Dopo il teatro – Carlo Collodi
Alfredo, Gino e Ida entrano tutti e tre insieme nella stanza preceduti da Bettina, che va a posare il lume sulla tavola.
ALFREDO (levandosi il cappello e il paletò): Com’hanno recitato bene! ma proprio bene!…
IDA: Quanto ci siamo divertiti, Bettina mia!… Che bella commedia!…
GINO: E la farsa dove la lasci? Se tu avessi visto, Bettina, il brillante della farsa! Chi sa quanto tu avresti riso! Figurati! gli è venuto fuori in maniche di camicia, e ha detto che dal freddo tremava tutto come un pezzo di gelatina. Te lo immagini un brillante di gelatina! (Ridendo di genio.)
BETTINA: E la commedia era bella davvero?
IDA: Alfredo, diglielo tu.
ALFREDO: La commedia era bellissima: ma io, dico la verità, avrei sentito più volentieri un dramma.
IDA: Perché un dramma?
ALFREDO: Perché i drammi mi piacciono di più.
GINO: Anch’io mi diverto di più ai drammi: almeno si piange. Ma, più di tutto, mi piacciono le tragedie.
ALFREDO: Le tragedie? O dove le hai viste tu, le tragedie?
IDA: Povero figliolo, se l’è sognate!
GINO: Hai sentito, Bettina? E’ voglion dire che le tragedie me le sono sognate!… Non è vero che l’anno passato mi conducevi quasi tutte le sere ai burattini nel Parterre?
BETTINA: Verissimo.
CINO: Non è vero che una sera i burattini fecero due tragedie di fila?
BETTINA: Sarà vero, ma io le tragedie non le conosco: a me mi paiono tutte commedie.
ALFREDO: E com’erano intitolate queste due tragedie?
GINO: Ora non me ne rammento: gli è passato tanto tempo! Una mi pare che la fosse intitolata, Filippo Vu Re di Spagna.
ALFREDO (ridendo): Ma che Filippo Vu? Sarà stato Filippo Quinto.
GINO: Sarà stato Filippo Quinto: io però mi ricordo che sul cartellone c’era scritto Filippo, e dopo Filippo c’era un V in stampatello grande come la mia mano.
ALFREDO: Sta bene che ci fosse un V: ma quel V in numeri romani vuol dir quinto.
GINO: Cosa vuoi tu che io sappia dei numeri romani? Non ci sono mica stato a Roma, io.
ALFREDO: E quell’altra tragedia?
GINO: Quell’altra l’aveva un certo titolo curioso… te ne ricordi te, Bettina?
BETTINA: Che vuol che mi ricordi?
GINO: Mi pare che fosse una specie di Spazzolino Tiranno di Padova.
ALFREDO: Ma che spazzolino, buacciòlo? Vorrai dire Ezzelino tiranno di Padova.
GINO: Insomma, o lui o un altro, io so che a quella tragedia mi sono divertito dimolto. Ti rammenti, Bettina, che piacere quando tutti cominciarono a dare addosso al tiranno? Giusto te, Alfredo, levami una curiosità: mi dici perché tutti i tiranni hanno la barba nera?
ALFREDO (con serietà): Già: perché se la tingono apposta per far paura.
GINO: Ah!… ora capisco. Del resto io so che se domani avessi cento milioni di patrimonio…
IDA: Sentiamo un po’: che cosa vorresti fare?
GINO: Prima di tutto vorrei mettere ogni mattina nel Caffè-e-latte più di mezza tazza di zucchero, e poi vorrei andare tutte le sere ai burattini.
IDA: Tutte, tutte le sere?
GINO: Tutte le sere: anche quando piovesse.
IDA: A me poi i burattini mi piacciono, sì, ma fino a un certo segno: io più di tutto mi diverto al teatro, e specialmente a stare in un palco.
ALFREDO: si dice i gusti! Io, invece del palco, anderei più volentieri in una poltrona d’orchestra. A stare in un palco ci ho rabbia, e sai perché? perché ci guardano tutti.
IDA: Lasciali guardare. Io so che mi diverto moltissimo a vedermi guardare co’ cannocchiali.
ALFREDO: Finiscila, giuccherella! Chi vuoi che perda il suo tempo a guardare co’ cannocchiali una moccichina come te?
IDA (risentita): Non cominciare, Alfredo! Tu hai sempre il vizio di offendere!…
ALFREDO (ridendo): Mi dispiace: ho sbagliato a dir moccichina: volevo dire un bel pezzo di donna come te.
