Pinocchio (parte 3) – Carlo Collodi

Pinocchio (parte 3) - Carlo Collodi

Pinocchio (parte 3) – Carlo Collodi

Ritorna a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà più un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte per festeggiare questo grande avvenimento Mentre il pescatore era proprio sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso cane condotto là dall’odore acutissimo e ghiotto della frittura.
 
– Passa via! – gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre in mano il burattino infarinato.
 
Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando la coda, pareva che dicesse: «Dammi un boccon di frittura e ti lascio in pace».
 
 – Passa via, ti dico! – gli ripetè il pescatore; e allungò la gamba per tirargli una pedata.
 
Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli le sue terribili zanne.
 
In quel mentre si udì nella grotta una vocina fioca fioca, che disse:
 
– Salvami, Alidoro!… Se non mi salvi, son fritto!
 
Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio e si accorse con sua grandissima maraviglia che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato che il pescatore teneva in mano.
 
Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto infarinato e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta, e via come un baleno!
 
Il pescatore, arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce, che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il cane; ma fatti pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dovè tornarsene indietro.
 
Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese, si fermò e posò delicatamente in terra l’amico Pinocchio.
 
– Quanto ti debbo ringraziare! – disse il burattino.
 
– Non c’è bisogno, – replicò il cane. – Tu salvasti me, e quel che è fatto, è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l’uno coll’altro.
 
– Ma come mai sei capitato in quella grotta?
 
– Ero sempre qui disteso sulla spiaggia più morto che vivo, quando il vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell’odorino mi ha stuzzicato l’appetito, e io gli sono andato dietro.
 
Se arrivavo un minuto più tardi!…
 
– Non me lo dire! – urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura. – Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto più tardi, a quest’ora io ero bell’e fritto, mangiato e digerito. Brrr!… mi vengono i brividi soltanto a pensarvi!…
 
Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.
 
Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a una capanna lì poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla porta a scaldarsi al sole:
 
– Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo e che si chiamava Eugenio?…
 
– Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna, e ora…
 
Ora sarà morto!… – interruppe Pinocchio con gran dolore.
 
– No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.
 
– Davvero, davvero? – gridò il burattino, saltando dall’allegrezza. – Dunque la ferita non era grave?
 
– Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, – rispose il vecchietto, – perché gli tirarono sul capo un grosso libro rilegato in cartone.
 
– E chi glielo tirò?
 
– Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio…
 
– E chi è questo Pinocchio? – domandò il burattino facendo lo gnorri.
 
– Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo…
 
– Calunnie! Tutte calunnie!
 
– Lo conosci tu questo Pinocchio?
 
– Di vista! – rispose il burattino.
 
– E tu che concetto ne hai? – gli chiese il vecchietto.
 
– A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare, ubbidiente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia…
 
Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò il naso e si accorse che il naso gli s’era allungato più d’un palmo. Allora tutto impaurito cominciò a gridare:
 
– Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto: perché conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch’io che è davvero un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, che invece di andare a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino!
 
Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcì e tornò della grandezza naturale, come era prima.
 
– E perché sei tutto bianco a codesto modo? – gli domandò a un tratto il vecchietto.
 
– Vi dirò… senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era imbiancato di fresco, – rispose il burattino, vergognandosi a confessare che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.
 
– O della tua giacchetta, dè tuoi calzoncini e del tuo berretto che cosa ne hai fatto?
 
– Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato.
 
Dite, buon vecchio, non avreste per caso da darmi un po’ di vestituccio, tanto perché io possa ritornare a casa?
 
– Ragazzo mio, in fatto di vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto, dove ci tengo i lupini. Se vuoi, piglialo: eccolo là.
 
E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia. E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese.
 
Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant’è vero che faceva un passo avanti e uno indietro e, discorrendo da se solo, andava dicendo:
 
– Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi vedrà?… Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?… Scommetto che non me la perdona!… Oh! Non me la perdona di certo…
 
E mi sta il dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di correggermi, e non mantengo mai!…
 
Arrivò al paese che era già notte buia, e perché faceva tempaccio e l’acqua veniva giù a catinelle, andò diritto diritto alla casa della Fata coll’animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
 
Ma, quando fu lì, sentì mancarsi il coraggio, e invece di bussare si allontanò, correndo, una ventina di passi. Si avvicinò una seconda volta alla porta, e non concluse nulla: si avvicinò una terza volta, e nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano, e bussò un piccolo colpettino.
 
Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz’ora si aprì una finestra dell’ultimo piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una grossa Lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:
 
– Chi è a quest’ora?
 
– La Fata è in casa? – domandò il burattino.
 
– La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
 
– Sono io!
 
– Chi io?
 
– Pinocchio.
 
– Chi Pinocchio?
 
– Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.
 
– Ah! ho capito, – disse la Lumaca. – Aspettami costì, che ora scendo giù e ti apro subito.
 
– Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo.
 
– Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
 
Intanto passò un’ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall’acqua che aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò più forte. A quel secondo colpo si aprì una finestra del piano di sotto e si affacciò la solita Lumaca.
 
– Lumachina bella, – gridò Pinocchio dalla strada, – sono due ore che aspetto ! E due ore, a questa serataccia, diventano più lunghe di due anni. Spicciatevi, per carità.
 
– Ragazzo mio – gli rispose dalla finestra quella bestiola tutta pace e tutta flemma, – ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
 
E la finestra si richiuse.
 
Di lì a poco suonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte, e la porta era sempre chiusa.
 
Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente della porta per bussare un gran colpo da far rintronare tutto il casamento: ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un’anguilla viva, che sgusciandogli dalle mani sparì nel rigagnolo d’acqua in mezzo alla strada.
 
– Ah, sì? – gridò Pinocchio sempre più accecato dalla collera. – Se il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci.
 
E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell’uscio della casa. Il colpo fu così forte, che il piede penetrò nel legno fino a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta fatica inutile: perché il piede c’era rimasto conficcato dentro, come un chiodo ribadito.
 
Figuratevi il povero Pinocchio ! Dovè passare tutto il resto della notte con un piede in terra e con quell’altro per aria.
 
La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprì.
 
Quella brava bestiola della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all’uscio di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che avesse fatto una sudata!
 
– Che cosa fate con codesto piede conficcato nell’uscio? – domandò ridendo al burattino.
 
– E’ stata una disgrazia. Vedete un po’, Lumachina bella, se vi riesce di liberarmi da questo supplizio.
 
– Ragazzo mio, così ci vuole un legnaiolo, e io non ho mai fatto la legnaiola.
 
– Pregate la Fata da parte mia!…
 
– La Fata dorme e non vuol essere svegliata.
 
– Ma che cosa volete che io faccia inchiodato tutto il giorno a questa porta?
 
– Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.
 
– Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perché mi sento rifinito.
 
– Subito! – disse la Lumaca.
 
Difatti dopo tre ore e mezzo Pinocchio la vide tornare con un vassoio d’argento in capo. Nel vassoio c’era un pane, un pollastro arrosto e quattro albicocche mature.
 
– Ecco la colazione che vi manda la Fata, – disse la Lumaca.
 
Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentì consolarsi tutto.
 
Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dovè accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro albicocche di alabastro, colorite al naturale.
 
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il vassoio e quel che c’era dentro: ma invece, o fosse il gran dolore o la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
 
Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto a lui.
 
