Pinocchio (parte 3) – Carlo Collodi

Pinocchio (parte 3) - Carlo Collodi

Pinocchio (parte 3) – Carlo Collodi

Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande avvenimento Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura.
 
– Passa via! – gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato.
 
Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse: «Dammi un boccon di frittura e ti lascio in pace».
 
 – Passa via, ti dico! – gli ripetè il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata.
 
Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne.
 
In quel mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse:
 
– Salvami, Alidoro!… Se non mi salvi, son fritto!
 
Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio e si accorse con sua grandissima maraviglia che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato che il pescatore teneva in mano.
 
Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno!
 
Il pescatore, arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dovè tornarsene indietro.
 
Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in terra l’amico Pinocchio.
 
– Quanto ti debbo ringraziare! – disse il burattino.
 
– Non c’è bisogno, – replicò il cane. – Tu salvasti me, e quel che è fatto, è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno coll’altro.
 
– Ma come mai sei capitato in quella grotta?
 
– Ero sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato dietro.
 
Se arrivavo un minuto più tardi!…
 
– Non me lo dire! – urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. – Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr!… mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!…
 
Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.
 
Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole:
 
– Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?…
 
– Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora…
 
Ora sarà morto!… – interruppe Pinocchio con gran dolore.
 
– No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.
 
– Davvero, davvero? – gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. – Dunque la ferita non era grave?
 
– Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, – rispose il vecchietto, – perché gli tirarono sul capo un grosso libro rilegato in cartone.
 
– E chi glielo tirò?
 
– Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio…
 
– E chi è questo Pinocchio? – domandò il burattino facendo lo gnorri.
 
– Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo…
 
– Calunnie! Tutte calunnie!
 
– Lo conosci tu questo Pinocchio?
 
– Di vista! – rispose il burattino.
 
– E tu che concetto ne hai? – gli chiese il vecchietto.
 
– A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, ubbidiente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia…
 
Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso gli s’era allungato più d’un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare:
 
– Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto: perché conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, che invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino!
 
Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò della grandezza naturale, come era prima.
 
– E perché sei tutto bianco a codesto modo? – gli domandò a un tratto il vecchietto.
 
– Vi dirò… senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco, – rispose il burattino, vergognandosi a confessare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.
 
– O della tua giacchetta, dè tuoi calzoncini e del tuo berretto che cosa ne hai fatto?
 
– Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato.
 
Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perché io possa ritornare a casa?
 
– Ragazzo mio, in fatto di vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se vuoi, piglialo: eccolo là.
 
E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese.
 
Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro e, discorrendo da se solo, andava dicendo:
 
– Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?… Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?… Scommetto che non me la perdona!… Oh! Non me la perdona di certo…
 
E mi sta il dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!…
 
Arrivò al paese che era già notte buia, e perché faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
 
Ma, quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare si allontanò, correndo, una ventina di passi. Si avvicinò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: si avvicinò una terza volta, e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, e bussò un piccolo colpettino.
 
Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:
 
– Chi è a quest’ora?
 
– La Fata è in casa? – domandò il burattino.
 
– La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
 
– Sono io!
 
– Chi io?
 
– Pinocchio.
 
– Chi Pinocchio?
 
– Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.
 
– Ah! ho capito, – disse la Lumaca. – Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.
 
– Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo.
 
– Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
 
Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.
 
– Lumachina bella, – gridò Pinocchio dalla strada, – sono due ore che aspetto ! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
 
– Ragazzo mio – gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, – ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
 
E la finestra si richiuse.
 
Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.
 
Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento: ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì nel rigagnolo d’acqua in mezzo alla strada.
 
– Ah, sì? – gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. – Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci.
 
E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perché il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.
 
Figuratevi il povero Pinocchio ! Dovè passare tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.
 
La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì.
 
Quella brava bestiola della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata!
 
– Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? – domandò ridendo al burattino.
 
– E’ stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.
 
– Ragazzo mio, così ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.
 
– Pregate la Fata da parte mia!…
 
– La Fata dorme e non vuol essere svegliata.
 
– Ma che cosa volete che io faccia inchiodato tutto il giorno a questa porta?
 
– Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.
 
– Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perché mi sento rifinito.
 
– Subito! – disse la Lumaca.
 
Difatti dopo tre ore e mezzo Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.
 
– Ecco la colazione che vi manda la Fata, – disse la Lumaca.
 
Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto.
 
Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dovè accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite al naturale.
 
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro: ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
 
Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.
 
– Anche per questa volta ti perdono, – gli disse la Fata, – ma guai a te se me ne fai un’altra delle tue!…
 
Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti, agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:
 
– Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
 
– Cioè?
 
– Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo perbene.
 
Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra. Quella giornata prometteva d’essere molto bella e molto allegra, ma…
 
Disgraziatamente, nella vita dei burattini c’è sempre un ~ma~, che sciupa ogni cosa.
 
Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il Paese dei Balocchi
 
Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gli inviti: e la Fata gli disse:
 
– Vai pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?
 
– Fra un’ora prometto di essere bell’e ritornato, – replicò il burattino.
 
– Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere: ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere.
 
– Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.
 
– Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.
 
– Perché?
 
– Perché i ragazzi che non danno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.
 
– E io l’ho provato! – disse Pinocchio. – Ma ora non ci ricasco più!
 
– Vedremo se dici il vero.
 
Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori della porta di casa.
 
In poco più d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore: altri da principio si fecero un po’ pregare; ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: «Verremo anche noi, per farti piacere».
 
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte.
 
Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano.
 
Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini.
 
– Che cosa fai costì? – gli domandò Pinocchio, avvicinandosi.
 
– Aspetto la mezzanotte, per partire…
 
– Dove vai?
 
– Lontano, lontano, lontano!
 
– E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!…
 
– Che cosa volevi da me?
 
– Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?
 
– Quale?
 
– Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri.
 
– Buon pro ti faccia.
 
– Domani, dunque, ti aspetto a colazione a casa mia.
 
– Ma se ti dico che parto questa sera.
 
– A che ora?
 
– Fra poco.
 
– E dove vai?
 
– Vado ad abitare in un paese… che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!…
 
– E come si chiama?
 
– Si chiama il Paese dei Balocchi. Perché non vieni anche tu?
 
– Io? no davvero!
 
– Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più salubre per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!…
 
– Ma come si passano le giornate nel Paese dei Balocchi?
 
– Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?
 
– Uhm!… – fece Pinocchio: e tentennò leggermente il capo, come dire: «è una vita che farei volentieri anch’io!».
 
– Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti.
 
– No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio e buon viaggio.
 
– Dove corri con tanta furia?
 
– A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.
 
– Aspetta altri due minuti.
 
– Faccio troppo tardi.
 
– Due minuti soli.
 
– E se poi la Fata mi grida?
 
– Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà, – disse quella birba di Lucignolo.
 
– E come fai? Parti solo o in compagnia?
 
– Solo? Saremo più di cento ragazzi.
 
– E il viaggio lo fate a piedi?
 
– A mezzanotte passerà di qui il carro che ci deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.
 
– Che cosa pagherei che ora fosse mezzanotte!…
 
– Perché?
 
– Per vedervi partire tutti insieme.
 
– Rimani qui un altro poco e ci vedrai.
 
– No, no: voglio ritornare a casa.
 
– Aspetta altri due minuti.
 
– Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.
 
– Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?
 
– Ma dunque, – soggiunse Pinocchio, – tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?…
 
– Neanche l’ombra.
 
– E nemmeno maestri?…
 
– Nemmen’uno.
 
– E non c’è mai l’obbligo di studiare?
 
– Mai, mai, mai!
 
– Che bel paese! – disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. – Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!…
 
– Perché non vieni anche tu?
 
– E inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.
 
– Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!… E anche quelle liceali, se le incontri per la strada.
 
– Addio, Lucignolo: fai buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici.
 
Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò:
 
– Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei giovedì e di una domenica?
 
– Sicurissimo.
 
– Ma lo sai di certo che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre?
 
– Di certissimo!
 
– Che bel paese! – ripetè Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione.
 
Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e furia:
 
– Dunque, addio davvero: e buon viaggio.
 
– Addio.
 
– Fra quanto partirete?
 
– Fra due ore!
 
– Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare.
 
– E la Fata?…
 
– Oramai ho fatto tardi!… E tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo, è lo stesso.
 
– Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?
 
– Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà.
 
Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino… e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara!
– Eccolo! – gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.
 
– Chi è? – domandò sottovoce Pinocchio.
 
– E’ il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no?
 
– Ma è proprio vero, – domandò il burattino, – che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare?
 
– Mai, mai, mai!
 
– Che bel paese!… che bel paese!… che bel paese!…
 
Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio, con sua grande maraviglia, sente spuntarsi un bel paio d’orecchie asinine e diventa un ciuchino, con la coda e tutto
 
Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.
 
Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame.
 
Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine. Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutti le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca.
 
E il conduttore del carro?…
 
Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
 
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di Paese dei Balocchi.
 
Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri, come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ~ohi!~, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.
 
Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a Lucignolo e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:
 
– Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese?
 
– Sicuro che ci voglio venire.
 
– Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è più posto. Come vedi, è tutto pieno!…
 
– Pazienza! – replicò Lucignolo, – se non c’è posto dentro, io mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro.
 
E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe.
 
– E tu, amor mio?… – disse l’omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio. – Che intendi fare? Vieni con noi, o rimani?…
 
– Io rimango, – rispose Pinocchio. – Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.
 
– Buon pro ti faccia!
 
– Pinocchio! – disse allora Lucignolo. – Dai retta a me: vieni via con noi e staremo allegri.
 
– No, no, no!
 
– Vieni via con noi e staremo allegri, – gridarono altre quattro voci di dentro al carro.
 
– Vieni via con noi e staremo allegri, – urlarono tutte insieme un centinaio di voci di dentro al carro.
 
– E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? – disse il burattino che cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel manico.
 
– Non ti fasciare il capo con tante melanconie. Pensa che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera!
 
Pinocchio non rispose: ma fece un sospiro: poi fece un altro sospiro: poi un terzo sospiro; finalmente disse:
 
– Fatemi un po’ di posto: voglio venire anch’io !…
 
– I posti son tutti pieni, – replicò l’omino, – ma per mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta…
 
– E voi?…
 
– E io farò la strada a piedi.
 
– No, davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! – gridò Pinocchio.
 
Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiola, voltandosi a secco, gli dette una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria.
 
Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla scena.
 
Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.
 
Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto fu così bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: «Viva Pinocchio!» e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano più.
 
Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutt’e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada sopra un monte di ghiaia.
 
Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello, che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:
 
– Rimonta pure a cavallo e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi e spero di averlo reso mansueto e ragionevole.
 
Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciotoli della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse:
 
– Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai!
 
Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta, canterellava fra i denti:
 
Tutti la notte dormono
 
E io non dormo mai…
 
Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la solita vocina fioca che gli disse:
 
– Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata!… Io lo so per prova!… E te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io… ma allora sarà tardi !…
 
A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato più che mai, saltò giù dalla groppa della cavalcatura e andò a prendere il suo ciuchino per il muso.
 
E immaginatevi come restò, quando s’accorse che il suo ciuchino piangeva… e piangeva proprio come un ragazzo!
 
– Ehi, signor omino, – gridò allora Pinocchio al padrone del carro, – sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino piange.
 
– Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo
 
– Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare ?
 
– No: ha imparato da sé a borbottare qualche parola, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.
 
– Povera bestia!…
 
– Via, via, – disse l’omino, – non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la notte è fresca e la strada è lunga.
 
Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente nel Paese dei Balocchi.
 
Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici anni: i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli dappertutto. Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno; questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano; altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria; chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo; insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: ~Viva i balocci~ (invece di
 
~balocchi~): ~non voglamo più schole~ (invece di
 
~non vogliamo più scuole~): ~abbasso Larin Metica~
 
(invece di ~l’aritmetica~) e altri fiori consimili.
 
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, come è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro?
 
In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni.
 
– Oh! che bella vita! – diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.
 
– Vedi, dunque, se avevo ragione?… – ripigliava quest’ultimo. – E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare!…. Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori.
 
– E’ vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: «Non praticare quella birba di Lucignolo perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!…».
 
– Povero maestro! – replicò l’altro tentennando il capo. – Lo so purtroppo che mi aveva a noia e che si divertiva sempre a calunniarmi, ma io sono generoso e gli perdono!
 
– Anima grande! – disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.
 
Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di malumore.
 
A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare
 
E questa sorpresa quale fu?
 
Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse…
 
Indovinate un po’ di che cosa si accorse?
 
Si accorse con sua grandissima maraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.
 
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando si poté scorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule.
 
Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
 
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio!
 
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima. Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:
 
– Che cos’hai, mio caro casigliano?
 
– Sono malato, Marmottina mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
 
– Un pochino.
 
– Senti dunque se per caso avessi la febbre.
 
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando:
 
– Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!…
 
– Cioè?
 
– Tu hai una gran brutta febbre!…
 
– E che febbre sarebbe?
 
– E’ la febbre del somaro.
 
– Non la capisco questa febbre! – rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.
 
– Allora te la spiegherò io, – soggiunse la Marmottina. – Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più burattino, né un ragazzo…
 
– E che cosa sarò?
 
– Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.
 
– Oh! Povero me! Povero me! – gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
 
– Caro mio, – replicò la Marmottina per consolarlo, – che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
 
– Ma davvero è proprio così? – domandò singhiozzando il burattino.
 
– Purtroppo è cosi! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
 
– Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!…
 
– E chi è questo Lucignolo!…
 
– Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore… ma Lucignolo mi disse: «Perché vuoi annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri».
 
– E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
 
– Perché?… Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio… e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!… E a quest’ora non sarei più un burattino… ma sarei invece un ragazzino a modo, come ce n’è tanti! Oh!… ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!
 
E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli al pubblico, che cosa inventò?… Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.
 
Poi uscì: e si dette a cercar Lucignolo dappertutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.
 
Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta bussò.
 
– Chi è? – domandò Lucignolo di dentro.
 
– Sono io! – rispose il burattino.
 
– Aspetta un poco, e ti aprirò.
 
Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
 
Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:
 
«Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?…»
 
E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
 
– Come stai, mio caro Lucignolo?
 
– Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.
 
– Lo dici proprio sul serio?
 
– E perché dovrei dirti una bugia?
 
– Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti cuopre tutti gli orecchi?
 
– Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono fatto male a questo ginocchio. E tu, caro burattino, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?
 
– Me l’ha ordinato il medico, perche mi sono sbucciato un piede.
 
– Oh! povero Pinocchio!…
 
– Oh! povero Lucignolo!…
 
A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.
 
Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:
 
– Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
 
– Mai!… E tu?
 
– Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio, che mi fa spasimare.
 
– Ho lo stesso male anch’io.
 
– Anche tu?… E qual è l’orecchio che ti duole?
 
– Tutt’e due. E tu?
 
– Tutt’e due. Che sia la medesima malattia?
 