IDA (impermalita): C’è poco da canzonare. Ora sono piccola! ma poi crescerò anch’io. Il babbo dice che gli anni passano per tutti. Per noi altri ragazzi, però, questi anni benedetti non passano mai. La mi pare una bella ingiustizia! Oramai gli è un secolo che ho sempre dieci anni!…
BETTINA: si consoli: fra pochi mesi ne avrà undici.
IDA: Bella consolazione! Prima d’arrivare a quindici anni, figurati se c’è da allungare il collo. Però, se si guarda alla statura, sono grande quasi quanto Alfredo.
ALFREDO: Cucù! (In canzonatura.)
IDA: Quanto vuoi scommettere che ci corre appena un dito?
ALFREDO: Cucù.
BETTINA: Vediamo un po’, Idina: la vada a misurarsi con Alfredo.
ALFREDO (con serietà): Sai, Bettina, potresti anche dire col signor Alfredo: ti ho già avvertito che questo tono di confidenza non mi piace punto. Capirai che non lo faccio per me: lo faccio per riguardo del mondo.
GINO (in caricatura): Oh! l’illustrissimo signore Alfredo ha mille ragioni. Da qui in avanti gli darò del signore anch’io. Anzi, gli voglio dare dell’eccellenza (ridendo).
ALFREDO: Bada, Gino! non far tanto lo spiritoso. Ti avverto, per tua regola, che le mani mi cominciano a prudere…
GINO (scherzando): Che paura che mi hai fatto!… Ora non parlo più. Scusa, Bettina: ma la cena non è ancora preparata? Io ho un appetito che paion due.
BETTINA: La cena è preparata: ma il babbo legge il giornale, e quando avrà finito li farà chiamare.
GINO: Vuoi sapere perché il teatro mi piace tanto? perché dopo il teatro, ci tocca la cena.
BETTINA: O che forse non cena anche le altre sere?
GINO: Sì: ma l’altre sere io e l’Ida ci fanno cenare alle otto, per poi mandarci a letto. Cenare alle otto mi pare una cena da polli.
ALFREDO: Che cosa vorresti fare tutta la sera levato? Dopo le ventiquattro ti addormenteresti sul canapè.
GINO: Io, anzi, non ho mai sonno.
ALFREDO: Bravo! Meno male che ti sei addormentato anche stasera.
GINO: Dove?
ALFREDO: Nel palco.
GINO: Quando?
ALFREDO: A metà del second’atto: non è vero, Ida?
IDA: M’è parso anche a me.
GINO: Nossignori: sbagliano, non dormivo.
ALFREDO: O allora che cosa facevi?
GINO (un po’ confuso): Pareva che dormissi… ma invece pensavo.
ALFREDO (ridendo): O che per pensare c’è forse bisogno di chiudere gli occhi?
CINO: Secondo i naturali delle persone. Per esempio, anche il nostro maestro di scuola qualche volta, specialmente nelle ore calde dell’estate, ci dice: «Ragazzi, siate buoni e non fate tanto chiasso, perché ho bisogno di pensare cinque minuti a una cosa»; e quando ha detto così, appoggia la testa alla spalliera della poltrona, chiude gli occhi, apre la bocca e comincia a pensare…
ALFREDO: Ossia, comincierà a dormire.
GINO: Nossignore, non dorme: tant’è vero che, se urliamo troppo forte, si sveglia subito e ci fa una strapazzata di quelle co’ fiocchi… Ma dunque, si va o non si va a cena? Ho una fame che la vedo.
BETTINA: Abbia pazienza altri due minuti.
ALFREDO: Intanto che si aspetta, si fa una bella cosa?
GINO E IDA (insieme): Sentiamo.
ALFREDO: si ripete fra noi tre quella bella scena della commedia, dove il figlio riconosce sua madre?
IDA: Ripetiamola davvero.
GINO: No, no: io voglio prima ripetere alla Bettina il discorso che ha fatto il brillante, quando è venuto sulla scena in maniche di camicia. Vuoi sentirlo, Bettina? (si leva la giacchettina, la butta sul canapè e rimane in maniche di camicia.)
BETTINA: Perché si è levata la giacchettina?
GINO: Voglio farti vedere il brillante tale e quale.
BETTINA: Io non voglio vedere tanti brillanti. Io voglio che si rimetta subito la giacchettina. Ma non lo sa che a questi freddi potrebbe prendere un’infreddatura come nulla?
GINO: Un’infreddatura? non mi parrebbe vero di prenderla. Almeno il babbo mi comprerebbe le pasticche di lichene.
IDA: Vergognati, ghiottonaccio!
GINO: Mi piacciono tanto le pasticche di lichene!… E, invece, a farlo apposta, non infreddo mai. Si vede proprio che sono nato disgraziato! (Rimettendosi la giacchettina.)