– Anche per questa volta ti perdono, – gli disse la Fata, – ma guai a te se me ne fai un’altra delle tue!…
 
Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell’anno. Difatti, agli esami delle vacanze, ebbe l’onore di essere il più bravo della scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati così lodevoli e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:
 
– Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
 
– Cioè?
 
– Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo perbene.
 
Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata, non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra. Quella giornata prometteva d’essere molto bella e molto allegra, ma…
 
Disgraziatamente, nella vita dei burattini c’è sempre un ~ma~, che sciupa ogni cosa.
 
Pinocchio, invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo per il Paese dei Balocchi
 
Com’è naturale, Pinocchio chiese subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gli inviti: e la Fata gli disse:
 
– Vai pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?
 
– Fra un’ora prometto di essere bell’e ritornato, – replicò il burattino.
 
– Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere: ma il più delle volte, fanno tardi a mantenere.
 
– Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.
 
– Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.
 
– Perché?
 
– Perché i ragazzi che non danno retta ai consigli di chi ne sa più di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.
 
– E io l’ho provato! – disse Pinocchio. – Ma ora non ci ricasco più!
 
– Vedremo se dici il vero.
 
Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata, che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscì fuori della porta di casa.
 
In poco più d’un’ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono subito e di gran cuore: altri da principio si fecero un po’ pregare; ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire: «Verremo anche noi, per farti piacere».
 
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola, ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo: ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo nuovo di un lumino da notte.
 
Lucignolo era il ragazzo più svogliato e più birichino di tutta la scuola: ma Pinocchio gli voleva un gran bene. Difatti andò subito a cercarlo a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda volta, e Lucignolo non c’era: tornò una terza volta, e fece la strada invano.
 
Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide nascosto sotto il portico di una casa di contadini.
 
– Che cosa fai costì? – gli domandò Pinocchio, avvicinandosi.
 
– Aspetto la mezzanotte, per partire…
 
– Dove vai?
 
– Lontano, lontano, lontano!
 
– E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!…
 
– Che cosa volevi da me?
 
– Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?
 
– Quale?
 
– Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te, e come tutti gli altri.
 
– Buon pro ti faccia.
 
– Domani, dunque, ti aspetto a colazione a casa mia.
 
– Ma se ti dico che parto questa sera.
 
– A che ora?
 
– Fra poco.
 
– E dove vai?
 
– Vado ad abitare in un paese… che è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna!…
 
– E come si chiama?
 
– Si chiama il Paese dei Balocchi. Perché non vieni anche tu?
 
– Io? no davvero!
 
– Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai. Dove vuoi trovare un paese più salubre per noialtri ragazzi? Lì non vi sono scuole: lì non vi sono maestri: lì non vi sono libri. In quel paese benedetto non si studia mai. Il giovedì non si fa scuola: e ogni settimana è composta di sei giovedì e di una domenica. Figurati che le vacanze dell’autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll’ultimo di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero essere tutti i paesi civili!…
 
– Ma come si passano le giornate nel Paese dei Balocchi?
 
– Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che te ne pare?
 
– Uhm!… – fece Pinocchio: e tentennò leggermente il capo, come dire: «è una vita che farei volentieri anch’io!».
 
– Dunque, vuoi partire con me? Sì o no? Risolviti.
 
– No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo perbene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo che il sole va sotto, così ti lascio subito e scappo via. Dunque addio e buon viaggio.
 
– Dove corri con tanta furia?
 
– A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.
 
– Aspetta altri due minuti.
 
– Faccio troppo tardi.
 
– Due minuti soli.
 
– E se poi la Fata mi grida?
 
– Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà, – disse quella birba di Lucignolo.
 
– E come fai? Parti solo o in compagnia?
 
– Solo? Saremo più di cento ragazzi.
 
– E il viaggio lo fate a piedi?
 
– A mezzanotte passerà di qui il carro che ci deve prendere e condurre fin dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.
 
– Che cosa pagherei che ora fosse mezzanotte!…
 
– Perché?
 
– Per vedervi partire tutti insieme.
 
– Rimani qui un altro poco e ci vedrai.
 
– No, no: voglio ritornare a casa.
 
– Aspetta altri due minuti.
 
– Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.
 
– Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?
 
– Ma dunque, – soggiunse Pinocchio, – tu sei veramente sicuro che in quel paese non ci sono punte scuole?…
 
– Neanche l’ombra.
 
– E nemmeno maestri?…
 
– Nemmen’uno.
 
– E non c’è mai l’obbligo di studiare?
 
– Mai, mai, mai!
 
– Che bel paese! – disse Pinocchio, sentendo venirsi l’acquolina in bocca. – Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!…
 
– Perché non vieni anche tu?
 
– E inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.
 
– Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!… E anche quelle liceali, se le incontri per la strada.
 
– Addio, Lucignolo: fai buon viaggio, divertiti e rammentati qualche volta degli amici.
 
Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi, fermandosi e voltandosi all’amico, gli domandò:
 
– Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte di sei giovedì e di una domenica?
 
– Sicurissimo.
 
– Ma lo sai di certo che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio e finiscano coll’ultimo di dicembre?
 
– Di certissimo!
 
– Che bel paese! – ripetè Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione.
 
Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e furia:
 
– Dunque, addio davvero: e buon viaggio.
 
– Addio.
 
– Fra quanto partirete?
 
– Fra due ore!
 
– Peccato! Se alla partenza mancasse un’ora sola, sarei quasi quasi capace di aspettare.
 
– E la Fata?…
 
– Oramai ho fatto tardi!… E tornare a casa un’ora prima o un’ora dopo, è lo stesso.
 
– Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?
 
– Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà.
 
Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro muoversi in lontananza un lumicino… e sentirono un suono di bubboli e uno squillo di trombetta, così piccolino e soffocato, che pareva il sibilo di una zanzara!
– Eccolo! – gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.
 
– Chi è? – domandò sottovoce Pinocchio.
 
– E’ il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sì o no?
 
– Ma è proprio vero, – domandò il burattino, – che in quel paese i ragazzi non hanno mai l’obbligo di studiare?
 
– Mai, mai, mai!
 
– Che bel paese!… che bel paese!… che bel paese!…
 
Dopo cinque mesi di cuccagna, Pinocchio, con sua grande maraviglia, sente spuntarsi un bel paio d’orecchie asinine e diventa un ciuchino, con la coda e tutto
 
Finalmente il carro arrivò: e arrivò senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci.
 
Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza, ma di diverso pelame.
 
Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale, e altri rigati a grandi strisce gialle e turchine. Ma la cosa più singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia quei ventiquattro ciuchini, invece di essere ferrati come tutti le altre bestie da tiro o da soma, avevano ai piedi degli stivali da uomo di vacchetta bianca.
 
E il conduttore del carro?…
 
Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa.
 
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano a gara nel montare sul suo carro, per essere condotti da lui in quella vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di Paese dei Balocchi.
 
Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri, come tante acciughe nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare: ma nessuno diceva ~ohi!~, nessuno si lamentava. La consolazione di sapere che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c’erano né libri, né scuole, né maestri, li rendeva così contenti e rassegnati, che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete, né il sonno.
 
Appena che il carro si fu fermato, l’omino si volse a Lucignolo e con mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:
 
– Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese?
 
– Sicuro che ci voglio venire.
 
– Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c’è più posto. Come vedi, è tutto pieno!…
 
– Pazienza! – replicò Lucignolo, – se non c’è posto dentro, io mi adatterò a star seduto sulle stanghe del carro.
 
E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe.
 
– E tu, amor mio?… – disse l’omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio. – Che intendi fare? Vieni con noi, o rimani?…
 
– Io rimango, – rispose Pinocchio. – Io voglio tornarmene a casa mia: voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i ragazzi perbene.
 
– Buon pro ti faccia!
 
– Pinocchio! – disse allora Lucignolo. – Dai retta a me: vieni via con noi e staremo allegri.
 
– No, no, no!
 
– Vieni via con noi e staremo allegri, – gridarono altre quattro voci di dentro al carro.
 
– Vieni via con noi e staremo allegri, – urlarono tutte insieme un centinaio di voci di dentro al carro.
 
– E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? – disse il burattino che cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel manico.
 
– Non ti fasciare il capo con tante melanconie. Pensa che andiamo in un paese dove saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera!
 
Pinocchio non rispose: ma fece un sospiro: poi fece un altro sospiro: poi un terzo sospiro; finalmente disse:
 
– Fatemi un po’ di posto: voglio venire anch’io !…
 
– I posti son tutti pieni, – replicò l’omino, – ma per mostrarti quanto sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta…
 
– E voi?…
 
– E io farò la strada a piedi.
 
– No, davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in groppa a qualcuno di questi ciuchini! – gridò Pinocchio.
 
Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia e fece l’atto di volerlo cavalcare: ma la bestiola, voltandosi a secco, gli dette una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all’aria.
 
Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi presenti alla scena.
 
Ma l’omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle, e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà dell’orecchio destro.
 
Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto fu così bello, che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: «Viva Pinocchio!» e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano più.
 
Quand’ecco che all’improvviso il ciuchino alzò tutt’e due le gambe di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero burattino in mezzo alla strada sopra un monte di ghiaia.
 
Allora grandi risate daccapo: ma l’omino, invece di ridere, si sentì preso da tanto amore per quell’irrequieto asinello, che, con un bacio, gli portò via di netto la metà di quell’altro orecchio. Poi disse al burattino:
 
– Rimonta pure a cavallo e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi e spero di averlo reso mansueto e ragionevole.
 
Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciotoli della via maestra, gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile, che gli disse:
 
– Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai!
 
Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano, Lucignolo russava come un ghiro e l’omino seduto a cassetta, canterellava fra i denti:
 
Tutti la notte dormono
 
E io non dormo mai…
 
Fatto un altro mezzo chilometro, Pinocchio sentì la solita vocina fioca che gli disse:
 
– Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata!… Io lo so per prova!… E te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai anche tu, come oggi piango io… ma allora sarà tardi !…
 
A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato più che mai, saltò giù dalla groppa della cavalcatura e andò a prendere il suo ciuchino per il muso.
 
E immaginatevi come restò, quando s’accorse che il suo ciuchino piangeva… e piangeva proprio come un ragazzo!
 
– Ehi, signor omino, – gridò allora Pinocchio al padrone del carro, – sapete che cosa c’è di nuovo? Questo ciuchino piange.
 
– Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo
 
– Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare ?
 
– No: ha imparato da sé a borbottare qualche parola, essendo stato tre anni in una compagnia di cani ammaestrati.
 
– Povera bestia!…
 
– Via, via, – disse l’omino, – non perdiamo il nostro tempo a veder piangere un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la notte è fresca e la strada è lunga.
 
Pinocchio obbedì senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la mattina, sul far dell’alba, arrivarono felicemente nel Paese dei Balocchi.
 
Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione era tutta composta di ragazzi. I più vecchi avevano quattordici anni: i più giovani ne avevano otto appena. Nelle strade, un’allegria, un chiasso, uno strillio da levar di cervello! Branchi di monelli dappertutto. Chi giocava alle noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede, chi sopra a un cavallino di legno; questi facevano a mosca-cieca, quegli altri si rincorrevano; altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria; chi mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll’elmo di foglio e lo squadrone di cartapesta; chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina quando ha fatto l’ovo; insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: ~Viva i balocci~ (invece di
 
~balocchi~): ~non voglamo più schole~ (invece di
 
~non vogliamo più scuole~): ~abbasso Larin Metica~
 
(invece di ~l’aritmetica~) e altri fiori consimili.
 
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il viaggio coll’omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, come è facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi più felice, chi più contento di loro?
 
In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i giorni, le settimane, passavano come tanti baleni.
 
– Oh! che bella vita! – diceva Pinocchio tutte le volte che per caso s’imbatteva in Lucignolo.
 
– Vedi, dunque, se avevo ragione?… – ripigliava quest’ultimo. – E dire che tu non volevi partire! E pensare che t’eri messo in capo di tornartene a casa dalla tua Fata, per perdere il tempo a studiare!…. Se oggi ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri amici che sappiano rendere di questi grandi favori.
 
– E’ vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento, è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando di te? Mi diceva sempre: «Non praticare quella birba di Lucignolo perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro che a far del male!…».
 
– Povero maestro! – replicò l’altro tentennando il capo. – Lo so purtroppo che mi aveva a noia e che si divertiva sempre a calunniarmi, ma io sono generoso e gli perdono!
 
– Anima grande! – disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l’amico e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.
 
Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un libro, né una scuola, quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe, come si suol dire, una gran brutta sorpresa che lo messe proprio di malumore.
 
A Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia a ragliare
 
E questa sorpresa quale fu?
 
Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che Pinocchio, svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel grattarsi il capo si accorse…
 
Indovinate un po’ di che cosa si accorse?
 
Si accorse con sua grandissima maraviglia che gli orecchi gli erano cresciuti più d’un palmo.
 
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure! Immaginatevi dunque come restò, quando si poté scorgere che i suoi orecchi, durante la notte, erano così allungati, che parevano due spazzole di padule.
 
Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando uno specchio, empì d’acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
 
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna e la disperazione del povero Pinocchio!
 
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto più si disperava, e più i suoi orecchi crescevano, crescevano e diventavano pelosi verso la cima. Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina, che abitava il piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in così grandi smanie, gli domandò premurosamente:
 
– Che cos’hai, mio caro casigliano?
 
– Sono malato, Marmottina mia, molto malato… e malato d’una malattia che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
 
– Un pochino.
 
– Senti dunque se per caso avessi la febbre.
 
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso di Pinocchio gli disse sospirando:
 
– Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!…
 
– Cioè?
 
– Tu hai una gran brutta febbre!…
 
– E che febbre sarebbe?
 
– E’ la febbre del somaro.
 
– Non la capisco questa febbre! – rispose il burattino, che l’aveva pur troppo capita.
 
– Allora te la spiegherò io, – soggiunse la Marmottina. – Sappi dunque che fra due o tre ore tu non sarai più burattino, né un ragazzo…
 
– E che cosa sarò?
 
– Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l’insalata al mercato.
 
– Oh! Povero me! Povero me! – gridò Pinocchio pigliandosi con le mani tutt’e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente, come se fossero gli orecchi di un altro.
 
– Caro mio, – replicò la Marmottina per consolarlo, – che cosa ci vuoi tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza, che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti, debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
 
– Ma davvero è proprio così? – domandò singhiozzando il burattino.
 