– Ho paura di sì?
 
– Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
 
– Volentieri! Con tutto il cuore.
 
– Mi fai vedere i tuoi orecchi?
 
– Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
 
– No: il primo devi essere tu.
 
– No, carino! Prima tu, e dopo io!
 
– Ebbene, – disse allora il burattino, – facciamo un patto da buoni amici.
 
– Sentiamo il patto.
 
– Leviamoci tutt’e due il berretto nello stesso tempo: accetti?
 
– Accetto.
 
– Dunque attenti!
 
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
 
– Uno! Due! Tre!
 
Alla parola ~tre!~ i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.
 
E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutt’e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
 
E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando colore, disse all’amico:
 
– Aiuto, aiuto, Pinocchio!
 
– Che cos’hai?
 
– Ohimè. Non mi riesce più di star ritto sulle gambe.
 
– Non mi riesce più neanche a me, – gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
 
E mentre dicevano così, si piegarono tutt’e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero.
 
Ma il momento più brutto per què due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.
 
Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutt’e due coro: ~j-a, j-a, j-a~.
 
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
 
– Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!
 
Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere, e lo compra il direttore di una compagnia di pagliacci per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi; ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua pelle un tamburo
 
Vedendo che la porta non si apriva, l’Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato che fu nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:
 
– Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui.
 
A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.
 
Da principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli perbene.
 
E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.
E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
 
Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia.
 
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel Paese dei Balocchi, perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario.
 
Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.
 
Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.
 
Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.
 
– Ah! non ti piace neppure il fieno? – gridò il padrone imbizzito. – Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a levarteli!…
 
E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.
 
Pinocchio dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando, disse:
 
– ~J-a, j-a~, la paglia non la posso digerire!…
 
– Allora mangia il fieno! – replicò il padrone che intendeva benissimo il dialetto asinino.
 
– ~J-a, j-a~, il fieno mi fa dolere il corpo!…
 
– Pretenderesti, dunque, che un somaro, par tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? – soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più e affibbiandogli una seconda frustata.
 
A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito e non disse altro.
 
Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano molte ore che non aveva mangiato cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava una bocca che pareva un forno.
 
Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.
 
– Questo fieno non è cattivo, – poi disse dentro di sé, – ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!… A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame!… Pazienza!
 
La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno; ma non lo trovò perché l’aveva mangiato tutto nella notte.
 
Allora prese una boccata di paglia tritata: ma in quel mentre che la masticava si dovè accorgere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai maccheroni alla napoletana.
 
– Pazienza! – ripetè, continuando a masticare. – Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!… pazienza!
 
– Pazienza un corno! – urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. – Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo, e là ti insegnerà a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballaré il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro.
 
Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dovè imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo.
 
Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone poté annunziare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati alle cantonate delle strade, dicevano cosi:
 
Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato.
 
Non si trovava più né un posto distinto, né un palco, nemmeno a pagarlo a peso d’oro.
 
Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio.
 
Finita la prima parte dello spettacolo, il direttore della compagnia, vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò all’affollatissimo pubblico, e, fatto un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente spropositato discorso:
 
«Rispettabile pubblico, cavalieri e dame! L’umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonché il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di Sua Maestà l’Imperatore di tutte le Corti principali d’Europa.
 
«E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!»
 
Questo discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi: ma gli applausi raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi; la criniera divisa in tanti riccioli legati con fiocchettini d’argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto amaranto e celeste. Era, insomma, un ciuchino da innamorare!
 
Il direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole:
 
«Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogne delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi dà suoi occhi, conciossiaché essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto più volte ricorrere all’affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l’animo. Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola cartagine ossea che la stessa Facoltà Medicea di Parigi riconobbe essere quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per questo io lo volli ammaestrare nel ballo nonché nei relativi salti dei cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo, e poi giudicatelo! Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io v’inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore undici antimeridiane del pomeriggio».
 
E qui il direttore fece un’altra profondissima riverenza: quindi rivolgendosi a Pinocchio, gli disse:
 
– Animo, Pinocchio!… Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi!
 
Pinocchio, ubbidiente, piegò subito i due ginocchi davanti, fino a terra, e rimase inginocchiato fino a tanto che il direttore, schioccando la frusta, non gli gridò:
 
– Al passo!
 
Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di passo.
 
Dopo un poco il direttore grido:
 
– Al trotto! – e Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in trotto.
 
– Al galoppo!… – e Pinocchio staccò il galoppo.
 
– Alla carriera! – e Pinocchio si dette a correre di gran carriera.
 
Ma in quella che correva come un barbero, il direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola.
 
A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero.
 
Rizzatosi da terra, in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli e di battimani, che andavano alle stelle, gli venne naturalmente di alzare la testa e di guardare in su… e guardando, vide in un palco una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro, dalla quale pendeva un medaglione.
 
Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino.
 
– Quel ritratto è il mio!… quella signora è la Fata! – disse dentro di sé Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare:
 
– Oh Fatina mia! oh Fatina mia!
 
Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio cosi sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti i ragazzi che erano in teatro.
 
Allora il direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè col manico della frusta una bacchettata sul naso.
 
Il povero ciuchino, tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse così di rasciugarsi il dolore che aveva sentito.
 
Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!…
 
Si sentì come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accorse e, meno degli altri, il direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:
 
– Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi.
 
Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava più comodamente di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte tutto in un fascio.
 
Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté ritornare alla scuderia.
 
– Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! – gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.
 
Ma il ciuchino per quella sera non si fece rivedere.
 
La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.
 
Allora il direttore disse al suo garzone di stalla:
 
– Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo.
 
Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:
 
– Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo?
 
– Venti lire.
 
– Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese.
 
Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando sentì che era destinato a diventare un tamburo!
 
Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sopra uno scoglio ch’era sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua.
 
Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito a fondo; e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sullo scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi levargli la pelle.
 
Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna ad essere un burattino come prima; ma mentre nuota per salvarsi, è ingoiato dal terribile Pesce-cane
 
Dopo cinquanta minuti che il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo:
 
– A quest’ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere bell’affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo.
 
E cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira, tira, tira, alla fine vide apparire a fior d’acqua… indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo che scodinzolava come un’anguilla.
 
Vedendo quel burattino di legno, il pover’uomo credé di sognare e rimase lì intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa.
 
Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse piangendo e balbettando:
 
– E il ciuchino che ho gettato in mare dov’è?
 
– Quel ciuchino son io! – rispose il burattino, ridendo.
 
– Tu?
 
– Io.
 
– Ah! mariuolo! Pretenderesti forse burlarti di me?
 
– Burlarmi di voi? Tutt’altro, caro padrone: io vi parlo sul serio.
 
– Ma come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora, stando nell’acqua sei diventato un burattino di legno?…
 
– Sarà effetto dell’acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.
 
– Bada, burattino, bada!… Non credere di divertirti alle mie spalle. Guai a te, se mi scappa la pazienza.
 
– Ebbene, padrone: volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò.
 
Quel buon pasticcione del compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell’aria prese a dirgli così:
 
– Sappiate dunque che io ero un burattino di legno come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa… e un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto di orecchi… e con tanto di coda!… Che vergogna fu quella per me!… Una vergogna, caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e un gran saltatore di cerchi; ma una sera durante lo spettacolo, feci in teatro una brutta cascata, e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il direttore non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi avete comprato!
 
– Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri venti soldi?
 
– E perché mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un tamburo!… un tamburo!…
 
– Pur troppo!… E ora dove troverò un’altra pelle?
 
– Non vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti, in questo mondo!
 
– Dimmi, monello impertinente: e la tua storia finisce qui?
 
– No, – rispose il burattino, – ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi; ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora moltissimo, e io ve ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza la Fata…
 
– E chi è questa Fata?
 
– E la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balia a se stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito intorno a me un branco infinito di pesci, i quali credendomi davvero un ciuchino bell’e morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero più ghiotti anche dei ragazzi! Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena… e fra gli altri, vi fu un pesciolino cosi garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda.
 
– Da oggi in poi, – disse il compratore inorridito, – faccio giuro di non assaggiar più carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una coda di ciuco!
 
– Io la penso come voi, – replicò il burattino, ridendo. – Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono,- com’è naturale, all’osso… o per dir meglio, arrivarono al legno, perché, come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma dopo dati i primi morsi, quei pesci ghiottoni si accorsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono chi in qua chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie… Ed eccovi raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo, invece d’un ciuchino morto.
 
– Io mi rido della tua storia, – gridò il compratore imbestialito. – Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto.
 
– Rivendetemi pure: io sono contento, – disse Pinocchio.
 
Ma nel dir cosi, fece un bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore:
 
– Addio, padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me.
 
E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava più forte:
 
– Addio, padrone: se avete bisogno di un po’ di legno stagionato, per accendere il caminetto, ricordatevi di me.
 
Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di buonumore.
 
Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco: e su in cima allo scoglio, una bella Caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi.
 
La cosa più singolare era questa: che la lana della Caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di due colori, come quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.
 
Lascio pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere più forte! Raddoppiando di forza e di energia si diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quando ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata, come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.
 
E sapete chi era quel mostro marino?
 
Quel mostro marino era né più né meno quel gigantesco Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato «l’Attila dei pesci e dei pescatori».
 
Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cerco di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.
 
– Affrettati, Pinocchio, per carità! – gridava belando la bella Caprettina.
 
E Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi.
 
– Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina!
 
E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa.
 
– Bada, Pinocchio!… il mostro ti raggiunge!… Eccolo!… Eccolo!… Affrettati per carità, o sei perduto!…
 
E Pinocchio a nuotar più lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall’acqua!
 
Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, battè un colpo cosi screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.
 
Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e non senti nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana.
 
Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un poco di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino allora cominciò a piangere e a strillare: e piangendo diceva:
 
– Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?
 
– Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?… – disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata.
 
– Chi è che parla cosi? – domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo spavento.
 
– Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme con te. E tu che pesce sei?
 
– Io non ho che vedere nulla coi pesci. Io sono un burattino.
 
– E allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal mostro?
 
– Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?…
 
– Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!…
 
– Ma io non voglio esser digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
 
– Neppure io vorrei esser digerito, – soggiunse il Tonno, – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
 
– Scioccherie! – gridò Pinocchio.
 
– La mia è un’opinione, – replicò il Tonno, – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!
 
– Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…
 
– Fuggi, se ti riesce!…
 
– è molto grosso questo Pesce-cane che ci ha inghiottiti? – domandò il burattino.
 
– Figurati che il suo corpo è più lungo di un chilometro, senza contare la coda.
 
Nel tempo che facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano una specie di chiarore.
 
– Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? – disse Pinocchio.
 
– Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento di esser digerito!….
 
– Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?
 
– Io te l’auguro di cuore, caro burattino.
 
– Addio, Tonno.
 
– Addio, burattino; e buona fortuna.
 
– Dove ci rivedremo?…
 
– Chi lo sa?… è meglio non pensarci neppure!
 
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane… Chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete
 
Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
 
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza quaresima.
 
E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
 
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
 
– Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!
 
– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi, – Dunque tu sé proprio il mì caro Pinocchio?
 
– Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!… e pensare che io, invece… Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate per traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’osteria del Gambero Rosso dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: «Se non è morto, è segno che è sempre vivo», e allora mi scappò detto una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto e cosi ritornai alla Casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: «Ho visto il tù babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare», e io gli dissi: «Oh! se avessi l’ali anch’io», e lui mi disse: «Vuoi venire dal tuo babbo?», e io gli dissi: «Magari! ma chi mi ci porta», e lui mi disse: «Ti ci porto io», e io gli dissi: «Come?», e lui mi disse: «Montami sulla groppa», e così abbiamo volato tutta la notte, e poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: «C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare», e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci cenno di tornare alla spiaggia…
– Ti riconobbi anch’io, – disse Geppetto, – e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna.
 
– E quant’è che siete chiuso qui dentro? – domandò Pinocchio.
 
– Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!
 
– E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?
 
– Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane, che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento…
 
– Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?… – domandò Pinocchio maravigliato.
 
– Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta…
 
– E dopo?…
 
– E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.
 
– Allora, babbino mio, – disse Pinocchio, – non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire…
 
– A fuggire?… e come?
 
– Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.
 
– Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.
 
– E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.
 
– Illusioni, ragazzo mio! – replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente. – Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?
 
– Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.
 
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo:
 
– Venite dietro a me, e non abbiate paura. E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la gran gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.
 
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
 
– Questo è il vero momento di scappare, – bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. – Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi.
 
Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro.
 
Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio.
 
– E ora?… – domandò Pinocchio facendosi serio.
 
– Ora ragazzo mio, siamo bell’e perduti.
 
– Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!…
 
– Dove mi conduci?
 
– Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura.
 
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:
 
– Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io.
 
Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.
 
Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo
 
Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accorse che il suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana.
 
Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa? Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di paura, gli disse per confortarlo:
 
– Coraggio babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi.
 
– Ma dov’è questa spiaggia benedetta? – domandò il vecchietto diventando sempre più inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago. – Eccomi qui, che guardo da tutte le parti, e non vedo altro che cielo e mare.
 
– Ma io vedo anche la spiaggia, – disse il burattino. – Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno.
 
Il povero Pinocchio faceva finta di essere di buonumore: ma invece… Invece cominciava a scoraggiarsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava grosso e affannoso… insomma non ne poteva più, la spiaggia era sempre lontana.
 
Nuotò finché ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole interrotte:
 
– Babbo mio, aiutatemi… perché io muoio! E il padre e il figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse:
 
– Chi è che muore?
 
– Sono io e il mio povero babbo!…
 
– Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!…
 
– Preciso: e tu?
 
– Io sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane.
 
– E come hai fatto a scappare?
 
– Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io.
 
– Tonno mio, tu capiti proprio a tempo! Ti prego per l’amor che porti ai Tonnini tuoi figliuoli: aiutaci, o siamo perduti.
 
– Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutt’e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva.
 
Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono più comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno.
 
– Siamo troppo pesi?… – gli domandò Pinocchio.
 
– Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchiglia, – rispose il Tonno, il quale era di una corporatura così grossa e robusta, da parere un vitello di due anni.
 
Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per aiutare il suo babbo a fare altrettanto; poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse:
 
– Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di riconoscenza eterna!…
 
Il Tonno cacciò il muso fuori dall’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si sentì talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott’acqua e sparì.
 
Intanto s’era fatto giorno.
 
Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse:
 
– Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le formicole, e quando saremo stanchi ci riposeremo lungo la via.
 
– E dove dobbiamo andare? – domandò Geppetto.
 
– In cerca di una casa o d’una capanna, dove ci diano per carità un boccon di pane e un po’ di paglia che ci serva da letto.
 
Non avevano ancora fatti cento passi, che videro seduti sul ciglione della strada due brutti ceffi, i quali stavano lì in atto di chiedere l’elemosina.
 