ALFREDO: Dunque si fa questa scena, dove il figlio riconosce la madre?
GINO: Scusa, Alfredo: spiegami prima una cosa, che non ho potuto capire. Nella commedia di stasera, la madre sa fin dal principio che Carlo è suo figlio, non è vero?
ALFREDO: Sicuro che lo sa.
GINO: E se lo sa, mi dici perché aspetta a farsi riconoscere da lui, proprio all’ultima scena dell’ultimo atto?
ALFREDO: Povero figlio! Bisogna proprio dire che non hai nemmeno l’ombra del genio drammatico! O non capisci che se la madre si facesse riconoscere alla prima, la commedia finirebbe subito, e noi a quest’ora saremmo tutti a letto da un bel pezzo? Invece la madre, aspettando a farsi riconoscere proprio all’ultimo atto, costringe il pubblico a rimanere in teatro fino alle undici sonate: e così la gente, quando torna a casa, è tutta contenta, perché sa di avere spesi giustificati i suoi quattrini per il biglietto d’ingresso: mi sono spiegato?
GINO: Ora ho capito tutto. E io m’ero figurato invece che quella mamma di Carlo facesse un po’ di burletta.
ALFREDO: Diavol mai! O che si fanno le burlette anche nelle commedie serie?… Non ci mancherebb’altro!
IDA: Dunque si recita o non si recita questa scena?
ALFREDO: Lasciatemi distribuire le parti a me. Io farò da Carlo, ossia da figlio, e tu, Ida, farai la parte della madre.
GINO: E io?
ALFREDO: E tu farai da marito, ossia farai la parte di quello che arriva da ultimo e che tira la revolverata.
GINO: Fossi matto! Io non le faccio quelle brutte cosacce!
ALFREDO: S’intende bene che, invece di tirare colla pistola, tu farai il colpo con la bocca.
GINO: Come sarebbe a dire?
ALFREDO: Tu farai colla bocca: bum!
GINO: E quando lo debbo fare?
ALFREDO: Quando sarà il momento.
GINO: Ho capito.
ALFREDO: Dunque attenti. Io starò da questa parte: tu, Ida, mettiti là, vicina a quella tavola, per poterti appoggiare, quando dovrà venirti lo svenimento.
GINO: E io?
ALFREDO: E tu nasconditi dietro quella porta: e quando sarà il momento, uscirai fuori tutt’a un tratto e farai: bum!
IDA: Se io faccio la parte di madre, tocca a me a incominciare.
ALFREDO: Comincia pure: io son pronto.
IDA (movendosi e gestendo drammaticamente): «No, Carlo, voi non partirete… Oh! Dio!… se voi poteste… oh! Dio!… vedere i tormenti… e lo strazio… oh! Dio… di quest’anima!… Oh! Dio, pietà… di questa povera infelice…»
IL CAMERIERE (affacciandosi sulla porta): Signorini, il babbo li chiama a cena.
ALFREDO: Eccoci subito. Su, Ida; riattacca subito la tua parte, ma mettici un po’ più di passione… un po’ più di singhiozzo… molto singhiozzo.
IDA (declamando): «Oh! Carlo! Se poteste leggere… Oh Dio… in questo cuore… Oh!… Se poteste contare le lacrime…»
GINO (uscendo fuori): Bum!
ALFREDO (a Gino): No, no! Troppo presto, ancora no!
GINO: Spicciatevi, ragazzi, perché io voglio andare a cena.
ALFREDO: Avanti, Ida, avanti!
IDA (declamando): «No, Carlo, ve lo ripeto, voi non partirete… voi non potete partire di qui…»
ALFREDO (declamando): «Sì, o donna, io partirò… io lascerò
questi luoghi fatali… io fuggirò lontano, lontano, lontano…»
GINO (uscendo fuori): Bum! bum! bum!
ALFREDO: Ancora no, t’ho detto!
GINO: Ho fame, la volete capire?
ALFREDO: Altri due minuti, e la scena è finita. (declamando) «Sì, il mio destino vuole così… noi non ci rivedremo mai più… mai più!»
IDA: «Voi, Carlo, non partirete!»
ALFREDO: «Io partirò!»
IDA: «No…»
ALFREDO: «Sì: chi potrà impedirmelo?»
IDA: «Io!»
ALFREDO: «Voi?… e chi siete voi?»
IDA (con molto singhiozzo): «Sciagurato!… io… so… no… tua…»
GINO (uscendo fuori e interrompendo): Sai, Bettina: penserai tu a fare bum; io ho troppa fame e scappo a cena (via di corsa).
ALFREDO: Quand’è così, si può calare il sipario e andare a cena anche noi.
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)
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