– Purtroppo è cosi! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci prima!
 
– Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!…
 
– E chi è questo Lucignolo!…
 
– Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore… ma Lucignolo mi disse: «Perché vuoi annoiarti a studiare? Perché vuoi andare alla scuola? Vieni piuttosto con me, nel Paese dei Balocchi: lì non studieremo più: lì ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo sempre allegri».
 
– E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo compagno?
 
– Perché?… Perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio… e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai abbandonato quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che aveva fatto tanto per me!… E a quest’ora non sarei più un burattino… ma sarei invece un ragazzino a modo, come ce n’è tanti! Oh!… ma se incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!
 
E fece l’atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò che aveva gli orecchi d’asino, e vergognandosi di mostrarli al pubblico, che cosa inventò?… Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.
 
Poi uscì: e si dette a cercar Lucignolo dappertutto. Lo cercò nelle strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò. Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l’aveva veduto.
 
Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta bussò.
 
– Chi è? – domandò Lucignolo di dentro.
 
– Sono io! – rispose il burattino.
 
– Aspetta un poco, e ti aprirò.
 
Dopo mezz’ora la porta si aprì: e figuratevi come restò Pinocchio quando, entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
 
Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentì quasi consolarsi e pensò subito dentro di sé:
 
«Che l’amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche lui la febbre del ciuchino?…»
 
E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
 
– Come stai, mio caro Lucignolo?
 
– Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.
 
– Lo dici proprio sul serio?
 
– E perché dovrei dirti una bugia?
 
– Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di cotone che ti cuopre tutti gli orecchi?
 
– Me l’ha ordinato il medico, perché mi sono fatto male a questo ginocchio. E tu, caro burattino, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato fin sotto il naso?
 
– Me l’ha ordinato il medico, perche mi sono sbucciato un piede.
 
– Oh! povero Pinocchio!…
 
– Oh! povero Lucignolo!…
 
A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.
 
Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse al suo compagno:
 
– Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia agli orecchi?
 
– Mai!… E tu?
 
– Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio, che mi fa spasimare.
 
– Ho lo stesso male anch’io.
 
– Anche tu?… E qual è l’orecchio che ti duole?
 
– Tutt’e due. E tu?
 
– Tutt’e due. Che sia la medesima malattia?
 
– Ho paura di sì?
 
– Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
 
– Volentieri! Con tutto il cuore.
 
– Mi fai vedere i tuoi orecchi?
 
– Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
 
– No: il primo devi essere tu.
 
– No, carino! Prima tu, e dopo io!
 
– Ebbene, – disse allora il burattino, – facciamo un patto da buoni amici.
 
– Sentiamo il patto.
 
– Leviamoci tutt’e due il berretto nello stesso tempo: accetti?
 
– Accetto.
 
– Dunque attenti!
 
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
 
– Uno! Due! Tre!
 
Alla parola ~tre!~ i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li gettarono in aria.
 
E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera. Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutt’e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti, cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti, e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
 
E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul più bello del ridere, Lucignolo tutt’a un tratto si chetò, e barcollando e cambiando colore, disse all’amico:
 
– Aiuto, aiuto, Pinocchio!
 
– Che cos’hai?
 
– Ohimè. Non mi riesce più di star ritto sulle gambe.
 
– Non mi riesce più neanche a me, – gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
 
E mentre dicevano così, si piegarono tutt’e due carponi a terra e, camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe, i loro visi si allungarono e diventarono musi e le loro schiene si coprirono di un pelame grigiolino chiaro, brizzolato di nero.
 
Ma il momento più brutto per què due sciagurati sapete quando fu? Il momento più brutto e più umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono a piangere e a lamentarsi del loro destino.
 
Non l’avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori dei ragli asinini: e ragliando sonoramente, facevano tutt’e due coro: ~j-a, j-a, j-a~.
 
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
 
– Aprite! Sono l’Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in questo paese. Aprite subito, o guai a voi!
 
Diventato un ciuchino vero, è portato a vendere, e lo compra il direttore di una compagnia di pagliacci per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi; ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua pelle un tamburo
 
Vedendo che la porta non si apriva, l’Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato che fu nella stanza, disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:
 
– Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti alla voce. E per questo eccomi qui.
 
A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giù, con gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.
 
Da principio l’Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata fuori la striglia, cominciò a strigliarli perbene.
 
E quando a furia di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.
E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
 
Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al direttore di una compagnia di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della compagnia.
 
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che faceva l’Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva una fisionomia tutta latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo averli caricati sul suo carro, li conduceva nel Paese dei Balocchi, perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti. Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre e di non studiare mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro e contento s’impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere e sui mercati. E così in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario.
 
Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.
 
Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empì la greppia di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.
 
Allora il padrone, brontolando, gli empì la greppia di fieno: ma neppure il fieno gli piacque.
 
– Ah! non ti piace neppure il fieno? – gridò il padrone imbizzito. – Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò io a levarteli!…
 
E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.
 
Pinocchio dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando, disse:
 
– ~J-a, j-a~, la paglia non la posso digerire!…
 
– Allora mangia il fieno! – replicò il padrone che intendeva benissimo il dialetto asinino.
 
– ~J-a, j-a~, il fieno mi fa dolere il corpo!…
 
– Pretenderesti, dunque, che un somaro, par tuo, lo dovessi mantenere a petti di pollo e cappone in galantina? – soggiunse il padrone arrabbiandosi sempre più e affibbiandogli una seconda frustata.
 
A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito e non disse altro.
 
Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano molte ore che non aveva mangiato cominciò a sbadigliare dal grande appetito. E, sbadigliando, spalancava una bocca che pareva un forno.
 
Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare un po’ di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi e lo tirò giù.
 
– Questo fieno non è cattivo, – poi disse dentro di sé, – ma quanto sarebbe stato meglio che avessi continuato a studiare!… A quest’ora, invece di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta di salame!… Pazienza!
 
La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po’ di fieno; ma non lo trovò perché l’aveva mangiato tutto nella notte.
 
Allora prese una boccata di paglia tritata: ma in quel mentre che la masticava si dovè accorgere che il sapore della paglia tritata non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai maccheroni alla napoletana.
 
– Pazienza! – ripetè, continuando a masticare. – Che almeno la mia disgrazia possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno voglia di studiare. Pazienza!… pazienza!
 
– Pazienza un corno! – urlò il padrone, entrando in quel momento nella stalla. – Credi forse, mio bel ciuchino, ch’io ti abbia comprato unicamente per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo! Vieni con me nel Circo, e là ti insegnerà a saltare i cerchi, a rompere col capo le botti di foglio e a ballaré il valzer e la polca, stando ritto sulle gambe di dietro.
 
Il povero Pinocchio, per amore o per forza, dovè imparare tutte queste bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni, e molte frustate da levare il pelo.
 
Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone poté annunziare uno spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati alle cantonate delle strade, dicevano cosi:
 
Quella sera, come potete figurarvelo, un’ora prima che cominciasse lo spettacolo, il teatro era pieno stipato.
 
Non si trovava più né un posto distinto, né un palco, nemmeno a pagarlo a peso d’oro.
 
Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder ballare il famoso ciuchino Pinocchio.
 