Erano il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano più da quelli d’una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è. Quella trista ladracchiola, caduta nella più squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciaio ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche.
 
– O Pinocchio, – gridò la Volpe con voce di piagnisteo, – fai un po’ di carità a questi due poveri infermi.
 
– Infermi! – ripetè il Gatto.
 
– Addio, mascherine! – rispose il burattino. – Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più.
 
– Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!
 
– Davvero! – ripetè il Gatto.
 
– Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini rubati non fanno mai frutto». Addio, mascherine!
 
– Abbi compassione di noi!…
 
– Di noi!…
 
– Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca».
 
– Non ci abbandonare!…
 
– …are! – ripetè il Gatto.
 
– Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia».
 
E così dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada: finché, fatti altri cento passi, videro in fondo a una viottola in mezzo ai campi una bella capanna tutta di paglia, e col tetto coperto d’embrici e di mattoni.
 
– Quella capanna dev’essere abitata da qualcuno, – disse Pinocchio. – Andiamo là e bussiamo.
 
Difatti andarono, e bussarono alla porta.
 
– Chi è? – disse una vocina di dentro.
 
– Siamo un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto, – rispose il burattino.
 
– Girate la chiave, e la porta si aprirà, – disse la solita vocina.
 
Pinocchio girò la chiave, e la porta si apri. Appena entrati dentro, guardarono di qua, guardarono di là, e non videro nessuno.
 
– O il padrone della capanna dov’è? – disse Pinocchio maravigliato.
 
– Eccomi quassù!
 
Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra un travicello il Grillo-parlante:
 
– Oh! mio caro Grillino, – disse Pinocchio salutandolo garbatamente.
 
– Ora mi chiami il «tuo caro Grillino», non è vero? Ma ti rammenti di quando, per scacciarmi di casa tua, mi tirasti un martello di legno?…
 
– Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me… tira anche a me un martello di legno: ma abbi pietà del mio povero babbo…
 
– Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.
 
– Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa bella capanna?
 
– Questa capanna mi è stata regalata ieri da una graziosa capra, che aveva la lana d’un bellissimo colore turchino.
 
– E la capra dov’è andata? –
 
– Non lo so.
 
– E quando ritornerà?… – domandò Pinocchio, con vivissima curiosità.
 
– Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva che dicesse: «Povero Pinocchio… oramai non lo rivedrò più… il Pesce-cane a quest’ora l’avrà bell’e divorato!…».
 
– Ha detto proprio così?… Dunque era lei!… Era lei!… era la mia cara Fatina!… – cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo dirottamente.
 
Quand’ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi e, preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò al Grillo-parlante:
 
– Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il mio povero babbo?
 
– Tre campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio, che tiene le mucche. Và da lui e troverai il latte, che cerchi.
 
Pinocchio andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio; ma l’ortoiano gli disse:
 
– Quanto ne vuoi del latte?
 
– Ne voglio un bicchiere pieno.
 
– Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo.
 
– Non ho nemmeno un centesimo, – rispose Pinocchio tutto mortificato e dolente.
 
– Male, burattino mio, – replicò l’ortolano. – Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.
 
– Pazienza! – disse Pinocchio e fece l’atto di andarsene.
 
– Aspetta un po’, – disse Giangio. – Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo?
 
– Che cos’è il bindolo?
 
– Gli è quell’ordigno di legno, che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna, per annaffiare gli ortaggi.
 
– Mi proverò…
 
– Dunque, tirami su cento secchie d’acqua e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte.
 
– Sta bene.
 
Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.
 
– Finora questa fatica di girare il bindolo, – disse l’ortolano, – l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.
 
– Mi menate a vederlo? – disse Pinocchio.
 
– Volentieri.
 
Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.
 
Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
 
– Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova!
 
E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:
 
– Chi sei?
 
A questa domanda, il ciuchino apri gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:
 
– Sono Lu…ci…gno…lo.
 
E dopo richiuse gli occhi e spirò.
 
– Oh! povero Lucignolo! – disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso.
 
– Ti commovi tanto per un asino che non ti costa nulla? – disse l’ortolano. – Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?
 
– Vi dirò… era un mio amico!…
 
– Tuo amico?
 
– Un mio compagno di scuola!…
 
– Come?! – urlò Giangio dando in una gran risata. – Come?! avevi dei somari per compagni di scuola!… Figuriamoci i belli studi che devi aver fatto!…
 
Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.
 
E da quel giorno in poi, continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina, prima dell’alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare così quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruì da sé stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo alle belle giornate, e per fargli prendere una boccata d’aria.
 
Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l’indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né calamaio né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege.
 
Fatto sta, che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo.
 
Una mattina disse a suo padre:
 
– Vado qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un paio di scarpe. Quando tornerò a casa, – soggiunse ridendo, – sarò vestito così bene, che mi scambierete per un gran signore.
 
E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto sentì chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella Lumaca che sbucava fuori della siepe.
 
– Non mi riconosci? – disse la Lumaca.
 
– Mi pare e non mi pare…
 
– Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli turchini? Non ti rammenti di quella volta, quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell’uscio di casa?
 
– Mi rammento di tutto, – gridò Pinocchio. – Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? Che fa? Mi ha perdonato? Si ricorda sempre di me? Mi vuol sempre bene? E’ molto lontana da qui? Potrei andare a trovarla?
 
A tutte queste domande fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma:
 
– Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!…
 
– Allo spedale?…
 
– Pur troppo! Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata e non ha più da comprarsi un boccon di pane.
 
– Davvero?… Oh! Che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! Povera Fatina! Povera Fatina!… Se avessi un milione, correrei a portarglielo… Ma io non ho che quaranta soldi… eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e và a portarli subito alla mia buona Fata.
 
– E il tuo vestito nuovo?…
 
– Che m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Và, Lumaca, spicciati: e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto.
 
La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi solleoni d’agosto.
 
Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:
 
– E il vestito nuovo?
 
– Non m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!… Lo comprerò un’altra volta.
 
Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte suonata; e invece di far otto canestre di giunco ne fece sedici.
 
Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così.
 
– Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice.
 
A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati.
 
Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.
 
Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: «La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore». Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
 
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose.
 
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.
 
– E il mio babbo dov’è? – gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore in legno, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali.
 
– Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? – gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.
 
– Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo, – disse Geppetto.
 
– Perché merito mio?…
 
– Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie.
 
– E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
 
– Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
 
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
 
– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!… e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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L’omino anticipato – Carlo Collodi

L’omino anticipato - Carlo Collodi

L’omino anticipato – Carlo Collodi

1. Il signor Gigino.
 
Quando lo conobbi io, aveva appena dieci anni. Di nome si chiamava Gigino.
 
Non era né bello né brutto. Aveva un par d’occhietti cerulei: i capelli biondissimi, d’un biondo chiaro come la stoppa: il naso un po’ ritto e voltato in su e le gambe un tantino magre più del bisogno.
 
Nell’insieme, poteva dirsi un buon figliuolo. A scuola non faceva miracoli, ma il maestro mostravasi contento: in casa poi era il cucco della mamma e l’occhio diritto del babbo. Guai se le sorelle e i fratelli maggiori avessero torto un capello a Gigino! C’era da far nascere una specie di finimondo.
 
 Volete che vi dica il più gran difetto di questo ragazzo? Durerete fatica a crederlo, eppure è così: il suo più gran difetto era quello di vergognarsi a passar per un ragazzo: voleva per forza parere un giovinotto, un uomo fatto!
 
A domandargli quanti anni avesse, per il solito rispondeva:
 
«Il babbo e la mamma dicono che ne ho dieci: ma lo dicono per farmi arrabbiare…»
 
«O dunque quanti anni hai?»
 
«A dir poco poco, ne devo avere dodici per i diciotto: un altr’anno sarò di leva…»
 
«Come fai a saperlo?»
 
«Chi può saperlo meglio di me? Gli anni sono miei, e nessuno me li può levare.»
 
Fatto sta che Gigino, mentre pretendeva di essere un giovinotto e un omino maturato prima del tempo, si dava a conoscere per un ragazzo più ragazzo di molti altri. Era bizzoso, capriccioso, svogliato, ghiotto di zucchero e di pasticcini: un po’ bugiardo: prepotente e permaloso co’ suoi compagni di scuola, e fanatico dei balocchi fino al segno di pigolare tutti i giorni qualche soldo per comprarsi un burattino o un cavallo di terra cotta col fischio nella coda.
 
Voi forse mi domanderete: «In qual modo, dunque, il signor Gigino mostrava questa sua gran passione di farsi credere un giovinotto?»
 
Ve lo dico subito: la sua passione stava tutta nel desiderio di potersi vestire da uomo, come il suo fratello maggiore che aveva oramai vent’anni compiti: vale a dire, invece del solito berrettino, avrebbe preferito un bel cappello a tuba: invece della giacchettina, un soprabito di panno nero, e invece della golettina rovesciata, che lascia libero il collo, un bel golettone ritto e inamidato, come il collare dei preti.
 
2. Il cappello a tuba.
 
Fra tutte queste galanterie, la più agognata per il nostro Gigino era il cappello a tuba.
 
Un giorno, sfogandosi con la Veronica, la cameriera che per il solito lo accompagnava a spasso, arrivò fino a dire: «Credilo, Veronica, per un cappello a tuba darei tutti i miei libri di scuola.»
 
«O perché non se la fa comprare dal babbo?» ripigliò la cameriera, ridendo come una matta.
 
«E perché ridi?» domandò Gigino impermalito.
 
«Rido, perché a vedere un ragazzo, come lei, col cappello a tuba, mi parrebbe di vedere un fungo porcino.»
 
«Povera donna! ti compatisco…»
 
«La mi compatisca quanto la vuole, ma a me i ragazzi vestiti da ominini grandi mi somigliano tante maschere fuori di carnevale…»
 
La mattina dopo (era per l’appunto giovedì, giorno di vacanza per la scuola) il nostro Gigino, frugando nell’armadio di guardaroba, gli venne fatto di trovare un vecchio cappello di felpa, tutto bianco dalla polvere. Era un vecchio cappello del suo babbo.
 
Tutto allegro, come se avesse trovato un tesoro, se lo portò via di sotterfugio; e ritiratosi nella sua camera, si pose a spazzolarlo e a strigliarlo, come se fosse stato un cavallo.
 
Quel povero cappello in alcuni punti era diventato bianchiccio a cagione del pelo andato via: ma Gigino, senza perdersi d’animo, vi rimediò subito, e presa la boccettina dell’inchiostro, restituì alla felpa del cappello il suo bellissimo color morato.
 
Poi se lo pose in testa: ma il cappello era così largo, che gli calava fino al principio del naso.
 
Gigino non se ne dette per inteso: e andandosi a guardare nello specchio, cominciò a dire gongolando dalla gioia:
 
«Ecco qui… non sono più il medesimo: paio proprio un altro… neanche la mamma mi riconoscerebbe!… Bisogna convenire che il cappello a tuba è quello che fa parere uomini… Se gli uomini portassero i berretti, come noi, sarebbero tanti ragazzi… Che cosa pagherei di farmi vedere con questo cappello dai miei compagni di scuola!… Chi lo sa come m’invidierebbero!… E il maestro?… Scommetto che, se andassi a scuola con questo cappello, anche il maestro avrebbe un po’ di soggezione di me… Oh! che bell’idea!…».
 
Detto fatto, Gigino ebbe lì per lì una bellissima idea. Levatosi il cappello, corse da sua madre e le disse: «Ti contenti, mamma, che vada qui dal cartolaro, sulla cantonata, per comprare un quinternino di carta?»
 
«Mi prometti di tornar subito?»
 
«In un lampo.»
 
«E non ti fermare dinanzi alle vetrine delle botteghe.»
 
«Che mi credi un ragazzo?»
 
E senza stare a dir altro, Gigino ritornò in camera; e dopo due minuti era giù in mezzo alla strada, con in testa il suo bellissimo cappello a tuba, ritinto a nuovo.
 
La gente si voltava a guardarlo, e rideva: ma lui si pavoneggiava ed era contento come una pasqua.
 
Per altro le contentezze in questo mondo durano poco: tant’è vero che prima di arrivare alla bottega del cartolaro, il nostro Gigino incontrò due monelli di strada, che incominciarono a girargli d’intorno e a fargli delle grandi riverenze e dei grandi salamelecchi, gridando con quanto fiato avevano in gola:
 
«Sor Dottore, buon giorno a lei!… Ben arrivato sor Dottore!»
 
Altri monelli sopraggiunsero strillando:
 
«Guarda che bel Cappellone!… Sor Cappellone, la si rigiri!… Evviva Cappellone!…».
 
E lì grandi risate, urli, fischi, un baccano indiavolato, da levar di cervello.
 
Il povero Gigino, che avrebbe pagato Dio sa che cosa per aver le ali come un uccello e tornarsene volando a casa dalla sua mamma, si provò più volte a farsi largo e a svignarsela, ma i monelli, riunitisi in cerchio, gli chiudevano ogni via di salvezza.
 
«Mi pare una bella porcheria!» gridò piangendo. «Io vado per i fatti miei, e non do noia a nessuno… e non voglio che nessuno dia noia a me…»
 
«Bravo Cappellone, urlò un ragazzaccio, più sbarazzino degli altri. Bravo Cappellone!… tu ragioni meglio d’un libro stampato… e meriti la mancia.»
 
E nel dir così, gli diè sul cappello un colpo così screanzato, che il cocuzzolo volò via di netto, e il povero Gigino rimase con la sola tesa penzoloni intorno alla testa.
 
Figuratevi lo scoppio delle risate!
 
Appena tornato a casa, il nostro amico si chiuse in camera per bagnarsi con l’acqua fresca un bel graffio sul naso, raccapezzato in mezzo a quel gran parapiglia.
 
3. Il goletto insaldato.
 
Il graffio del naso non era ancora guarito per bene, che già il nostro amico Gigino, per la solita grulleria di vestire da uomo fatto, ne meditava un’altra delle sue.
 
Una mattina, avendo trovata la Veronica in guardaroba, che rassettava della biancheria, le disse con una manierina incantevole:
 
«Dimmi, Veronica, mi faresti un piacere?»
 
«Si figuri!»
 
«Ma prima mi devi promettere…»
 
«Che cosa?»
 
«Di non dir nulla alla mamma.»
 
«Si comincia male» osservò la cameriera, alzando la testa e guardando in viso il ragazzo. «Dev’essere dunque un segreto?»
 
«Un segreto, no… ma ecco, vorrei…»
 
«Animo via: sentiamo di che si tratta.»
 
«Si tratta di un goletto da collo del mio fratello Augusto.»
 
«Come c’entra il suo fratello Augusto?»
 
«Bisogna sapere che Augusto mi ha regalato uno de’ suoi goletti da collo: ma per me è troppo grande… e vorrei che tu mi facessi il piacere di ristringerlo.»
 
