Oh che bella cosa! – gridò Pinocchio, ballando dall’allegrezza. – Appena che questi zecchini gli avrò raccolti, ne prenderò per me duemila e gli altri cinquecento di più li darò in regalo a voi altri due.
 
– Un regalo a noi? – gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa. – Dio te ne liberi!
 
– Te ne liberi! – ripetè il Gatto.
 
– Noi, – riprese la Volpe, – non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.
 
– Gli altri! – ripetè il Gatto.
 
– Che brave persone! – pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi lì sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell’Abbecedario e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:
 
– Andiamo pure. Io vengo con voi.
 
L’osteria del Gambero Rosso
 
Cammina, cammina, cammina, alla fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso.
 
– Fermiamoci un po’ qui, – disse la Volpe, – tanto per mangiare un boccone e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere domani, all’alba, nel Campo dei miracoli.
 
Entrati nell’osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di loro aveva appetito.
 
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
 
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dovè contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca.
 
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di noce e un cantuccino di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero figliuolo col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso un’indigestione anticipata di monete d’oro.
 
Quand’ebbero cenato, la Volpe disse all’oste:
 
– Dateci due buone camere, una per il signor Pinocchio e un’altra per me e per il mio compagno. Prima di ripartire schiacceremo un sonnellino. Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare il nostro viaggio.
 
– Sissignori, – rispose l’oste e strizzò l’occhio alla Volpe e al Gatto, come dire: «Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!…».
 
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli erano carichi di zecchini d’oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano ~zin, zin, zin~, quasi volessero dire: «Chi ci vuole venga a prenderci». Ma quando Pinocchio fu sul più bello, quando, cioè, allungò la mano per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca, si trovò svegliato all’improvviso da tre violentissimi colpi dati nella porta di camera.
 
Era l’oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era suonata.
 
– E i miei compagni sono pronti? – gli domandò il burattino.
 
– Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.
 
– Perché mai tanta fretta?
 
– Perché il Gatto ha ricevuto un’imbasciata, che il suo gattino maggiore, malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.
 
– E la cena l’hanno pagata?
 
– Che vi pare? Quelle lì sono persone troppo educate perché facciano un affronto simile alla signoria vostra.
 
– Peccato! Quest’affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! – disse Pinocchio, grattandosi il capo. Poi domandò:
 
– E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
 
– Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno.
 
Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni, e dopo partì.
 
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell’osteria c’era un buio così buio, che non ci si vedeva da qui a lì. Nella campagna all’intorno non si sentiva alitare una foglia. Solamente alcuni uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all’altra, venivano a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale, facendo un salto indietro per la paura, gridava: – Chi va là? – e l’eco delle colline circostanti ripeteva in lontananza: – Chi va là? chi va là? chi va là?
 
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro una lampada di porcellana trasparente.
 
– Chi sei? – gli domandò Pinocchio.
 
– Sono l’ombra del Grillo-parlante, – rispose l’animaletto, con una vocina fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.
 
– Che vuoi da me? – disse il burattino.
 
– Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini, che ti sono rimasti, al tuo povero babbo che piange e si dispera per non averti più veduto.
 
– Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini diventeranno duemila.
 
– Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o imbroglioni! Dai retta a me, ritorna indietro.
 
– E io, invece, voglio andare avanti.
 
– L’ora è tarda!…
 
– Voglio andare avanti.
 
– La nottata è scura…
 
– Voglio andare avanti.
 
– La strada è pericolosa…
 
– Voglio andare avanti.
 
– Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di loro capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono.
 
– Le solite storie. Buona notte, Grillo.
 
– Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini!
 
Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase più buia di prima.
 
Pinocchio, per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s’imbatte negli assassini
 
– Davvero, – disse fra sé il burattino rimettendosi in viaggio, – come siamo disgraziati noialtri poveri ragazzi! Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci danno consigli. A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché io non ho voluto dar retta a quell’uggioso di Grillo, chi lo sa quante disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi, per far paura ai ragazzi che vogliono andare fuori la notte. E poi se anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: «Signori assassini, che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!». A questa parlantina fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non voler scappare, allora scapperei io, e così la farei finita…
 
Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscio di foglie.
 
Si voltò a guardare e vide nel buio due figuracce nere tutte imbacuccate in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.
 
– Eccoli davvero! – disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.
 
Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancor fatto il primo passo, che sentì agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose, che gli dissero:
 
– O la borsa o la vita!
 
Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime per dare ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino, e che non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.
 
– Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! – gridavano minacciosamente i due briganti.
 
E ii burattino fece col capo e colle mani un segno come dire: «Non ne ho».
 
– Metti fuori i denari o sei morto, – disse l’assassino più alto di statura.
 
– Morto! – ripetè l’altro.
 
– E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!
 
– Anche tuo padre!
 
– No, no, no, il mio povero babbo no! – gridò Pinocchio con accento disperato: ma nel gridare così, gli zecchini gli suonarono in bocca.
 
– Ah! furfante! Dunque i denari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali subito!
 
E Pinocchio, duro!
 
– Ah! tu fai il sordo? Aspetta un poco, che penseremo noi a farteli sputare!
 
Difatti, uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell’altro lo prese per la bazza, e lì cominciarono a tirare screanzatamente, uno per in qua e l’altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata e ribadita.
 
Allora l’assassino più piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio, provò a conficcarglielo, a guisa di leva e di scalpello, fra le labbra: ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi la sua maraviglia quando, invece di una mano, si accorse di aver sputato in terra uno zampetto di gatto.
 
Incoraggiato da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie degli assassini e, saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani dietro una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con una gamba sola, né si è saputo mai come facesse.
 
Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva più. Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e, ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.
 
Non per questo si dettero per vinti: che anzi, raccolto un fastello di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare, come una candela agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre più, e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto di vetta all’albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.
 
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre; quand’ecco che Pinocchio si trovò sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? «Una, due, tre!» gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, ~patatunfete!~… cascarono giù nel bel mezzo del fosso. Pinocchio che sentì il tonfo e gli schizzi dell’acqua, urlò ridendo e seguitando a correre:
 
– Buon bagno, signori assassini.
 
E già si figurava che fossero bell’e affogati, quando invece, voltandosi a guardare, si accorse che gli correvano dietro tutti e due, sempre imbacuccati nei loro sacchi e grondanti acqua come due panieri sfondati.
 
Gli assassini inseguono Pinocchio; e, dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande
 
Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve.
 
– Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei salvo, – disse dentro di sé.
 
E senza indugiare un minuto riprese a correre per il bosco a carriera distesa. E gli assassini sempre dietro.
 
E dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente tutto trafelato arrivò alla porta di quella casina e bussò.
 
Nessuno rispose.
 
Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso dè suoi persecutori.
 
Lo stesso silenzio.
 
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muovere punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
 
– In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti.
 
– Aprimi almeno tu! – gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
 
– Sono morta anch’io.
 
– Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?
 
– Aspetto la bara che venga a portarmi via.
 
Appena detto così, la bambina disparve, e la finestra si richiuse senza far rumore.
 
– O bella bambina dai capelli turchini, – gridava Pinocchio, – aprimi per carità! Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass…
 
Ma non poté finir la parola, perche sentì afferrarsi per il collo, e le solite due vociaccie che gli brontolarono minacciosamente:
 
– Ora non ci scappi più!
 
Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso da un tremito così forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto la lingua.
 
– Dunque? – gli domandarono gli assassini, – vuoi aprirla la bocca,
 
sì o no? Ah! non rispondi?… Lascia fare: ché questa volta te la faremo aprir noi!…
 
E cavato fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi,
 
~zaff…~ gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
 
Ma il burattino per sua fortuna era fatto d’un legno durissimo, motivo per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.
 
– Ho capito, – disse allora uno di loro, – bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
 
– Impicchiamolo, – ripetè l’altro.
 
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle e passatogli un nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di una grossa pianta detta la Quercia grande.
 
Poi si posero là, seduti sull’erba, aspettando che il burattino facesse l’ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava più che mai.
 
Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero sghignazzando:
 
– Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai la garbatezza di farti trovare bell’e morto e con la bocca spalancata.
 
E se ne andarono.
 
Intanto s’era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato, facendolo dondolare violentemente come il battaglio di una campana che suona a festa. E quel dondolio gli cagionava acutissimi spasimi, e il nodo scorsoio, stringendosi sempre più alla gola, gli toglieva il respiro.
 
A poco a poco gli occhi gli si appannavano; e sebbene sentisse avvicinarsi la morte, pure sperava sempre che da un momento all’altro sarebbe capitata qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente il suo povero babbo… e balbettò quasi moribondo:
 
– Oh babbo mio! se tu fossi qui!…
 
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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