Finita la prima parte dello spettacolo, il direttore della compagnia, vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle fin sopra ai ginocchi, si presentò all’affollatissimo pubblico, e, fatto un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente spropositato discorso:
 
«Rispettabile pubblico, cavalieri e dame! L’umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonché il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di Sua Maestà l’Imperatore di tutte le Corti principali d’Europa.
 
«E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci!»
 
Questo discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi: ma gli applausi raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie d’ottone; due camelie bianche agli orecchi; la criniera divisa in tanti riccioli legati con fiocchettini d’argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri di velluto amaranto e celeste. Era, insomma, un ciuchino da innamorare!
 
Il direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole:
 
«Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogne delle grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi dà suoi occhi, conciossiaché essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto più volte ricorrere all’affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l’animo. Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola cartagine ossea che la stessa Facoltà Medicea di Parigi riconobbe essere quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per questo io lo volli ammaestrare nel ballo nonché nei relativi salti dei cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo, e poi giudicatelo! Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io v’inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell’apoteosi che il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo invece di domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore undici antimeridiane del pomeriggio».
 
E qui il direttore fece un’altra profondissima riverenza: quindi rivolgendosi a Pinocchio, gli disse:
 
– Animo, Pinocchio!… Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi!
 
Pinocchio, ubbidiente, piegò subito i due ginocchi davanti, fino a terra, e rimase inginocchiato fino a tanto che il direttore, schioccando la frusta, non gli gridò:
 
– Al passo!
 
Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare intorno al Circo, camminando sempre di passo.
 
Dopo un poco il direttore grido:
 
– Al trotto! – e Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in trotto.
 
– Al galoppo!… – e Pinocchio staccò il galoppo.
 
– Alla carriera! – e Pinocchio si dette a correre di gran carriera.
 
Ma in quella che correva come un barbero, il direttore, alzando il braccio in aria, scaricò un colpo di pistola.
 
A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo, come se fosse moribondo davvero.
 
Rizzatosi da terra, in mezzo a uno scoppio di applausi, d’urli e di battimani, che andavano alle stelle, gli venne naturalmente di alzare la testa e di guardare in su… e guardando, vide in un palco una bella signora, che aveva al collo una grossa collana d’oro, dalla quale pendeva un medaglione.
 
Nel medaglione c’era dipinto il ritratto d’un burattino.
 
– Quel ritratto è il mio!… quella signora è la Fata! – disse dentro di sé Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla gran contentezza, si provò a gridare:
 
– Oh Fatina mia! oh Fatina mia!
 
Ma invece di queste parole, gli uscì dalla gola un raglio cosi sonoro e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti i ragazzi che erano in teatro.
 
Allora il direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non è buona creanza mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè col manico della frusta una bacchettata sul naso.
 
Il povero ciuchino, tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi il naso almeno cinque minuti, credendo forse così di rasciugarsi il dolore che aveva sentito.
 
Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!…
 
Si sentì come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accorse e, meno degli altri, il direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:
 
– Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta grazia sapete saltare i cerchi.
 
Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava più comodamente di sotto. Alla fine spiccò un salto e l’attraversò: ma le gambe di dietro gli rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde in terra dall’altra parte tutto in un fascio.
 
Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté ritornare alla scuderia.
 
– Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! – gridavano i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.
 
Ma il ciuchino per quella sera non si fece rivedere.
 
La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando l’ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.
 
Allora il direttore disse al suo garzone di stalla:
 
– Che vuoi tu che mi faccia d’un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo.
 
Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò al garzone di stalla:
 
– Quanto vuoi di cotesto ciuchino zoppo?
 
– Venti lire.
 
– Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene: lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura, e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del mio paese.
 
Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio, quando sentì che era destinato a diventare un tamburo!
 
Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il ciuchino sopra uno scoglio ch’era sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua.
 
Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito a fondo; e il compratore, tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sullo scoglio, aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato, per poi levargli la pelle.
 
Pinocchio, gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna ad essere un burattino come prima; ma mentre nuota per salvarsi, è ingoiato dal terribile Pesce-cane
 
Dopo cinquanta minuti che il ciuchino era sott’acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo:
 
– A quest’ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere bell’affogato. Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo.
 
E cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba: e tira, tira, tira, alla fine vide apparire a fior d’acqua… indovinate? Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo che scodinzolava come un’anguilla.
 
Vedendo quel burattino di legno, il pover’uomo credé di sognare e rimase lì intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa.
 
Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse piangendo e balbettando:
 
– E il ciuchino che ho gettato in mare dov’è?
 
– Quel ciuchino son io! – rispose il burattino, ridendo.
 
– Tu?
 
– Io.
 
– Ah! mariuolo! Pretenderesti forse burlarti di me?
 
– Burlarmi di voi? Tutt’altro, caro padrone: io vi parlo sul serio.
 
– Ma come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora, stando nell’acqua sei diventato un burattino di legno?…
 
– Sarà effetto dell’acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.
 
– Bada, burattino, bada!… Non credere di divertirti alle mie spalle. Guai a te, se mi scappa la pazienza.
 
– Ebbene, padrone: volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi questa gamba e io ve la racconterò.
 
Quel buon pasticcione del compratore, curioso di conoscere la vera storia, gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell’aria prese a dirgli così:
 
– Sappiate dunque che io ero un burattino di legno come sono oggi: ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo mondo ce n’è tanti: se non che per la mia poca voglia di studiare e per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa… e un bel giorno, svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto di orecchi… e con tanto di coda!… Che vergogna fu quella per me!… Una vergogna, caro padrone, che Sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un gran ballerino e un gran saltatore di cerchi; ma una sera durante lo spettacolo, feci in teatro una brutta cascata, e rimasi zoppo da tutt’e due le gambe. Allora il direttore non sapendo che cosa farsi d’un asino zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi avete comprato!
 
– Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei poveri venti soldi?
 
– E perché mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la mia pelle un tamburo!… un tamburo!…
 
– Pur troppo!… E ora dove troverò un’altra pelle?
 
– Non vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n’è tanti, in questo mondo!
 
– Dimmi, monello impertinente: e la tua storia finisce qui?
 
– No, – rispose il burattino, – ci sono altre due parole, e poi è finita. Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi; ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d’umanità, avete preferito di legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento di delicatezza vi onora moltissimo, e io ve ne serberò eterna riconoscenza. Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza la Fata…
 
– E chi è questa Fata?
 
– E la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che vogliono un gran bene ai loro ragazzi e non li perdono mai d’occhio, e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi, per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero di essere abbandonati e lasciati in balia a se stessi. Dicevo, dunque, che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito intorno a me un branco infinito di pesci, i quali credendomi davvero un ciuchino bell’e morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero più ghiotti anche dei ragazzi! Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della schiena… e fra gli altri, vi fu un pesciolino cosi garbato, che si degnò perfino di mangiarmi la coda.
 
– Da oggi in poi, – disse il compratore inorridito, – faccio giuro di non assaggiar più carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una coda di ciuco!
 
– Io la penso come voi, – replicò il burattino, ridendo. – Del resto, dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono,- com’è naturale, all’osso… o per dir meglio, arrivarono al legno, perché, come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma dopo dati i primi morsi, quei pesci ghiottoni si accorsero subito che il legno non era ciccia per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono chi in qua chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie… Ed eccovi raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un burattino vivo, invece d’un ciuchino morto.
 