«E un ragazzino, come lei, vuol mettersi un golettaccio alto e insaldato a quel modo, che pare un collare? Quei goletti, abbia pazienza, staranno bene agli uomini e ai giovinotti, perché oramai la moda vuole così, e con la moda non ci si ragiona: ma i ragazzetti della sua età fanno miglior figura con la goletta arrovesciata, e che lascia scoperto e libero il collo. La tenga a mente, sor Gigino, che i ragazzi bisogna che vestano da ragazzi: se no, c’è da scambiarli per tanti uomini rimasti nanerucoli e piccini.»
 
«O che sarebbe una vergogna? Io sento che il babbo e la mamma, quando vogliono dire un gran bene di qualche ragazzo, lo sai come dicono? Dicono sempre: quello è un ragazzo che par proprio un omino.»
 
«Verissimo: ma non intendono dire che paia un omino, perché porta i goletti ritti e insaldati, come usano gli uomini: neanche per sogno! Intendono dire che il tale o il tal altro ragazzo pare un omino, perché non è bizzoso, perché non è scapato, perché ha giudizio, perché studia e si fa onore e perché preferisce i libri ai balocchi.»
 
«Basta, basta, Veronica: il resto me lo dirai un’altra volta. Me lo fai dunque questo piacere?»
 
«Eppure scommetto che se il suo babbo fosse tanto buono da comprarle un cappello a tuba, lei non si vergognerebbe a farsi vedere in mezzo alla strada con quella cupola in capo!»
 
Gigino guardò in viso la Veronica, e abbassando la voce domandò:
 
«Hai saputo forse qualche cosa?…».
 
«Di che?»
 
«Del cappello…»
 
«Cioè?»
 
«Dunque non sai nulla?… Meno male… Che cosa, dunque, dicevi?»
 
«Dicevo che lei sarebbe capacissimo di mettersi in testa un cappello a tuba e di andare magari a farsi vedere da tutti!…»
 
«Sicuro che ci anderei.»
 
«Ma non pensa ai fischi e alle risate dei monelli di strada?»
 
«Dimmi, Veronica, che hai saputo per caso qualche cosa?…»
 
«Di che?»
 
«Meno male: non hai saputo nulla!… Dicevi dunque?»
 
«Dicevo che i ragazzacci di strada sono anche impertinenti… e non so se si contenterebbero soltanto di ridere e di fischiare.»
 
«E che vuoi tu che mi facessero di peggio?»
 
«Chi lo sa! Potrebbero alzare le mani e sentirsi il pizzicorino di lasciar cadere sul suo cappello qualche solennissima latta…»
 
«Latta?… E che roba sono le latte?»
 
«Sono quei colpacci a mano aperta affibbiati per celia o per davvero sul cappello degli altri.»
 
«E se qualche ragazzaccio si pigliasse la confidenza di sciuparmi il cappello, tu credi che io non ne avrei il coraggio?…»
 
«Il coraggio di far che cosa?»
 
«Di scappare e di andar subito a raccontarlo alla mamma?… Per tua regola, io non ho paura di nessuno.»
 
«Lo so che lei è dimolto coraggioso: tant’è vero che la sera, quand’è entrato a letto, vuol sempre la candela accesa. Guai a lasciarlo al buio!»
 
«Che cosa c’entra la candela col coraggio? Il coraggio è una cosa, e la candela è un’altra: ne convieni? E poi devi sapere che il mio maestro di ginnastica ha promesso fra sei o sett’anni d’insegnarmi la scherma… e quando saprò la scherma… allora, te lo dico io, non avrò più paura di nessuno. Ma insomma, Veronica, me lo fai questo piacere, sì o no?»
 
Gigino, mi dispiace a doverlo dire, aveva un altro difetto, comunissimo del resto a molti ragazzi, quello, cioè, che quando cominciava a chiedere una cosa, non la finiva più, fino a tanto che non l’aveva ottenuta. E a furia di ripetere e di pigolare la medesima cosa diventava così noioso e così seccatore, da sfondare lo stomaco.
 
Prova ne sia che la Veronica, pur di levarsi di torno quel tormento, prese dispettosamente il goletto, e tagliatone un pezzo e ricucitolo alla meglio con pochi punti, lo ridusse adattato al collo del suo padroncino.
 
Chi più beato, chi più felice di Gigino? Ballando e saltando corse a rinchiudersi nella sua camerina, e lì tanto fece e tanto annaspò, che finalmente poté guardarsi nello specchio col suo nuovo goletto intorno al collo.
 
Ma il nuovo goletto era così alto e così duramente insaldato, che il povero figliuolo sentiva tagliarsi la gola! Non poteva più abbassare la testa: non poteva voltarsi né di qua né di là: pareva proprio un impiccato. Eppure quel giuccherello era contento, tanto contento, che sarebbe difficile figurarselo!
 
La sua prima idea fu quella di chiedere alla mamma il solito permesso per andare dal solito cartolaro a comprare le solite penne: ma poi, tornandogli in mente la gran disgrazia toccata all’infelice cappello a tuba, pensò meglio di scendere giù nel giardino. Se non foss’altro, scansando il pericolo d’incontrare i monelli di strada, si sarebbe levato il gusto di farsi vedere dal giardiniere, dalla moglie del giardiniere e dal loro bambinetto.
 
Appena arrivato sulla porta del giardino, il primo a venirgli incontro fu Melampo, un grosso cane da guardia, che cominciò subito a guardarlo male e a ringhiare, come se avesse voluto mangiarlo.
 
«Che cos’ha Melampo?» gridò Gigino al figliuolo del giardiniere. «Che forse non mi conosce più? Non riconosce il suo padrone?»
 
«Come vuol che faccia a riconoscerlo, con codesto golettone che gli fascia tutta la gola?… Lo creda, sor Gigino, duro fatica a riconoscerlo anch’io… Da ieri a oggi, l’è così imbruttito… con rispetto parlando!»
 
«Imbruttito?… Sarebbe a dire?…»
 
«Lo creda, sor Gigino, la mi pare un galletto, quando gli hanno tirato il collo… Che gli è venuto forse un tumore, Dio ci liberi tutti?»
 
«È meglio che me ne vada, senza risponderti… se no, te ne direi delle belle» masticò Gigino fra i denti: e si avviò verso il pergolato.
 
Ma costretto a camminare a testa alta e non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampò dopo pochi passi in un secchione pieno d’acqua lasciato per dimenticanza nel mezzo, e cadde lungo disteso sulla ghiaia del viale.
 
E la sua caduta fu così divertente, che alcune galline, le quali stavano beccando lì dintorno, invece di fuggire spaventate, cominciarono a sbattere le ali e a fare coccodè coccodè, tale e quale come se ridessero di genio alla vista di quel ragazzo così buffo per il suo golettone insaldato. Basti dire che fra quelle galline, ve ne fu una che, nello sforzo del gran ridere, scodellò senza avvedersene un bellissimo ovo fresco.
 
Gigino, come potete immaginarvelo, tornò a casa tutto mortificato, e c’è da compatirlo! Se col suo goletto avesse messo di buon umore solamente il ragazzo del giardiniere, pazienza! Ma far ridere anche le galline, è troppo! Veramente, è troppo!
 
4. La scherma.
 
E qui bisogna ritornare un passo indietro, come dicono i raccontatori di novelle.
 
Dovete dunque sapere, miei piccoli e carissimi lettori, che il brutto caso di quel povero cappello a tuba, strapazzato, percosso e diviso in due pezzi sulla pubblica via, non rimase un segreto per i compagni di scuola del nostro amico Gigino.
 
Uno scolaro, per combinazione, venne a saperlo: e quando un ragazzo sa qualche cosa, potete aspettarvi che dopo cinque minuti lo sanno anche tutti gli altri ragazzi. Così sapessero tutti l’Aritmetica, la Storia e la Geografia!
 
Fatto sta, che fra i compagni di scuola di Gigino trovavasi un certo Amerigo chiamato di soprannome il Biondo, perché di capelli e di carnagione era biondo come un cannello di brace.
 
Il Biondo non aveva che una sola passione (bruttissima passione): quella di divertirsi e di ridere alle spalle degli altri ragazzi. Inventava per tutti qualche canzonatura o qualche scherzo impertinente. A chi le dava, e a chi le prometteva.
 
Figuratevi la sua contentezza, quando gli raccontarono la storia della famosa latta cascata sul cappello a tuba del povero Gigino!
 
Prese subito di mira l’amico, e non gli dètte più pace; non lo lasciò più ben’avere un minuto solo.
 
Tutte le volte che nell’andare a scuola s’imbatteva in lui, affibbiavagli subito un bello scappellotto sul berretto: e poi, fingendosi dolente e mortificato, diceva con voce di piagnisteo:
 
«Scusa, sai: mi pareva che tu avessi in testa il cappello a tuba!… Non lo farò più!…».
 
Il nostro Gigino, a questi scherzi sguaiati ci soffriva, proprio ci soffriva: e avrebbe dato volentieri una buona lezione al suo accanito persecutore: ma la paura era quella che lo tratteneva: e la paura è stata sempre una gran tara per tutte quelle persone che vorrebbero aver coraggio.
 
Alla fine, non potendone più, fece un animo risoluto, e disse al suo maestro di ginnastica:
 
«Senta, signor maestro, io vorrei che lei m’insegnasse subito la scherma».
 
«Che cosa vuoi far della scherma?»
 
«Voglio battermi…»
 
«Con chi?»
 
«Con nessuno.»
 
«Benissimo: il signor Nessuno è l’unico avversario adattato per te!» urlò il maestro, dando in una gran risata.
 
«Eppure anche il babbo dice sempre che, quando sarò più grande, dovrò imparare la scherma…»
 
«Quando sarai più grande, sì: ma che cosa vuoi far oggi della scherma? oggi che sei un ragazzino alto poco più d’un soldo di cacio? oggi che non hai nemmeno la forza di reggere in mano il fioretto?…»
 
«Scusi: che cosa sarebbe il fioretto?»
 
«Te lo spiegherò un’altra volta.»
 
«Scusi, signor maestro: non potrebbe darmi qualche lezione, tanto per cominciare?…»
 
«Voglio contentarti. Per oggi t’insegnerò il modo di stare in guardia.»
 
«Mi dispiace… ma in guardia oggi non ci posso stare, perché dopo la scuola, mi aspettano a casa».
 
Il maestro fece di tutto per non dare in uno scoppio di risa: quindi riprese:
 
«Animo! Mettiti là, ritto, impettito della persona. Benissimo! Ora porta la mano sinistra dietro la schiena… Nossignore! codesta non è la mano sinistra: codesta è la destra… Va bene così: ora con la destra impugna questo bastoncino, che farà da fioretto».
 
«Scusi, signor Maestro, che cos’è il fioretto?»
 
«Te lo spiegherò un’altra volta. Ora allunga il braccio destro, e facendo un passo in avanti, muoviti verso di me, come se tu volessi colpirmi.»
«E poi?»
 
«E poi la lezione è finita.»
 
«È tutta questa la scherma?»
 
«Per la tua età, ne hai imparata anche troppa e te ne avanza».
 
Dopo quella lezione di scherma, Gigino diventò una specie di gigante Golia. Nessuno gli faceva più paura. Tant’è vero che un giorno, essendosi preso a parole col Biondo, gli disse sul viso:
 
«Sono stufo delle tue sguajataggini: dopo la scuola ci batteremo».
 
Detto fatto, i due avversari si ritrovarono insieme sopra una piazzetta deserta, uno di faccia all’altro.
 
«Attento!» disse Gigino al Biondo. «Allunga il braccio destro, e passa la mano sinistra dietro la schiena.»
 
«Parli con me? Io per tua regola non ho tempo da perdere in tanti complimenti, e mi sbrigo subito.»
 
E senza aggiungere altre parole, caricò sulle spalle dell’avversario un carico di pugni, quanti potrebbe portarne un ciuchino.
 
Il nostro amico tornò a casa tutto indolenzito: e lungo la strada si consolava di tanto in tanto, dicendo fra sé:
 
«È vero che ne ho toccate! Ma quella lì non era scherma, quelli erano pugni».
 
5. La cascata da cavallo.
 
Venuto il tempo delle vacanze, Gigino andò a passare due mesi in campagna insieme con la sua mamma.
 
Il babbo rimase in città, perché essendo il tempo delle elezioni, e volendo riuscire eletto deputato alla Camera, aveva bisogno di girare dalla mattina alla sera come un fattorino della posta.
 
A poca distanza dalla villa del nostro amico c’era una casa colonica abitata dalla famigliola del contadino: vale a dire padre, madre e due ragazzetti.
 
Il maggiore di questi due ragazzi aveva forse la stessa età di Gigino, e si chiamava Cecco, il minore era un bambinetto di quattr’anni appena.
 
«Come si chiama questo bimbo?» domandò Gigino alla mamma.
 
«Il suo nome vero sarebbe Brandimarte: ma noi, qui in famiglia, gli si dice Formicola, perché egli è piccino come un baco da seta.»
 
Gigino, come potete immaginarvelo, passava tutte le sue giornate in casa del contadino, ed era diventato l’amico indivisibile di Cecco.
 
Una volta, fra le altre, gli domandò:
 
«Che cosa si potrebbe fare per divertirsi un poco?»
 
«Senta, sor Gigino, vuol dar retta a me? Io ci ho un bel carrettino di legno a quattro ruote: lei c’entri dentro, e farà da padrone, e io farò da cavallo e tirerò il carretto.»
 
«Codesti mi paiono balocchi da ragazzi!» disse Gigino, pigliando l’aria d’un uomo serio e sbadigliando senza averne voglia.
 
«O che lei è vecchio?»
 
«Non ti dirò di esser vecchio: ma oramai tutti mi scambiano per un giovinotto.»
 
«Io, per esempio», soggiunse Cecco, «se dovessi scambiarlo con qualcuno, lo scambierei con un ragazzo…»
 
«Un ragazzo io?… Ma non sai che fra dieci anni sarò di leva e mi toccherà a fare il soldato?»
 
«Io non ci ho colpa», rispose Cecco stringendosi nelle spalle.
 
«E fuori del carretto a quattro ruote, non avresti nessun altro passatempo?…»
 
«L’anno passato ce l’avevo…»
 
«Che cosa avevi?»
 
«Un cavallino bianco così addomesticato e alla mano, che veniva dietro come un pulcino, quando gli si butta il panico…»
 
«E ora è morto?»
 
«È lo stesso che sia morto, perché il padrone l’ha venduto.»
 
«E quando lo ricomprate il cavallo?»
 
«Il cavallo ce l’abbiamo, ma sarebbe quasi meglio di non averlo. Di quei cavallacci cattivi!… La si figuri, che a fargli una carezza, abbassa subito gli orecchi e mette fori certi dentoni, che paiono manichi di coltello.»
 
«E corre dimolto?»
 
«Gli è uno scappatore peggio di un berbero. Se l’avessi a montar io!… Neanche se mi ci cucissero sopra con lo spago.»
 