– Io mi rido della tua storia, – gridò il compratore imbestialito. – Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini. Sai che cosa farò? Ti porterò daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto.
 
– Rivendetemi pure: io sono contento, – disse Pinocchio.
 
Ma nel dir cosi, fece un bel salto e schizzò in mezzo all’acqua. E nuotando allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore:
 
– Addio, padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo, ricordatevi di me.
 
E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro, urlava più forte:
 
– Addio, padrone: se avete bisogno di un po’ di legno stagionato, per accendere il caminetto, ricordatevi di me.
 
Fatto sta che in un batter d’occhio si era tanto allontanato, che non si vedeva quasi più: ossia, si vedeva solamente sulla superficie del mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori dell’acqua e faceva capriole e salti, come un delfino in vena di buonumore.
 
Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno scoglio che pareva di marmo bianco: e su in cima allo scoglio, una bella Caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi.
 
La cosa più singolare era questa: che la lana della Caprettina, invece di esser bianca, o nera, o pallata di due colori, come quella delle altre capre, era invece turchina, ma d’un color turchino sfolgorante, che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.
 
Lascio pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere più forte! Raddoppiando di forza e di energia si diè a nuotare verso lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quando ecco uscir fuori dall’acqua e venirgli incontro una orribile testa di mostro marino, con la bocca spalancata, come una voragine, e tre filari di zanne che avrebbero fatto paura anche a vederle dipinte.
 
E sapete chi era quel mostro marino?
 
Quel mostro marino era né più né meno quel gigantesco Pesce-cane, ricordato più volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile voracità, veniva soprannominato «l’Attila dei pesci e dei pescatori».
 
Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio alla vista del mostro. Cerco di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità di una saetta.
 
– Affrettati, Pinocchio, per carità! – gridava belando la bella Caprettina.
 
E Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le gambe e coi piedi.
 
– Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina!
 
E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella corsa.
 
– Bada, Pinocchio!… il mostro ti raggiunge!… Eccolo!… Eccolo!… Affrettati per carità, o sei perduto!…
 
E Pinocchio a nuotar più lesto che mai, e via, e via, e via, come andrebbe una palla di fucile. E già era presso lo scoglio, e già la Caprettina, spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per aiutarlo a uscire dall’acqua!
 
Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto: il mostro, tirando il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un uovo di gallina: e lo inghiottì con tanta violenza e con tanta avidità, che Pinocchio, cascando giù in corpo al Pesce-cane, battè un colpo cosi screanzato, da restarne sbalordito per un quarto d’ora.
 
Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi, nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c’era da ogni parte un gran buio: ma un buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro. Stette in ascolto e non senti nessun rumore: solamente di tanto in tanto sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capì che usciva dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva moltissimo d’asma, e quando respirava, pareva proprio che tirasse la tramontana.
 
Pinocchio, sulle prime, s’ingegnò di farsi un poco di coraggio: ma quand’ebbe la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino allora cominciò a piangere e a strillare: e piangendo diceva:
 
– Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c’è nessuno che venga a salvarmi?
 
– Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?… – disse in quel buio una vociaccia fessa di chitarra scordata.
 
– Chi è che parla cosi? – domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo spavento.
 
– Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme con te. E tu che pesce sei?
 
– Io non ho che vedere nulla coi pesci. Io sono un burattino.
 
– E allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal mostro?
 
– Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito! Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?…
 
– Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutt’e due!…
 
– Ma io non voglio esser digerito! – urlò Pinocchio, ricominciando a piangere.
 
– Neppure io vorrei esser digerito, – soggiunse il Tonno, – ma io sono abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morir sott’acqua che sott’olio!…
 
– Scioccherie! – gridò Pinocchio.
 
– La mia è un’opinione, – replicò il Tonno, – e le opinioni, come dicono i Tonni politici, vanno rispettate!
 
– Insomma… io voglio andarmene di qui… io voglio fuggire…
 
– Fuggi, se ti riesce!…
 
– è molto grosso questo Pesce-cane che ci ha inghiottiti? – domandò il burattino.
 
– Figurati che il suo corpo è più lungo di un chilometro, senza contare la coda.
 
Nel tempo che facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio di veder lontan lontano una specie di chiarore.
 
– Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? – disse Pinocchio.
 
– Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il momento di esser digerito!….
 
– Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?
 
– Io te l’auguro di cuore, caro burattino.
 
– Addio, Tonno.
 
– Addio, burattino; e buona fortuna.
 
– Dove ci rivedremo?…
 
– Chi lo sa?… è meglio non pensarci neppure!
 
Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane… Chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete
 
Pinocchio, appena che ebbe detto addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel buio, e cominciò a camminare a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, avviandosi un passo dietro l’altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare lontano lontano.
 
E nel camminare sentì che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolona, e quell’acqua sapeva di un odore così acuto di pesce fritto che gli pareva di essere a mezza quaresima.
 
E più andava avanti, e più il chiarore si faceva rilucente e distinto: finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato… che cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lì biascicando alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava, gli scappavano perfino di bocca.
 
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
 
– Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più!
 
– Dunque gli occhi mi dicono il vero? – replicò il vecchietto stropicciandosi gli occhi, – Dunque tu sé proprio il mì caro Pinocchio?
 
– Sì, sì, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è vero? Oh! babbino mio, come siete buono!… e pensare che io, invece… Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante cose mi son andate per traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero babbino, col vendere la vostra casacca mi compraste l’Abbecedario per andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinaio mi voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che fu quello poi che mi dette cinque monete d’oro, perché le portassi a voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all’osteria del Gambero Rosso dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via, e loro dietro, e io via e loro sempre dietro, e io via, finché m’impiccarono a un ramo della Quercia grande, dovecché la bella Bambina dai capelli turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando m’ebbero visitato, dissero subito: «Se non è morto, è segno che è sempre vivo», e allora mi scappò detto una bugia, e il naso cominciò a crescermi e non mi passava più dalla porta di camera, motivo per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete d’oro, che una l’avevo spesa all’osteria, e il pappagallo si messe a ridere, e viceversa di duemila monete non trovai più nulla, la quale il giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir via, vidi un bel grappolo d’uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi la guardia al pollaio, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare, e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si strappò una vena sul petto e cosi ritornai alla Casa della bella Bambina, che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: «Ho visto il tù babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare», e io gli dissi: «Oh! se avessi l’ali anch’io», e lui mi disse: «Vuoi venire dal tuo babbo?», e io gli dissi: «Magari! ma chi mi ci porta», e lui mi disse: «Ti ci porto io», e io gli dissi: «Come?», e lui mi disse: «Montami sulla groppa», e così abbiamo volato tutta la notte, e poi la mattina tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero: «C’è un pover’uomo in una barchetta che sta per affogare», e io da lontano vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci cenno di tornare alla spiaggia…
– Ti riconobbi anch’io, – disse Geppetto, – e sarei volentieri tornato alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m’arrovesciò la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lì vicino, appena m’ebbe visto nell’acqua corse subito verso di me, e tirata fuori la lingua, mi prese pari pari, e m’inghiottì come un tortellino di Bologna.
 
– E quant’è che siete chiuso qui dentro? – domandò Pinocchio.
 
– Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio mio, che mi son parsi due secoli!
 
– E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?
 
– Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca, che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile. I marinai si salvarono tutti, ma il bastimento colò a fondo e il solito Pesce-cane, che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo aver inghiottito me, inghiottì anche il bastimento…
 
– Come? Lo inghiottì tutto in un boccone?… – domandò Pinocchio maravigliato.
 
– Tutto in un boccone: e risputò solamente l’albero maestro, perché gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel bastimento era carico di carne conservata in cassette di stagno, di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d’uva secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non c’è più nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l’ultima candela che mi sia rimasta…
 
– E dopo?…
 
– E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio.
 
– Allora, babbino mio, – disse Pinocchio, – non c’è tempo da perdere. Bisogna pensar subito a fuggire…
 
– A fuggire?… e come?
 
– Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.
 
– Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.
 
– E che importa?… Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io, che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.
 
– Illusioni, ragazzo mio! – replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo malinconicamente. – Ti par egli possibile che un burattino, alto appena un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle spalle?
 
– Provatevi e vedrete! A ogni modo, se sarà scritto in cielo che dobbiamo morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.
 
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti per far lume, disse al suo babbo:
 
– Venite dietro a me, e non abbiate paura. E così camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti che furono al punto dove cominciava la gran gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un’occhiata e cogliere il momento opportuno alla fuga.
 
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo d’asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormir a bocca aperta: per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
 
– Questo è il vero momento di scappare, – bisbigliò allora voltandosi al suo babbo. – Il Pescecane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me e fra poco saremo salvi.
 
Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in quell’immensa bocca cominciarono a camminare in punta di piedi sulla lingua; una lingua così larga e così lunga, che pareva il viottolone d’un giardino. E già stavano lì lì per fare il gran salto e per gettarsi a nuoto nel mare, quando, sul più bello, il Pesce-cane starnutì, e nello starnutire, dette uno scossone così violento, che Pinocchio e Geppetto si trovarono rimbalzati all’indietro e scaraventati novamente in fondo allo stomaco del mostro.
 
Nel grand’urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo rimasero al buio.
 
– E ora?… – domandò Pinocchio facendosi serio.
 
– Ora ragazzo mio, siamo bell’e perduti.
 
– Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!…
 
– Dove mi conduci?
 
– Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura.
 
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:
 
– Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte. Al resto ci penso io.
 
Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliuolo, Pinocchio, sicurissimo del fatto suo, si gettò nell’acqua e cominciò a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno così profondo, che non l’avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.
 
Finalmente Pinocchio cessa d’essere un burattino e diventa un ragazzo
 
Mentre Pinocchio nuotava alla svelta per raggiungere la spiaggia, si accorse che il suo babbo, il quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell’acqua, tremava fitto fitto, come se al pover’uomo gli battesse la febbre terzana.
 
Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa? Forse un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di paura, gli disse per confortarlo:
 
– Coraggio babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi.
 
– Ma dov’è questa spiaggia benedetta? – domandò il vecchietto diventando sempre più inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando infilano l’ago. – Eccomi qui, che guardo da tutte le parti, e non vedo altro che cielo e mare.
 
– Ma io vedo anche la spiaggia, – disse il burattino. – Per vostra regola io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno.
 
Il povero Pinocchio faceva finta di essere di buonumore: ma invece… Invece cominciava a scoraggiarsi: le forze gli scemavano, il suo respiro diventava grosso e affannoso… insomma non ne poteva più, la spiaggia era sempre lontana.
 
Nuotò finché ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse con parole interrotte:
 
– Babbo mio, aiutatemi… perché io muoio! E il padre e il figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono una voce di chitarra scordata che disse:
 
– Chi è che muore?
 
– Sono io e il mio povero babbo!…
 
– Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!…
 
– Preciso: e tu?
 
– Io sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane.
 
– E come hai fatto a scappare?
 
– Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada, e dopo te, sono fuggito anch’io.
 
– Tonno mio, tu capiti proprio a tempo! Ti prego per l’amor che porti ai Tonnini tuoi figliuoli: aiutaci, o siamo perduti.
 
– Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutt’e due alla mia coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva.
 
Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo accettarono subito l’invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono più comodo di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno.
 
– Siamo troppo pesi?… – gli domandò Pinocchio.
 
– Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchiglia, – rispose il Tonno, il quale era di una corporatura così grossa e robusta, da parere un vitello di due anni.
 
Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per aiutare il suo babbo a fare altrettanto; poi si voltò al Tonno, e con voce commossa gli disse:
 
– Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio in segno di riconoscenza eterna!…
 
Il Tonno cacciò il muso fuori dall’acqua, e Pinocchio, piegandosi coi ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non c’era avvezzo, si sentì talmente commosso, che vergognandosi a farsi veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott’acqua e sparì.
 
Intanto s’era fatto giorno.
 
Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena il fiato di reggersi in piedi, gli disse:
 
– Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo pian pianino come le formicole, e quando saremo stanchi ci riposeremo lungo la via.
 
– E dove dobbiamo andare? – domandò Geppetto.
 
– In cerca di una casa o d’una capanna, dove ci diano per carità un boccon di pane e un po’ di paglia che ci serva da letto.
 
Non avevano ancora fatti cento passi, che videro seduti sul ciglione della strada due brutti ceffi, i quali stavano lì in atto di chiedere l’elemosina.
 
Erano il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano più da quelli d’una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva finito coll’accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta perduta da una parte, non aveva più nemmeno la coda. Così è. Quella trista ladracchiola, caduta nella più squallida miseria, si trovò costretta un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciaio ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche.
 
– O Pinocchio, – gridò la Volpe con voce di piagnisteo, – fai un po’ di carità a questi due poveri infermi.
 
– Infermi! – ripetè il Gatto.
 
– Addio, mascherine! – rispose il burattino. – Mi avete ingannato una volta, e ora non mi ripigliate più.
 
– Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!
 
– Davvero! – ripetè il Gatto.
 
– Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice: «I quattrini rubati non fanno mai frutto». Addio, mascherine!
 
– Abbi compassione di noi!…
 
– Di noi!…
 
– Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «La farina del diavolo va tutta in crusca».
 
– Non ci abbandonare!…
 
– …are! – ripetè il Gatto.
 
– Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: «Chi ruba il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia».
 
E così dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per la loro strada: finché, fatti altri cento passi, videro in fondo a una viottola in mezzo ai campi una bella capanna tutta di paglia, e col tetto coperto d’embrici e di mattoni.
 
– Quella capanna dev’essere abitata da qualcuno, – disse Pinocchio. – Andiamo là e bussiamo.
 
Difatti andarono, e bussarono alla porta.
 
– Chi è? – disse una vocina di dentro.
 
– Siamo un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto, – rispose il burattino.
 
– Girate la chiave, e la porta si aprirà, – disse la solita vocina.
 
Pinocchio girò la chiave, e la porta si apri. Appena entrati dentro, guardarono di qua, guardarono di là, e non videro nessuno.
 
– O il padrone della capanna dov’è? – disse Pinocchio maravigliato.
 
– Eccomi quassù!
 
Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra un travicello il Grillo-parlante:
 
– Oh! mio caro Grillino, – disse Pinocchio salutandolo garbatamente.
 