«Non ti vergogni di esser tanto pauroso?»
 
«No».
 
«Hai torto: un ragazzo della tua età dovrebbe avere molto più coraggio…»
 
«Lo so anch’io: ma per aver coraggio, bisognerebbe non aver paura.»
 
«Quando avevo la tua età, non c’era cavallo che mi mettesse in soggezione: anzi quanto più erano scappatori e focosi, e più ci avevo piacere.»
 
«Mi levi una curiosità», rispose Cecco, guardando il padroncino con un’aria un po’ canzonatoria, «che ne ha montati dimolti lei dei cavalli?»
 
«Te lo lascio immaginare!…»
 
«Per esempio… quanti?»
 
«Ci vorrebb’altro a contarli tutti!…»
 
«Dunque lei monterebbe anche il matto?»
 
«Chi è il matto?»
 
«Gli è appunto quel cavallaccio, che abbiamo nella stalla.»
 
«E perché lo chiamate il matto?»
 
«Perché è una bestia, con la quale non si può ragionare.»
 
«Mi conduci a vederlo?»
 
«La si figuri!»
 
I due ragazzi, senza far altre parole, si alzarono dalla panchina dove stavano seduti e si avviarono verso la stalla. Giunti alla porta, Gigino disse a Cecco:
 
«Mena fuori il matto!»
 
Cecco ubbidì.
 
Quando Gigino ebbe visto l’animale, disse scrollando il capo in atto di compassione:
 
«Questo, caro mio, non è un cavallo: questa è una pecora.»
 
«Eppure scommetto che lei…»
 
«Io?… Io per tua regola ho cavalcato certi cavalli, che tu non te li sogni nemmeno.»
 
(Si capisce bene che Gigino, parlando così, diceva un sacco di bugie: ma le diceva per la sua solita smania di farsi credere un giovinotto.)
 
«Vuol provare a montarci sopra, a bisdosso?»
 
«A bisdosso? cioè?»
 
«Vale a dire, senza sella.»
 
«Volentieri. Va’ a prendermi una sedia.»
 
«Che cosa ne vuol fare?»
 
«Ora lo vedrai.»
 
«Ma che un cavallerizzo, come lei, ha bisogno della sedia? Io, quando voglio montare a cavallo, mi attacco ai peli della criniera, spicco un bel salto, e in men che si dice, mi trovo con una gamba di qui e una di là…»
 
«Ognuno ha le sue opinioni: io, senza una sedia, non posso montare a cavallo.»
 
Cecco portò una seggiolaccia tutta sgangherata: Gigino vi si arrampicò, e inforcando il cavallo con la gamba sinistra, invece che con la destra, si trovò col viso e con tutta la persona voltata verso la coda dell’animale.
 
Allora Cecco, sbellicandosi dalle risa, cominciò a gridare:
 
«No, sor Gigino, no, l’ha sbagliato uscio: la si rigiri di lì; perché la testa del cavallo è da quell’altra parte».
 
«Lo so, lo so» rispose Gigino con molta disinvoltura «ma per tua regola quando io monto a cavallo, ho la precauzione di voltarmi prima dalla parte della coda…»
 
«Perché?»
 
«Perché, caro mio, le precauzioni non sono mai troppe.»
 
«Ora ho capito», disse Cecco, che non aveva capito nulla.
 
Intanto, a furia di sforzi inauditi, Gigino si rivoltò con tutta la persona verso la testa del cavallo: e compiuta appena questa difficile manovra, sarebbe sceso volentieri: ma gli mancò il tempo.
 
L’irrequieto animale, senza aspettare l’invito del cavaliere staccò subito un mezzo galoppo. Figuratevi Gigino! lui, che non aveva cavalcato mai altri cavalli, che un bellissimo puledro di legno, compratogli dalla sua mamma per regalo del Capo d’anno! Quanti salti e quanti balzelloni sulla groppa secca del Matto! Il povero figliuolo ora dondolava da una parte, ora dondolava dall’altra… e Cecco! Quella birba di Cecco, a gambe larghe in mezzo alla strada, godendosi la scena del suo padroncino, che da un momento all’altro era lì lì per fare un gran capitombolo, si mandava a male dalle grandi risate.
 
E il momento del capitombolo arrivò pur troppo. Gigino cadde, come un fagotto di cenci, fra la polvere della strada, e il cavallo, senza darsene per inteso, andò a mangiar erba nel campo vicino.
 
«S’è fatto molto male?» gli domandò Cecco, che era corso a gran carriera per aiutarlo.
 
«E perché mi dovrei esser fatto male?»
 
«È stata una brutta cascata!»
 
«Povero grullo! Che credi che sia cascato? Neanche per sogno. Volevo scendere, e nello scendere ho messo un piede in fallo e sono sdrucciolato. È una disgrazia che può accadere a tutti.»
 
«Davvero! L’altro giorno, per esempio, sdrucciolai anch’io…»
 
«Scendendo da cavallo?»
 
«No: mettendo un piede sopra una buccia di fico. E questo corno, che gli è venuto qui sulla fronte?…»
 
Gigino si toccò la fronte con la mano, e sentito che c’era davvero un piccolo gonfio, disse con la solita disinvoltura:
 
«Si vede che, nello scendere, ho battuto un ginocchio. Basta che io batta un ginocchio, perché mi venga subito un corno nella testa. Ho la pelle così delicata!…».
 
6. Il sigaro.
 
Volete saperne un’altra? Pochi giorni dopo, sull’ora del desinare, il nostro amico entrò in casa del contadino e trovò tutta la famigliola a tavola: vale a dire, Tonio, il capoccia, la sua moglie Betta, e i due ragazzi Cecco e Formicola, quest’ultimo chiamato così, perché (come già sapete) era piccolino e minuto quanto un baco da seta.
 
Che cos’era andato a fare il signor Gigino?
 
Oh! non abbiate paura che il suo bravo perché ce l’aveva! Altro se ce l’aveva!
 
Tonio e la Betta, tanto per far vedere il buon cuore, gli domandarono subito se voleva favorire, ossia se voleva prendere un morso di pane e di formaggio fresco.
 
Gigino ringraziò, e atteggiandosi a persona annoiata, s’intrattenne a cinguettare del più e del meno. Appena però si accorse che il desinare stava per finire, tirò fuori di tasca un bel sigaro toscano, e spezzandolo nel mezzo col garbo di un vecchio fumatore, ne offerse la metà al capoccia Tonio.
 
«Mi dispiace», disse il contadino tutto complimentoso, «mi dispiace di non poter fare onore alle sue grazie…»
 
«Perché?»
 
«Perché non fumo, e non ho mai fumato.»
 
«Davvero?»
 
«Il sigaro, con rispetto parlando, m’è parso sempre una gran porcheria. Lo dice anche il nostro medico…»
 
«Bravo furbo! E tu sei tanto bono da dar retta al medico?»
 
«Gli do retta sicuro! Cred’ella che il nostro medico sia uno zuccone? La se lo levi dal capo: è un omo che la sa lunga dimolto e ci vede bene, e quando i suoi malati moiono, gli è proprio segno che non volevano più campare.»
 
«E che cosa dice il vostro medico dei sigari?»
 
«Dice che i sigari sono la peste del genere umano e la sorgente di tutti i malanni che vengono sulla lingua, in gola e in fondo allo stomaco.»
 
«Grullerie! Ti pare che se i sigari facessero male davvero, il governo li lascerebbe vendere in tutte le botteghe?»
 
«Scusi: e lei che fuma?»
 
«Altro se fumo!»
 
Gigino, dicendo così, diceva al solito una grossa bugia, perché fino a quel giorno non aveva fumato mai.
 
«E il sigaro non gli guasta l’appetito?»
 
«Guastarmi l’appetito? a me? Per tua regola ho una salute di bronzo, e quando ho fumato un mazzo di sigari, sto meglio di prima. E tu, Cecco, sei fumatore?»
 
«Vorrei vedere anche questa!», gridò la Betta inviperita, alzandosi in piedi e puntando le mani sulla tavola.
 
«Io», rispose il ragazzo ridendo, «fumo qualche volta: ma fumo i sigari di cioccolata…»
 
«Ti compatisco!», disse Gigino. «Sei ancora troppo ragazzo per i nostri sigari… Mi vuoi dare un fiammifero acceso?»
 
«Volentieri.»
 
Cecco accese un fiammifero di legno e lo presentò al padroncino; il quale, trovandosi oramai all’impegno, si armò di un coraggio da leoni e ficcatosi mezzo sigaro fra le labbra, cominciò a fumarlo.
 
Tutti, com’è naturale, lo guardavano con maraviglia, come si guarderebbe una bestia rara: quand’ecco il bambinetto chiamato Formicola, che voltandosi alla mamma, disse con una vocina piagnucolosa:
 
«Mamma, lo fai smettere il sor Gigino?»
 
«Che cosa ti fa il sor Gigino?»
 
«Mi fa le boccacce!»
 
E Formicola aveva ragione: perché il nostro amico, fra una fumata e l’altra, faceva con la bocca certi versacci sguaiati, da metter quasi paura.
 
Poi tutt’a un tratto diventò bianco come un panno lavato. Avrebbe voluto rizzarsi in piedi, ma le gambe gli si ripiegavano.
 
«Si sente male?» gli domandò premurosamente la Betta.
 
Gigino si provò a rispondere qualche cosa: ma non ebbe fiato. Invece sbadigliò, e dopo uno sbadiglio lungo lungo, sputò tre o quattro volte e fece con la bocca un certo garbo… mi sono spiegato?
 
Allora Tonio corse subito a prendere una catinella… Fosse almeno arrivato a tempo!
 
Povero Gigino! Dopo un’ora di trambusto di stomaco, che somigliava alla morte, se ne tornò alla villa mezzo intontito: e salendo le scale, diceva fra sé e sé: «Quanto avrei fatto meglio a fumare un sigaro di cioccolata!…»
 
7. La giubba a coda di rondine.
 
Finita la villeggiatura, il bravo Gigino dové presentarsi agli esami per essere ammesso alla terza ginnasiale.
 
A sentir lui, era sicurissimo di uscir vittorioso: ma invece, come suol dirsi, rimase schiacciato.
 
Credete forse che se ne accorasse?
 
Nemmeno per sogno. Anzi, quando il babbo e la mamma lo rimproverarono per aver fatto una meschina figura e per aver perduto inutilmente un anno di scuola, volete sapere come rispose?
 
«Che cosa fa un anno di più o un anno di meno? Sono forse un vecchio? Ho appena nove anni, e non mi manca il tempo per ricattarmi.»
 
Sissignori! Quel monello, quando era spinto dalla vanità di vestirsi da giovinotto, si cresceva gli anni a manciate: quando poi voleva scusarsi della poca voglia di studiare, allora, a lasciarlo discorrere, ridiventava un bambino di nove o dieci anni appena.
 
Per altro, trovandosi qualche volta solo, andava rimuginando col pensiero la storia burrascosa del famoso cappello a tuba, la risata delle galline per il suo golettone inamidato, gli scapaccioni avuti dal Biondo, sebbene il Biondo non sapesse la scherma, la cascata da cavallo con l’accompagnamento d’un bel corno in mezzo alla testa, e le fumate di quel sigaro traditore, che lo aveva costretto a fare i gattini… modo pulito per non dire che lo aveva costretto a rimetter fuori alla luce del sole tutta la colazione divorata con tanto gusto poche ore prima.
 
E ripensando a tutte queste cose, e facendo nella sua testina un piccolo calcolo a mezz’aria, venne finalmente a capacitarsi che questa vanità di atteggiarsi a giovinotto prima del tempo, gli aveva fruttato più dispiaceri, che vere consolazioni di amor proprio soddisfatto.
 
E giurò sul serio di voler mutar vita e di rassegnarsi oramai a rimaner ragazzo fino a tanto che il calendario non gli avesse regalato qualche anno di più.
 
E mantenne il giuramento per parecchi mesi.
 
Ebbe in questo periodo di prova molte tentazioni: ma riuscì a spuntarle, e rimase sempre padrone del campo.
 
Ma purtroppo una sera…
 
Vi racconterò quest’ultima disgrazia di Gigino, ma ve la racconterò con parole quasi allegre per non farvi piangere.
 
Una sera, in casa sua, c’era festa da ballo.
 
Gigino, non volendo sfigurare di fronte agli altri, andò per tempo a chiudersi in camera: e lì si pettinò, si lisciò, e si agghindò, come un vero figurino di Parigi. Aveva una bella camicia bianca, col goletto rovesciato, e una giacchettina di panno nero, che gli tornava a pennello.
 
Quando sentì che il pianoforte accennava i primi preludi della polca e della marzurka, corse subito… ma prima di entrare in sala, fece capolino alla porta e vide…
 
Vide un brulichio di cravatte bianche e di giubbe a coda di rondine.
 
La giubba a coda di rondine era stata sempre la sua gran passione, il suo sogno dorato.
 
Prova ne sia che una volta, essendo venuto il sarto a riportargli una giacchettina di velluto, gli domandò in tutta segretezza:
 
«Scusi: a questa giacchettina non si potrebbero attaccare di dietro due falde?».
 
«Volendo, si può far tutte: ma le pare che la giubba sia un vestito adattato per i ragazzi della sua età?»
 
«Quanti anni bisogna avere per mettersi la giubba?»
 
«Per lo meno, diciotto o vent’anni.»
 
«Mi pare una bella prepotenza! Dunque, perché siamo ragazzi, dovremo sempre vestire a modo degli altri?…»
 
«Arrivedella sor Gigino.»
 
E il sarto se ne andò scrollando il capo e mordendosi i baffi.
 
La sera della festa da ballo, il nostro amico sentendosi rinfocolare la passione per la giubba, almanaccò col suo cervellino di grillo questo bellissimo ragionamento:
 
«Se mi mettessi la giubba del mio fratello Augusto?… Augusto è a Roma… e fino a lunedì non ritorna. La sua giubba mi torna benissimo… un po’ larga, se vogliamo, un po’ lunga… ma in mezzo a quella folla di ballerini e di ballerine, chi se ne avvede?».
 
E lì, fatto un animo risoluto, entrò nella camera del fratello, prese la giubba e se la infilò.
 
Figuratevi quando fece la sua comparsa in sala! Scoppiò una risata, che non finiva più. Ridevano tutti: anche il pianoforte. Una signorina, fra le altre, rise tanto e poi tanto, che venne presa da un singhiozzo convulso, e fu portata fuori della sala quasi svenuta.
 
Allora nacque un mezzo scompiglio.
 
Il pianoforte smesse di suonare: le coppie che ballavano, si sciolsero: la quadriglia rimase a mezzo, e tutti si affollarono per conoscere la causa di quello svenimento.
 
«Povera giovinetta! Ha riso troppo! e il troppo ridere qualche volta fa male!», dicevano alcuni.
 
«E il motivo di quel riso convulso?» domandavano altri.
 
«La giubba del sor Gigino.»
 
«Vediamola questa famosa giubba.»
 
«Vediamola davvero.»
 
E lì dintorno a Gigino, il quale impermalito di far da zimbello ai curiosi, dètte in uno scoppio di pianto e fuggì dalla sala come un gatto frustato.
 
Da quella sera in poi, Gigino, messo il capo a partito, si liberò dalla ridicola passione di vestirsi a uso giovinotto, prima del tempo.
 
E fece bene: perché i ragazzi, vestiti da ragazzi, figurano molto più di quel marmocchi, che hanno la pretesa di mascherarsi da omini anticipati.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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L’avvocatino difensore – Carlo Collodi

L’avvocatino difensore - Carlo Collodi

L’avvocatino difensore – Carlo Collodi

Il suo nome era Tommaso: ma, in casa e fuori di casa, lo chiamavano Masino.
 
Masino aveva tutti i difetti, che può avere un giovinetto della sua età, fra gli undici e i dodici anni: disubbidiente, goloso, pigro, dormiglione, nemico dell’acqua per lavarsi le mani e il viso, coperto di frittelle e di strappi in tutti i vestiti che portava addosso, spacciatore di bugie all’ingrosso e al minuto, ciarliero, impertinente, rispondiero e avversario implacabile dei libri e della scuola.
 
 La mamma lo sgridava: il babbo lo rimproverava: il maestro lo puniva, i compagni di scuola lo canzonavano della sua buaggine; ma il nostro Masino non se ne faceva né in qua, né in là.
 
«Quando avranno detto ben bene, si cheteranno!» E con queste parole, accompagnate da una spallucciata o da una scrollatina di capo, rimetteva l’animo in pace.
 
Un giorno, per altro, si ficcò in testa di essere perseguitato ingiustamente, e tenne fra sé e sé questo curioso ragionamento:
 
«Tutti mi sgridano… tutti l’hanno con me!… E la ragione? Alla fin de’ conti, io faccio quel che debbono fare tutti i ragazzi. La colpa, dunque, non è mia. La colpa è della mamma, la quale non si cheta mai; la colpa è del babbo, che urla sempre… la colpa è del maestro, che ha bisogno di farmi scomparire tutti i giorni dinanzi a’ miei compagni di scuola.
 
Oh che bella cosa se i babbi e le mamme qualche volta si correggessero della loro smania di brontolare!… Oh! che bella cosa se i maestri si persuadessero che dai ragazzi si può pretendere tutt’al più che vadano a scuola… Ma pretendere che vadano a scuola e che studino, mi pare una bella esigenza! Due cose a un tempo, chi è che possa farle?».
 
Batti oggi e batti domani con questi ragionamenti, Masino ebbe finalmente una bellissima idea, e disse tutto contento:
 
«Se mi facessi il difensore dei ragazzi come me? Se scrivessi un libro per dare una buona lezione ai babbi e alle mamme, e per correggere questi signori maestri, che sono peggio di tutti? Io non ho mai imparato a scrivere, ma ho sempre sentito dire che si scrive come si parla.
 
Io parlo bene, dunque debbo sapere scrivere!… E pensare che il babbo e la mamma si ostinano a mandarmi a scuola! Un momento: e che cosa potrei scrivere? una Commedia col titolo I brontoloni?… Per la commedia, non toccherebbe a me a dirlo, ci ho avuto sempre molta vocazione.
 
Anche la mamma, quando invento qualche bugia, dice sempre che somiglio al Bugiardo di Goldoni. Dunque, se somiglio al Goldoni, vuol dire che le commedie le so fare anch’io. E poi, quando ho fatto la Commedia, chi me la recita? E se per disgrazia me la fischiano? E il caso c’è, perché i babbi e le mamme, con la scusa di condurre noialtri ragazzi al teatro, vanno sempre alla commedia e alla farsa: e loro mi fischierebbero dicerto.
 
O non sarebbe più liscia se scrivessi invece un bel raccontino, da mettersi sui giornali? Così mi salverei dal pericolo dei fischi, e se mi scappasse qualche sproposito, nessuno ci guarderebbe, perché il babbo dice sempre che i giornali sono pieni di spropositi e di notizie false. Sì, sì, voglio provarmi e subito».
 
Detto fatto, il nostro Masino, si chiuse in camera: e presa la penna e un foglio di carta, cominciò il suo racconto con questo titolo:
 
UN RAGAZZINO MODELLO
 
ossia una buona lezione per i genitori
 
e per i maestri di scuola.
 
Poi seguitò così:
 
Masino era il più buon figliolo di questo mondo. Il suo babbo e la sua mamma lo sgridavano sempre, e lui li lasciava sgridare: il suo maestro, per cavarsi il gusto di punirlo, gli levava la colazione, e lui per prudenza faceva colazione prima di andare a scuola.
 
Ma venne finalmente un giorno, in cui i suoi genitori e il suo maestro si accorsero d’avere un gran torto a fargli sempre de’ rimproveri, e allora le cose andarono di bene in meglio.
 
Quando Masino qualche volta si dimenticava di lavarsi le mani e il viso, la sua mamma, invece di sgridarlo, cominciò a dirgli:
 
«Bravo Masino! Vedo che non ti sei lavato né il viso né le mani, e hai fatto bene. Coll’acqua, bambino mio, non bisogna pigliarsi mai confidenza. È così facile beccar delle infreddature e dei mal di petto!… A quanto pare, ti sei alzato ora dal letto, non è vero?»
 
_»Sì, mamma.»
 
«Sai che ore sono? sono le nove: e tu alle otto avresti dovuto andare a scuola…»
 
«Che vuoi? Avevo sonno, e dormivo così bene!…»
 
«Capisco, poverino! Il proverbio dice che chi dorme non piglia pesci, ma tu, carino mio, non devi fare il pescatore: dunque, se ti fa piacere, puoi dormire fino a mezzogiorno. E la lezione l’hai fatta?…»
 
«La volevo fare, ma poi me ne sono scordato…»
 
«Tale e quale come me! Anch’io volevo andare dalla mia sorella, e poi me ne sono scordata. Si vede proprio che sei figliolo della tua mamma. E per colazione che cosa prenderesti?»
 
«Prenderò il solito Caffè e Latte…»
 
«Ma rammentati, carino mio, di metterci dentro dimolto ma dimolto zucchero. Lo zucchero si compra apposta per finirlo subito, se no, va a male.»
 
«E c’inzupperò due fettine di pane.»
 
«No, angiolo mio, ci devi inzuppare due semelli, e bene imburrati, perché il burro fa bene alla gola e aiuta la digestione. E a scuola ci vuoi andare oggi?»
 
«Senti, mamma, non ci anderei…»
 
«È appunto quello che volevo dirti io. Per andare a scuola c’è sempre tempo. Sai piuttosto che cosa farei, se fossi in te? Anderei a giocare a palla fino a mezzogiorno: poi tornerei a casa a fare uno spuntino con una bella fetta di rosbiffe, un piatto di maccheroni con sopra due dita di cacio parmigiano, e una bella torta ripiena di panna montata. E se dopo lo spuntino, vorrai studiare un po’ la lezione…»
 
«Ecco, mamma, se invece di studiar la lezione, andassi a giocare a trottola nei viali delle Cascine?»
 
«Benissimo! Si vede proprio che sei un ragazzino pieno di giudizio. La trottola, alla tua età, è molto più utile della Geografia e della Storia. Che bisogno c’è di studiare la Storia quando tutto il mondo è pieno di storie? Dunque, addio carino: io scappo a fare una visita alla mia sorella, e tu cerca di divertirti più che puoi, e non studiar tanto!… (tornando indietro) Mi raccomando: non studiar tanto! (tornando indietro una seconda volta) Non studiar tanto, perché a studiare c’è sempre tempo!…»
 
Fra babbo e figliolo
 
Masino, pochi giorni dopo, andò in camera a cercare il suo babbo (il quale si era corretto del bruttissimo vizio di brontolare) e gli disse:
 
«Sai, babbo, che cosa mi ha fatto il maestro?».
 
«Che ti ha fatto?»
 
«Con la scusa che ho sbagliato a rispondere nell’Aritmetica, mi ha messo in penitenza…»
 
«Ma queste son cose orribili!… Lo racconterò ai carabinieri!…»
 
«Senti, babbo; io non voglio più andare a scuola.»
 
«Io farei come te. A che serve la scuola? La scuola non è altro che un supplizio inventato apposta per tormentare voialtri poveri ragazzi.»
 
«Capisci? Mettermi in penitenza perché l’Aritmetica non vuole entrarmi nella testa! Sta’ a vedere che un libero cittadino non è padrone di non saper l’abbaco? Perché anch’io sono un libero cittadino, ne convieni, babbo?»
 
«Sicuro che ne convengo.»
 
«Il mio maestro è un buon omo: ma è un omo piccoso. Figurati! pretenderebbe che i suoi scolari dovessero studiare!…»
 
«Pretensioni ridicole! Se viene a dirlo a me, non dubitare che lo servo io.»
 
«Dovresti andare a trovarlo!»
 
«Vi anderò sicuro: e gli dirò che i maestri possono pretendere che i loro scolari sappiano la lezione… ma obbligarli a studiare, no, no, mille volte no.»
 
«La volontà è libera, ne convieni, babbo?»
 
«Sicuro che ne convengo, e quando un ragazzo dice: «Io non voglio studiare» nessuno può costringerlo.»
 
«Figurati! Pretenderebbe che, durante la lezione, i suoi scolari stessero tutti zitti! Com’è possibile di stare zitti quando si sente la voglia di parlare?»
 
«Hai mille ragioni! Che forse la parola venne data all’uomo, perché a scuola stesse zitto? Lascia fare a me: domani vado a trovarlo, e gli dirò il fatto mio.»
 
A scuola
 
E il babbo andò davvero a trovare il maestro, e gli fece una bella lavata di capo, da ricordarsene per un pezzo: tant’è vero che quando Masino tornò a scuola, il maestro gli si fece incontro tutto mortificato, e tenendo il berretto in mano, gli disse:
 
«Scusa, sai, Masino, se l’altro giorno ti messi in penitenza. Fu uno sbaglio, perdonami: tutti si può sbagliare in questo mondo. Che cosa avevi fatto, povero figliuolo, da meritarti quel gastigo? Non avevi imparato la lezione…
 
Ma è forse questa una mancanza? Che forse gli scolari hanno l’obbligo di saper la lezione? Non ci mancherebb’altro! Animo, via, perdonami e non se ne parli più! Fammi intanto vedere i tuoi quinterni! Benissimo!
 
Sono tutti coperti di scarabocchi! Gli scarabocchi sui quinterni provano che lo scolaro è un ragazzino pulito e che studia bene. Ti darò sette meriti per gli scarabocchi. I ragazzi di buona volontà, come te, vanno sempre incoraggiati. Vediamo ora i tuoi libri. Arcibenissimo! Questi libri tutti strappati e sbrindellati, sono una bella prova che sai tenerne di conto.
 
La prima cosa che deve fare uno scolaro perbene e veramente studioso, è quella di sciupare i libri di scuola. Ti darò cinque meriti per i libri sciupati. Se domani poi, venendo a scuola, ne perderai qualcuno per la strada, ti aggiungerò altri cinque meriti, perché la cosa possa servir d’esempio a’ tuoi compagni. E questa macchia, che hai qui sul davanti della camicia, come mai te la sei fatta?».
 
«Me la son fatta stamani, nel leccare lo zucchero in fondo alla chicchera.»
 
«È una macchia che ti torna benissimo a viso. Io ho avuto sempre a noia gli scolari con la camicia pulita. Gli scolari mi piacciono, come te, tutti coperti di macchie e di frittelle. Ti darò sei meriti per quella bella macchia di caffè e latte. Ne meriterebbe di più, ma per oggi tiriamo via. Dimmi, Masino: hai studiato la lezione di Grammatica?»
 
«Sissignore.»
 
«Dimmi, dunque, quante lettere ci vogliono per formare una sillaba?»
 
«Così, all’improvviso, non saprei dirlo…»
 
«Benissimo. Me lo dirai un’altra volta. E l’Abbaco l’hai studiato?»
 
«Sissignore.»
 
«Che cosa rappresenta una crocellina così + posta fra due numeri?»
 
«Ecco… dirò… che rappresenta una croce…»
 
«Oggi non sei in vena a rispondere. Mi risponderai un’altra volta. E la Geografia l’hai imparata?»
 
«Sissignore.»
 
«Sentiamola. In quante parti si divide comunemente l’Italia?»
 
«In quattro parti: Italia di sopra, Italia di sotto, Italia nel mezzo, e Italia…»
 
«Italia come?…»
 
«Italia… da una parte.»
 
«Non è precisamente così, ma mi risponderai meglio un’altra volta. Eccoti intanto dieci meriti per la franchezza, con la quale hai risposto a tutte le mie domande.»
 
Agli esami della fin dell’anno, il bravo Masino si fece moltissimo onore, e il suo babbo e la sua mamma gli regalarono venti pasticcini e un panforte di Siena.
 
La morale della Favola
 
L’autore offrì questo suo Racconto a parecchi giornali, ma nessuno volle accettarlo. I più benigni si contentarono di ridergli in faccia. Allora il nostro amico si consolò dicendo:
 
«Peccato che nessuno abbia voluto pubblicarmi questo Racconto! Che bella lezione sarebbe stata per i genitori brontoloni e per i maestri tiranni!… Ma oramai ci vuol pazienza! e i ragazzi, con la scusa di farli studiare, si troveranno sempre perseguitati!…».
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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Dopo il teatro – Carlo Collodi

Dopo il teatro - Carlo Collodi

Dopo il teatro – Carlo Collodi

Alfredo, Gino e Ida entrano tutti e tre insieme nella stanza preceduti da Bettina, che va a posare il lume sulla tavola.
 
ALFREDO (levandosi il cappello e il paletò): Com’hanno recitato bene! ma proprio bene!…
 
IDA: Quanto ci siamo divertiti, Bettina mia!… Che bella commedia!…
 
GINO: E la farsa dove la lasci? Se tu avessi visto, Bettina, il brillante della farsa! Chi sa quanto tu avresti riso! Figurati! gli è venuto fuori in maniche di camicia, e ha detto che dal freddo tremava tutto come un pezzo di gelatina. Te lo immagini un brillante di gelatina! (Ridendo di genio.)
 
 BETTINA: E la commedia era bella davvero?
IDA: Alfredo, diglielo tu.
 
ALFREDO: La commedia era bellissima: ma io, dico la verità, avrei sentito più volentieri un dramma.
 
IDA: Perché un dramma?
 
ALFREDO: Perché i drammi mi piacciono di più.
 
GINO: Anch’io mi diverto di più ai drammi: almeno si piange. Ma, più di tutto, mi piacciono le tragedie.
 