– Ora mi chiami il «tuo caro Grillino», non è vero? Ma ti rammenti di quando, per scacciarmi di casa tua, mi tirasti un martello di legno?…
 
– Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me… tira anche a me un martello di legno: ma abbi pietà del mio povero babbo…
 
– Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati con pari cortesia nei giorni del bisogno.
 
– Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa bella capanna?
 
– Questa capanna mi è stata regalata ieri da una graziosa capra, che aveva la lana d’un bellissimo colore turchino.
 
– E la capra dov’è andata? –
 
– Non lo so.
 
– E quando ritornerà?… – domandò Pinocchio, con vivissima curiosità.
 
– Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva che dicesse: «Povero Pinocchio… oramai non lo rivedrò più… il Pesce-cane a quest’ora l’avrà bell’e divorato!…».
 
– Ha detto proprio così?… Dunque era lei!… Era lei!… era la mia cara Fatina!… – cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo dirottamente.
 
Quand’ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi e, preparato un buon lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò al Grillo-parlante:
 
– Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il mio povero babbo?
 
– Tre campi distante di qui c’è l’ortolano Giangio, che tiene le mucche. Và da lui e troverai il latte, che cerchi.
 
Pinocchio andò di corsa a casa dell’ortolano Giangio; ma l’ortoiano gli disse:
 
– Quanto ne vuoi del latte?
 
– Ne voglio un bicchiere pieno.
 
– Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto dal darmi il soldo.
 
– Non ho nemmeno un centesimo, – rispose Pinocchio tutto mortificato e dolente.
 
– Male, burattino mio, – replicò l’ortolano. – Se tu non hai nemmeno un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.
 
– Pazienza! – disse Pinocchio e fece l’atto di andarsene.
 
– Aspetta un po’, – disse Giangio. – Fra te e me ci possiamo accomodare. Vuoi adattarti a girare il bindolo?
 
– Che cos’è il bindolo?
 
– Gli è quell’ordigno di legno, che serve a tirar su l’acqua dalla cisterna, per annaffiare gli ortaggi.
 
– Mi proverò…
 
– Dunque, tirami su cento secchie d’acqua e io ti regalerò in compenso un bicchiere di latte.
 
– Sta bene.
 
Giangio condusse il burattino nell’orto e gl’insegnò la maniera di girare il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato su le cento secchie d’acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa ai piedi. Una fatica a quel modo non l’aveva durata mai.
 
– Finora questa fatica di girare il bindolo, – disse l’ortolano, – l’ho fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di vita.
 
– Mi menate a vederlo? – disse Pinocchio.
 
– Volentieri.
 
Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro.
 
Quando l’ebbe guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
 
– Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova!
 
E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:
 
– Chi sei?
 
A questa domanda, il ciuchino apri gli occhi moribondi, e rispose balbettando nel medesimo dialetto:
 
– Sono Lu…ci…gno…lo.
 
E dopo richiuse gli occhi e spirò.
 
– Oh! povero Lucignolo! – disse Pinocchio a mezza voce: e presa una manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giù per il viso.
 
– Ti commovi tanto per un asino che non ti costa nulla? – disse l’ortolano. – Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?
 
– Vi dirò… era un mio amico!…
 
– Tuo amico?
 
– Un mio compagno di scuola!…
 
– Come?! – urlò Giangio dando in una gran risata. – Come?! avevi dei somari per compagni di scuola!… Figuriamoci i belli studi che devi aver fatto!…
 
Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose: ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.
 
E da quel giorno in poi, continuò più di cinque mesi a levarsi ogni mattina, prima dell’alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare così quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese giornaliere. Fra le altre cose, costruì da sé stesso un elegante carrettino per condurre a spasso il suo babbo alle belle giornate, e per fargli prendere una boccata d’aria.
 
Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale mancavano il frontespizio e l’indice, e con quello faceva la sua lettura. Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna; e non avendo né calamaio né inchiostro, lo intingeva in una boccettina ripiena di sugo di more e di ciliege.
 
Fatto sta, che con la sua buona volontà d’ingegnarsi, di lavorare e di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente il suo genitore sempre malaticcio, ma per di più aveva potuto mettere da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo.
 
Una mattina disse a suo padre:
 
– Vado qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino e un paio di scarpe. Quando tornerò a casa, – soggiunse ridendo, – sarò vestito così bene, che mi scambierete per un gran signore.
 
E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando a un tratto sentì chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella Lumaca che sbucava fuori della siepe.
 
– Non mi riconosci? – disse la Lumaca.
 
– Mi pare e non mi pare…
 
– Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata dai capelli turchini? Non ti rammenti di quella volta, quando scesi a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell’uscio di casa?
 
– Mi rammento di tutto, – gridò Pinocchio. – Rispondimi subito, Lumachina bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? Che fa? Mi ha perdonato? Si ricorda sempre di me? Mi vuol sempre bene? E’ molto lontana da qui? Potrei andare a trovarla?
 
A tutte queste domande fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato, la Lumaca rispose con la sua solita flemma:
 
– Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!…
 
– Allo spedale?…
 
– Pur troppo! Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata e non ha più da comprarsi un boccon di pane.
 
– Davvero?… Oh! Che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina! Povera Fatina! Povera Fatina!… Se avessi un milione, correrei a portarglielo… Ma io non ho che quaranta soldi… eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e và a portarli subito alla mia buona Fata.
 
– E il tuo vestito nuovo?…
 
– Che m’importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Và, Lumaca, spicciati: e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e fra due giorni ti aspetto.
 
La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola nei grandi solleoni d’agosto.
 
Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:
 
– E il vestito nuovo?
 
– Non m’è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!… Lo comprerò un’altra volta.
 
Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino alla mezzanotte suonata; e invece di far otto canestre di giunco ne fece sedici.
 
Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato un bacio, gli disse così.
 
– Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità, meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser citati come modelli d’ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio per l’avvenire, e sarai felice.
 
A questo punto il sogno finì, e Pinocchio si svegliò con tanto d’occhi spalancati.
 
Ora immaginatevi voi quale fu la sua maraviglia quando, svegliandosi, si accorse che non era più un burattino di legno: ma che era diventato, invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dette un’occhiata all’intorno e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante. Saltando giù dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto nuovo e un paio di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.
 
Appena si fu vestito gli venne fatto naturalmente di mettere la mani nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d’avorio, sul quale erano scritte queste parole: «La Fata dai capelli turchini restituisce al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo buon cuore». Aperto il portamonete, invece dei quaranta soldi di rame, vi luccicavano quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca.
 
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d’essere un altro. Non vide più riflessa la solita immagine della marionetta di legno, ma vide l’immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli castagni, cogli occhi celesti e con un’aria allegra e festosa come una pasqua di rose.
 
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre, Pinocchio non sapeva più nemmeno lui se era desto davvero o se sognava sempre a occhi aperti.
 
– E il mio babbo dov’è? – gridò tutt’a un tratto: ed entrato nella stanza accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buonumore, come una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d’intagliatore in legno, stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali.
 
– Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento improvviso? – gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo di baci.
 
– Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo, – disse Geppetto.
 
– Perché merito mio?…
 
– Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtù di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all’interno delle loro famiglie.
 
– E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
 
– Eccolo là, – rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
 
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
 
– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!… e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…
 
Collodi Carlo (pseudonimo di Carlo Lorenzini)

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