ALFREDO: Le tragedie? O dove le hai viste tu, le tragedie?
 
IDA: Povero figliolo, se l’è sognate!
 
GINO: Hai sentito, Bettina? E’ voglion dire che le tragedie me le sono sognate!… Non è vero che l’anno passato mi conducevi quasi tutte le sere ai burattini nel Parterre?
 
BETTINA: Verissimo.
 
CINO: Non è vero che una sera i burattini fecero due tragedie di fila?
 
BETTINA: Sarà vero, ma io le tragedie non le conosco: a me mi paiono tutte commedie.
 
ALFREDO: E com’erano intitolate queste due tragedie?
 
GINO: Ora non me ne rammento: gli è passato tanto tempo! Una mi pare che la fosse intitolata, Filippo Vu Re di Spagna.
 
ALFREDO (ridendo): Ma che Filippo Vu? Sarà stato Filippo Quinto.
 
GINO: Sarà stato Filippo Quinto: io però mi ricordo che sul cartellone c’era scritto Filippo, e dopo Filippo c’era un V in stampatello grande come la mia mano.
 
ALFREDO: Sta bene che ci fosse un V: ma quel V in numeri romani vuol dir quinto.
 
GINO: Cosa vuoi tu che io sappia dei numeri romani? Non ci sono mica stato a Roma, io.
 
ALFREDO: E quell’altra tragedia?
 
GINO: Quell’altra l’aveva un certo titolo curioso… te ne ricordi te, Bettina?
 
BETTINA: Che vuol che mi ricordi?
 
GINO: Mi pare che fosse una specie di Spazzolino Tiranno di Padova.
 
ALFREDO: Ma che spazzolino, buacciòlo? Vorrai dire Ezzelino tiranno di Padova.
 
GINO: Insomma, o lui o un altro, io so che a quella tragedia mi sono divertito dimolto. Ti rammenti, Bettina, che piacere quando tutti cominciarono a dare addosso al tiranno? Giusto te, Alfredo, levami una curiosità: mi dici perché tutti i tiranni hanno la barba nera?
 
ALFREDO (con serietà): Già: perché se la tingono apposta per far paura.
 
GINO: Ah!… ora capisco. Del resto io so che se domani avessi cento milioni di patrimonio…
 
IDA: Sentiamo un po’: che cosa vorresti fare?
 
GINO: Prima di tutto vorrei mettere ogni mattina nel Caffè-e-latte più di mezza tazza di zucchero, e poi vorrei andare tutte le sere ai burattini.
 
IDA: Tutte, tutte le sere?
 
GINO: Tutte le sere: anche quando piovesse.
 
IDA: A me poi i burattini mi piacciono, sì, ma fino a un certo segno: io più di tutto mi diverto al teatro, e specialmente a stare in un palco.
 
ALFREDO: si dice i gusti! Io, invece del palco, anderei più volentieri in una poltrona d’orchestra. A stare in un palco ci ho rabbia, e sai perché? perché ci guardano tutti.
 
IDA: Lasciali guardare. Io so che mi diverto moltissimo a vedermi guardare co’ cannocchiali.
 
ALFREDO: Finiscila, giuccherella! Chi vuoi che perda il suo tempo a guardare co’ cannocchiali una moccichina come te?
 
IDA (risentita): Non cominciare, Alfredo! Tu hai sempre il vizio di offendere!…
 
ALFREDO (ridendo): Mi dispiace: ho sbagliato a dir moccichina: volevo dire un bel pezzo di donna come te.
 
IDA (impermalita): C’è poco da canzonare. Ora sono piccola! ma poi crescerò anch’io. Il babbo dice che gli anni passano per tutti. Per noi altri ragazzi, però, questi anni benedetti non passano mai. La mi pare una bella ingiustizia! Oramai gli è un secolo che ho sempre dieci anni!…
 
BETTINA: si consoli: fra pochi mesi ne avrà undici.
 
IDA: Bella consolazione! Prima d’arrivare a quindici anni, figurati se c’è da allungare il collo. Però, se si guarda alla statura, sono grande quasi quanto Alfredo.
 
ALFREDO: Cucù! (In canzonatura.)
 
IDA: Quanto vuoi scommettere che ci corre appena un dito?
 
ALFREDO: Cucù.
 
BETTINA: Vediamo un po’, Idina: la vada a misurarsi con Alfredo.
 
ALFREDO (con serietà): Sai, Bettina, potresti anche dire col signor Alfredo: ti ho già avvertito che questo tono di confidenza non mi piace punto. Capirai che non lo faccio per me: lo faccio per riguardo del mondo.
 
GINO (in caricatura): Oh! l’illustrissimo signore Alfredo ha mille ragioni. Da qui in avanti gli darò del signore anch’io. Anzi, gli voglio dare dell’eccellenza (ridendo).
 
ALFREDO: Bada, Gino! non far tanto lo spiritoso. Ti avverto, per tua regola, che le mani mi cominciano a prudere…
 
GINO (scherzando): Che paura che mi hai fatto!… Ora non parlo più. Scusa, Bettina: ma la cena non è ancora preparata? Io ho un appetito che paion due.
 
BETTINA: La cena è preparata: ma il babbo legge il giornale, e quando avrà finito li farà chiamare.
 
GINO: Vuoi sapere perché il teatro mi piace tanto? perché dopo il teatro, ci tocca la cena.
 
BETTINA: O che forse non cena anche le altre sere?
 
GINO: Sì: ma l’altre sere io e l’Ida ci fanno cenare alle otto, per poi mandarci a letto. Cenare alle otto mi pare una cena da polli.
 
ALFREDO: Che cosa vorresti fare tutta la sera levato? Dopo le ventiquattro ti addormenteresti sul canapè.
 
GINO: Io, anzi, non ho mai sonno.
 
ALFREDO: Bravo! Meno male che ti sei addormentato anche stasera.
 
GINO: Dove?
 
ALFREDO: Nel palco.
 
GINO: Quando?
 
ALFREDO: A metà del second’atto: non è vero, Ida?
 
IDA: M’è parso anche a me.
 
GINO: Nossignori: sbagliano, non dormivo.
 
ALFREDO: O allora che cosa facevi?
 
GINO (un po’ confuso): Pareva che dormissi… ma invece pensavo.
 
ALFREDO (ridendo): O che per pensare c’è forse bisogno di chiudere gli occhi?
 
CINO: Secondo i naturali delle persone. Per esempio, anche il nostro maestro di scuola qualche volta, specialmente nelle ore calde dell’estate, ci dice: «Ragazzi, siate buoni e non fate tanto chiasso, perché ho bisogno di pensare cinque minuti a una cosa»; e quando ha detto così, appoggia la testa alla spalliera della poltrona, chiude gli occhi, apre la bocca e comincia a pensare…
 
ALFREDO: Ossia, comincierà a dormire.
 
GINO: Nossignore, non dorme: tant’è vero che, se urliamo troppo forte, si sveglia subito e ci fa una strapazzata di quelle co’ fiocchi… Ma dunque, si va o non si va a cena? Ho una fame che la vedo.
 
BETTINA: Abbia pazienza altri due minuti.
 
ALFREDO: Intanto che si aspetta, si fa una bella cosa?
 
GINO E IDA (insieme): Sentiamo.
 
ALFREDO: si ripete fra noi tre quella bella scena della commedia, dove il figlio riconosce sua madre?
 
IDA: Ripetiamola davvero.
 
GINO: No, no: io voglio prima ripetere alla Bettina il discorso che ha fatto il brillante, quando è venuto sulla scena in maniche di camicia. Vuoi sentirlo, Bettina? (si leva la giacchettina, la butta sul canapè e rimane in maniche di camicia.)
 
BETTINA: Perché si è levata la giacchettina?
 
GINO: Voglio farti vedere il brillante tale e quale.
 
BETTINA: Io non voglio vedere tanti brillanti. Io voglio che si rimetta subito la giacchettina. Ma non lo sa che a questi freddi potrebbe prendere un’infreddatura come nulla?
 
GINO: Un’infreddatura? non mi parrebbe vero di prenderla. Almeno il babbo mi comprerebbe le pasticche di lichene.
 
IDA: Vergognati, ghiottonaccio!
 
GINO: Mi piacciono tanto le pasticche di lichene!… E, invece, a farlo apposta, non infreddo mai. Si vede proprio che sono nato disgraziato! (Rimettendosi la giacchettina.)
 
ALFREDO: Dunque si fa questa scena, dove il figlio riconosce la madre?
 
GINO: Scusa, Alfredo: spiegami prima una cosa, che non ho potuto capire. Nella commedia di stasera, la madre sa fin dal principio che Carlo è suo figlio, non è vero?
 
ALFREDO: Sicuro che lo sa.
 
GINO: E se lo sa, mi dici perché aspetta a farsi riconoscere da lui, proprio all’ultima scena dell’ultimo atto?
 
ALFREDO: Povero figlio! Bisogna proprio dire che non hai nemmeno l’ombra del genio drammatico! O non capisci che se la madre si facesse riconoscere alla prima, la commedia finirebbe subito, e noi a quest’ora saremmo tutti a letto da un bel pezzo? Invece la madre, aspettando a farsi riconoscere proprio all’ultimo atto, costringe il pubblico a rimanere in teatro fino alle undici sonate: e così la gente, quando torna a casa, è tutta contenta, perché sa di avere spesi giustificati i suoi quattrini per il biglietto d’ingresso: mi sono spiegato?
 
GINO: Ora ho capito tutto. E io m’ero figurato invece che quella mamma di Carlo facesse un po’ di burletta.
 
ALFREDO: Diavol mai! O che si fanno le burlette anche nelle commedie serie?… Non ci mancherebb’altro!
 
IDA: Dunque si recita o non si recita questa scena?
 
ALFREDO: Lasciatemi distribuire le parti a me. Io farò da Carlo, ossia da figlio, e tu, Ida, farai la parte della madre.
 
GINO: E io?
 
ALFREDO: E tu farai da marito, ossia farai la parte di quello che arriva da ultimo e che tira la revolverata.
 
GINO: Fossi matto! Io non le faccio quelle brutte cosacce!
 
ALFREDO: S’intende bene che, invece di tirare colla pistola, tu farai il colpo con la bocca.
 
GINO: Come sarebbe a dire?
 
ALFREDO: Tu farai colla bocca: bum!
 
GINO: E quando lo debbo fare?
 
ALFREDO: Quando sarà il momento.
 
GINO: Ho capito.
 
ALFREDO: Dunque attenti. Io starò da questa parte: tu, Ida, mettiti là, vicina a quella tavola, per poterti appoggiare, quando dovrà venirti lo svenimento.
 
GINO: E io?
 
ALFREDO: E tu nasconditi dietro quella porta: e quando sarà il momento, uscirai fuori tutt’a un tratto e farai: bum!
 
IDA: Se io faccio la parte di madre, tocca a me a incominciare.
 
ALFREDO: Comincia pure: io son pronto.
 
IDA (movendosi e gestendo drammaticamente): «No, Carlo, voi non partirete… Oh! Dio!… se voi poteste… oh! Dio!… vedere i tormenti… e lo strazio… oh! Dio… di quest’anima!… Oh! Dio, pietà… di questa povera infelice…»
 
IL CAMERIERE (affacciandosi sulla porta): Signorini, il babbo li chiama a cena.
 
ALFREDO: Eccoci subito. Su, Ida; riattacca subito la tua parte, ma mettici un po’ più di passione… un po’ più di singhiozzo… molto singhiozzo.
 
IDA (declamando): «Oh! Carlo! Se poteste leggere… Oh Dio… in questo cuore… Oh!… Se poteste contare le lacrime…»
 
GINO (uscendo fuori): Bum!
 
ALFREDO (a Gino): No, no! Troppo presto, ancora no!
 
GINO: Spicciatevi, ragazzi, perché io voglio andare a cena.
 
ALFREDO: Avanti, Ida, avanti!
 
IDA (declamando): «No, Carlo, ve lo ripeto, voi non partirete… voi non potete partire di qui…»
 
ALFREDO (declamando): «Sì, o donna, io partirò… io lascerò
 
questi luoghi fatali… io fuggirò lontano, lontano, lontano…»
 
GINO (uscendo fuori): Bum! bum! bum!
 
ALFREDO: Ancora no, t’ho detto!
 
GINO: Ho fame, la volete capire?
 
ALFREDO: Altri due minuti, e la scena è finita. (declamando) «Sì, il mio destino vuole così… noi non ci rivedremo mai più… mai più!»
 
IDA: «Voi, Carlo, non partirete!»
 
ALFREDO: «Io partirò!»
 
IDA: «No…»
 
ALFREDO: «Sì: chi potrà impedirmelo?»
 
IDA: «Io!»
 
ALFREDO: «Voi?… e chi siete voi?»
 
IDA (con molto singhiozzo): «Sciagurato!… io… so… no… tua…»
 
GINO (uscendo fuori e interrompendo): Sai, Bettina: penserai tu a fare bum; io ho troppa fame e scappo a cena (via di corsa).
 
ALFREDO: Quand’è così, si può calare il sipario e andare a cena anche noi.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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La festa di Natale – Carlo Collodi

La festa di Natale - Carlo Collodi

La festa di Natale

La storia che vi racconto oggi, non è una di quelle novelle, come se ne raccontano tante, ma è una storia vera, vera, vera. Dovete dunque sapere che la Contessa Maria (una brava donna che io ho conosciuta benissimo, come conosco voi) era rimasta vedova con tre figli: due maschi e una bambina.
 
Il maggiore, di nome Luigino, poteva avere fra gli otto e i nove anni: Alberto, il secondo, ne finiva sette, e l’Ada, la minore di tutti, era entrata appena ne’ sei anni, sebbene a occhio ne dimostrasse di più, a causa della sua personcina alta, sottile e veramente aggraziata.
 
 La contessa passava molti mesi all’anno in una sua villa: e non lo faceva già per divertimento, ma per amore de’ suoi figlioletti, che erano gracilissimi e di una salute molto delicata.
 
Finita l’ora della lezione, il più gran divertimento di Luigino era quello di cavalcare un magnifico cavallo sauro; un animale pieno di vita e di sentimento, che sarebbe stato capace di fare cento chilometri in un giorno se non avesse avuto fin dalla nascita un piccolo difetto: il difetto, cioè, di essere un cavallo di legno!
 
Ma Luigino gli voleva lo stesso bene, come se fosse stato un cavallo vero. Basta dire, che non passava sera che non lo strigliasse con una bella spazzola da panni: e dopo averlo strigliato, invece di fieno o di gramigna, gli metteva davanti una manciata di lupini salati. E se per caso il cavallo si ostinava a non voler mangiare, allora Luigino gli diceva accarezzandolo:
 
«Vedo bene che questa sera non hai fame. Pazienza: i lupini li mangerò io. Addio a domani, e dormi bene».
 
E perché il cavallo dormisse davvero, lo metteva a giacere sopra una materassina ripiena d’ovatta: e se la stagione era molto rigida e fredda, non si dimenticava mai di coprirlo con un piccolo pastrano, tutto foderato di lana e fatto cucire apposta dal tappezziere di casa.
 
Alberto, il fratello minore, aveva un’altra passione. La sua passione era tutta per un bellissimo Pulcinella, che, tirando certi fili, moveva con molta sveltezza gli occhi, la bocca, le braccia e le gambe, tale e quale come potrebbe fare un uomo vero: e per essere un uomo vero, non gli mancava che una sola cosa: il parlare.
 
Figuratevi la bizza di Alberto! Quel buon figliuolo non sapeva rendersi una ragione del perché il suo Pulcinella, ubbidientissimo a fare ogni sorta di movimenti, avesse preso la cocciutaggine di non voler discorrere a modo e verso, come discorrono tutte le persone per bene, che hanno la bocca e la lingua.
 
E fra lui e Pulcinella accadevano spesso dei dialoghi e dei battibecchi un tantino risentiti, sul genere di questi:
 
«Buon giorno, Pulcinella», gli diceva Alberto, andando ogni mattina a tirarlo fuori dal piccolo armadio dove stava riposto. «Buon giorno, Pulcinella.»
 
E Pulcinella non rispondeva.
 
«Buon giorno, Pulcinella», ripeteva Alberto.
 
E Pulcinella, zitto! come se non dicessero a lui.
 
«Su, via, finiscila di fare il sordo e rispondi: buon giorno, Pulcinella.»
 
E Pulcinella, duro!
 
«Se non vuoi parlare con me, guardami almeno in viso» diceva Alberto un po’ stizzito.
 
E Pulcinella, ubbidiente, girava subito gli occhi e lo guardava.
 
«Ma perché», gridava Alberto arrabbiandosi sempre di più, «ma perché se ti dico «guardami» allora mi guardi; e se ti dico «buon giorno» non mi rispondi?»
 
E Pulcinella, zitto!
 
«Brutto dispettoso! Alza subito una gamba!»
 
E Pulcinella alzava una gamba.
 
«Dammi la mano!»
 
E Pulcinella gli dava la mano.
 
«Ora fammi una bella carezzina!»
 
E Pulcinella allungava il braccio e prendeva Alberto per la punta del naso.
 
«Ora spalanca tutta la bocca!»
 
E Pulcinella spalancava una bocca, che pareva un forno.
 
«Di già che hai la bocca aperta, profittane almeno per darmi il buon giorno.»
 
Ma il Pulcinella, invece di rispondere, rimaneva lì a bocca aperta, fermo e intontito, come, generalmente parlando, è il vizio di tutti gli omini di legno.
 
Alla fine Alberto, con quel piccolo giudizino, che è proprio di molti ragazzi, cominciò a mettersi nella testa che il suo Pulcinella non volesse parlare né rispondergli, perché era indispettito con lui. Indispettito!… e di che cosa? Forse di vedersi mal vestito, con un cappellaccio in capo di lana bianca, una camicina tutta sbrindellata, e un paio di pantaloncini così corti e striminziti, che gli arrivavano appena a mezza gamba.
 
«Povero Pulcinella!», disse un giorno Alberto, compiangendolo sinceramente, «se tu mi tieni il broncio, non hai davvero tutti i torti. Io ti mando vestito peggio di un accattone… ma lascia fare a me! Fra poco verranno le feste di Natale. Allora potrò rompere il mio salvadanaio… e con quei quattrini, voglio farti una bella giubba, mezza d’oro e mezza d’argento.»
 
Per intendere queste parole di Alberto, occorre avvertire che la Contessa aveva messo l’uso di regalare a’ suoi figli due o tre soldi la settimana, a seconda, s’intende bene, de’ loro buoni portamenti. Questi soldi andavano in tre diversi salvadanai: il salvadanaio di Luigino, quello di Alberto e quello dell’Ada. Otto giorni avanti la pasqua di Natale, i salvadanai si rompevano, e coi danari che vi si trovavano dentro, tanto la bambina, come i due ragazzi erano padronissimi di comprarsi qualche cosa di loro genio.
 
Luigino, com’è naturale, aveva pensato di comprare per il suo cavallo una briglia di pelle lustra con le borchie di ottone, e una bella gualdrappa, da potergliela gettare addosso, quando era sudato.
 
L’Ada, che aveva una bambola più grande di lei, non vedeva l’ora di farle un vestitino di seta, rialzato di dietro, secondo la moda, e un paio di scarpine scollate per andare alle feste da ballo.
 
In quanto al desiderio di Alberto, è facile immaginarselo. Il suo vivissimo desiderio era quello di rivestire il Pulcinella con tanto lusso, da doverlo scambiare per un signore di quelli buoni.
 
Intanto il Natale s’avvicinava, quand’ecco che una mattina, mentre i due fratelli con la loro sorellina, andavano a spasso per i dintorni della villa, si trovarono dinanzi a una casipola tutta rovinata, che pareva piuttosto una capanna da pastori. Seduto sulla porta c’era un povero bambino mezzo nudo, che dal freddo tremava come una foglia.
 
«Zio Bernardo, ho fame», disse il bambino con una voce sottile, sottile, voltandosi appena con la testa verso l’interno della stanza terrena.
 
Nessuno rispose.
 
In quella stanza terrena c’era accovacciato sul pavimento un uomo con una barbaccia rossa, che teneva i gomiti appuntellati sulle ginocchia e la testa fra le mani.
 
«Zio Bernardo, ho fame!…», ripeté dopo pochi minuti il bambino, con un filo di voce che si sentiva appena.
 
«Insomma vuoi finirla?», gridò l’uomo dalla barbaccia rossa. «Lo sai che in casa non c’è un boccone di pane: e se tu hai fame, piglia questo zoccolo e mangialo!»
 
E nel dir così, quell’uomo bestiale si levò di piede uno zoccolo e glielo tirò. Forse non era sua intenzione di fargli del male; ma disgraziatamente lo colpì nel capo.
 
Allora Luigino, Alberto e l’Ada, commossi a quella scena, tirarono fuori alcuni pezzetti di pane trovati per caso nelle loro tasche, e andarono a offrirli a quel disgraziato figliolo.
 
Ma il bambino, prima si toccò con la mano la ferita del capo: poi guardandosi la manina tutta insanguinata, balbettò a mezza voce:
 
«Grazie… ora non ho più fame…».
 
Quando i ragazzi furono tornati alla villa, raccontarono il caso compassionevole alla loro mamma; e di quel caso se ne parlò due o tre giorni di seguito. Poi, come accade di tutte le cose di questo mondo, si finì per dimenticarlo e per non parlarne più.
 
Alberto, per altro, non se l’era dimenticato: e tutte le sere andando a letto, e ripensando a quel povero bambino mezzo nudo e tremante dal freddo, diceva grogiolandosi fra il calduccio delle lenzuola:
 
«Oh come dev’essere cattivo il freddo! Brrr…».
 
E dopo aver detto e ripetuto per due o tre volte «Oh come dev’esser cattivo il freddo!» si addormentava saporitamente e faceva tutto un sonno fino alla mattina.
 
Pochi giorni dopo accadde che Alberto incontrò per le scale di cucina la Rosa: la quale era l’ortolana che veniva a vendere le uova fresche alla villa.
 
«Sor Albertino, buon giorno signoria», disse la Rosa: «quanto tempo è che non è passato dalla casa dell’Orco?»
 
«Chi è l’Orco?»
 
«Noi si chiama con questo soprannome quell’uomo dalla barbaccia rossa, che sta laggiù sulla via maestra.»
 
«O il suo bambino che fa?»
 
«Povera creatura, che vuol che faccia?… È rimasto senza babbo e senza mamma, alle mani di quello zio Bernardo…»
 
«Che dev’essere un uomo cattivo e di cuore duro come la pietra, non è vero?», soggiunse Alberto.
 
«Pur troppo! Meno male che domani parte per l’America… e forse non ritornerà più.»
 
«E il nipotino lo porta con sé?»
 
«Nossignore: quel povero figliuolo l’ho preso con me, e lo terrò come se fosse mio».
 
«Brava Rosa.»
 
«A dir la verità, gli volevo fare un po’ di vestituccio, tanto da coprirlo dal freddo… ma ora sono corta a quattrini. Se Dio mi dà vita, lo rivestirò alla meglio a primavera.»
 
Alberto stette un po’ soprappensiero, poi disse:
 
«Senti, Rosa, domani verso mezzogiorno ritorna qui, alla villa: ho bisogno di vederti.»
 
«Non dubiti.»
 
Il giorno seguente, era il giorno tanto atteso, tanto desiderato, tanto rammentato: il giorno, cioè, in cui celebravasi solennemente la rottura de’ tre salvadanai.
 
Luigino trovò nel suo salvadanaio dieci lire: l’Ada trovò nel suo undici lire, e Alberto vi trovò nove lire e mezzo.
 
«Il tuo salvadanaio», gli disse la mamma, «è stato più povero degli altri due: e sai perché? perché in quest’anno tu hai avuto poca voglia di studiare.»
 
«La voglia di studiare l’ho avuta», replicò Alberto, «ma bastava che mi mettessi a studiare, perché la voglia mi passasse subito.»
 
«Speriamo che quest’altr’anno non ti accada lo stesso» soggiunse la mamma: poi volgendosi a tutti e tre i figli, seguitò a dire: «Da oggi alla pasqua di Natale, come sapete, vi sono otto giorni precisi. In questi otto giorni, secondo i patti stabiliti, ognuno di voi è padronissimo di fare quell’uso che vorrà, dei danari trovati nel proprio salvadanaio. Quello poi, di voialtri, che saprà farne l’uso migliore, avrà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio.»
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Luigino, pensando ai ricchi finimenti e alla bella gualdrappa che aveva ordinato per il suo cavallo.
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé l’Ada, pensando alle belle scarpine da ballo che aveva ordinato al calzolaio per la sua bambola.
 
«Il bacio tocca a me di certo!», disse dentro di sé Alberto, pensando al bel vestito che voleva fare al suo Pulcinella.
 
Ma nel tempo che egli pensava al Pulcinella, sentì la voce della Rosa che, chiamandolo a voce alta dal prato della villa, gridava:
 
«Sor Alberto! sor Alberto!».
 
Alberto scese subito. Che cosa dicesse alla Rosa non lo so: ma so che quella buona donna, nell’andarsene, ripeté più volte:
 
«Sor Albertino, lo creda a me: lei ha fatto proprio una carità fiorita, e Dio manderà del bene anche a lei e a tutta la sua famiglia!».
 
Otto giorni passarono presto: e dopo otto giorni arrivò la festa di Natale o il Ceppo, come lo chiamano i fiorentini.
 
Finita appena la colazione, ecco che la Contessa disse sorridendo ai suoi tre figli:
 
«Oggi è Natale. Vediamo, dunque, come avete speso i quattrini dei vostri salvadanai. Ricordatevi intanto che, quello di voialtri che li avrà spesi meglio, riceverà da me, a titolo di premio, un bellissimo bacio. Su, Luigino! tu sei il maggiore e tocca a te a essere il primo».
 
Luigino uscì dalla sala e ritornò quasi subito, conducendo a mano il suo cavallo di legno, ornato di finimenti così ricchi, e d’una gualdrappa così sfavillante, da fare invidia ai cavalli degli antichi imperatori romani.
 
«Non c’è che dire», osservò la mamma, sempre sorridente «quella gualdrappa e quei finimenti sono bellissimi, ma per me hanno un gran difetto… il difetto, cioè, di essere troppo belli per un povero cavallino di legno. Avanti, Alberto! Ora tocca a te.»
 
«No, no», gridò il ragazzetto, turbandosi leggermente, «prima di me, tocca all’Ada.»
 
E l’Ada, senza farsi pregare, uscì dalla sala, e dopo poco rientrò tenendo a braccetto una bambola alta quanto lei, e vestita elegantemente, secondo l’ultimo figurino.
 
«Guarda, mamma, che belle scarpine da ballo!», disse l’Ada compiacendosi di mettere in mostra la graziosa calzatura della sua bambola.
 
«Quelle scarpine sono un amore!», replicò la mamma. «Peccato però che debbano calzare i piedi d’una bambina fatta di cenci e di stucco, e che non saprà mai ballare!»
 
«E ora, Alberto, vediamo un po’ come tu hai speso le nove lire e mezzo, che hai trovate nel tuo salvadanaio.»
 
«Ecco… io volevo… ossia, avevo pensato di fare… ossia, credevo… ma poi ho creduto meglio… e così oramai l’affare è fatto e non se ne parli più.»
 
«Ma che cosa hai fatto?»
 
«Non ho fatto nulla.»
 
«Sicché avrai sempre in tasca i danari?»
 
«Ce li dovrei avere…»
 
«Li hai forse perduti?»
 
«No.»
 
«E, allora, come li hai tu spesi?»
 
«Non me ne ricordo più.»
 
In questo mentre si sentì bussare leggermente alla porta della sala, e una voce di fuori disse:
 
«È permesso?.»
 
«Avanti.»
 
Apertasi la porta, si presentò sulla soglia, indovinate chi! Si presentò la Rosa ortolana, che teneva per la mano un bimbetto tutto rivestito di panno ordinario, ma nuovo, con un berrettino di panno, nuovo anche quello, e in piedi un paio di stivaletti di pelle bianca da campagnolo.
 
«È tuo, Rosa, codesto bambino?», domandò la Contessa.
 
«Ora è lo stesso che sia mio, perché l’ho preso con me e gli voglio bene, come a un figliolo. Povera creatura! Finora ha patito la fame e il freddo. Ora il freddo non lo patisce più, perché ha trovato un angiolo di benefattore, che lo ha rivestito a sue spese da capo a piedi.»
 
«E chi è quest’angelo di benefattore?», chiese la Contessa.
 
L’ortolana si voltò verso Alberto, e guardandolo in viso e accennandolo alla sua mamma, disse tutta contenta:
 
«Eccolo là.»
 
Albertino diventò rosso come una ciliegia: poi rivolgendosi impermalito alla Rosa, cominciò a gridare:
 
«Chiacchierona! Eppure ti avevo detto di non raccontar nulla a nessuno!…».
 
«La scusi: che c’è forse da vergognarsi per aver fatto una bell’opera di carità come la sua?»
 
«Chiacchierona! chiacchierona! chiacchierona!», ripeté Alberto, arrabbiandosi sempre più; e tutto stizzito fuggì via dalla sala.
 
La sua mamma, che aveva capito ogni cosa, lo chiamò più volte: ma siccome Alberto non rispondeva, allora si alzò dalla poltrona e andò a cercarlo da per tutto. Trovatolo finalmente nascosto in guardaroba, lo abbracciò amorosamente, e invece di dargli a titolo di premio un bacio, gliene dette per lo meno più di cento.
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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